A proposito di relazione e interpretazione …
(Abbiamo ricevuto, come Commento all'articolo di Giovanna Bosco dal titolo "Dal tramonto dei modelli intrapsichici all'orientamento relazionale", questo contributo di Pierluigi Sommaruga. Per l'ampiezza delle riflessioni e l'interesse dell'esperienza clinica cui fa riferimento, si è ritenuto opportuno pubblicarlo come un vero e proprio intervento)
di Pierluigi Sommaruga
Sullo scritto di Giovanna Bosco "Dal tramonto dei modelli intrapsichici all'orientamento relazionale" ci sarebbe molto da dire, ma ciò che mi ha più colpito è un preciso riferimento al “relazionale” usato come etichetta. Condivido il suo excursus sull’evoluzione della psicoanalisi, quasi parallelo a un bell’articolo di Imbasciati sullo stesso soggetto pubblicato a marzo su “Gli Argonauti”, ma mi chiedo con lei perché questo concetto che sembra così elementare vada riscoperto continuamente nelle scienze umane.
In realtà la ricerca di un modello è sempre stata un'attrazione irresistibile per tutti coloro (filosofi, antropologi, biologi, psicologi, psichiatri) che si sono chiesti perché siamo fatti così. Un modello potente è stato quello genetico, che come l’Araba Fenice viene demolito per ricomparire più vivo che mai (specie nella letteratura popolare con l’annuncio che è stato scoperto il gene del….) anche se oggi si sa che l’azione di un gene si esplica solo in relazione all’ambiente che la circonda e il gene stesso può modificarsi e diventare altro in particolari circostanze della sua vita. Non a caso oggi non si parla tanto di genetica ma piuttosto di epigenetica.
Così nella teorizzazione psicoanalitica non ci si riferisce più a dei modelli intrapsichici individuali ma a dei modelli relazionali. Ma è come la scoperta dell’acqua calda: tutto in natura è relazionale, dato che non esiste un essere vivente, a qualunque livello evolutivo sia collocato, se non in relazione al suo ambiente.
Negli anni 60 Elias, cofondatore con Foulkes della Group-Analytic Society, in “il processo di civilizzazione” e altri scritti delineò lo sviluppo della società umana, in cui nuove invenzioni nel campo economico e religioso determinano uno sviluppo della società che richiede un'ulteriore complessificazione della stessa e quindi la necessità per tutti i suoi membri di sviluppare nuove competenze relazionali. Più recentemente, per completare il circolo temporale, Cazzaniga in “Chi comanda?” (2011) ripropone il tema del libero arbitrio in relazione alla nostra evoluzione biologica e sociale e riprende con forza il termine sempre più condiviso di mente sociale. Quindi il parlare (per citare Giovanna) di psicoterapie a indirizzo relazionale è come dire che l’acqua è l’acqua. Ogni terapia è necessariamente legata all’essere in relazione di due o più persone, e tutto ciò che avverrà è riferibile a questa relazione, in cui si riattualizzano tutte le esperienze vissute in passato dai partecipanti al gioco.
Oggi possiamo dire che il nostro modo di sentire, pensare e agire è determinato dalle nostre esperienze primariamente interpersonali ma anche biologiche (traumi, malattie ecc.) alcune delle quali più o meno coscienti altre invece irrimediabilmente perse nella loro comunicabilità. L’interpretazione psicoanalitica classica aveva il suo punto di forza nell’ipotesi di rendere conscio ciò che era inconscio. Oggi sappiamo che di quelle esperienze che hanno costruito i nostri circuiti sinaptici possiamo solo recuperare le risonanze emotive che cogliamo nel cosiddetto transfert e in particolare in quelle comunicazioni non verbali che giustamente valorizza Giovanna Bosco e, aggiungerei io, nel sogno. Credo che il nostro compito come terapeuti sia di utilizzare questi dati per stimolare nel nostro interlocutore la curiosità e il desiderio di affrontare nuove esperienze, a partire da quelle che vive nel rapporto con noi. Se è stato ciò che ha sperimentato a forgiare la sua mente attuale, saranno solo nuove esperienze relazionali a produrre cambiamenti, a innescare nuovi circoli di conoscenze emotive. Perché essenzialmente tutti coloro che chiedono il nostro aiuto (e questo è vero sia nella psicoterapia che nella formazione) ci chiedono senza saperlo di aiutarli a stabilire nuovi modelli relazionali al posto di quelli stereotipatamente ripetitivi a cui oggi sono costretti, in altre parole a raggiungere una maggior competenza relazionale. Non ci chiedono di capire, ma di cambiare, anche se solitamente in modo un po’ magico. E questo cambia il ruolo dell’interpretazione, tanto che oggi non saprei bene cosa vuol dire interpretare.
Per cercare di farmi capire porto un'esperienza di qualche giorno fa. La cosiddetta “paziente” mi appare con un elegante abito sportivo, del tutto diverso dagli opachi abbigliamenti consueti, che la fa sembrare più giovane e più attraente. Le faccio notare il cambiamento. Sorride, e mi dice che ha fatto dei sogni che vorrebbe raccontarmi. E poi vorrebbe farmi una domanda che la imbarazza, da un po’ ci pensa, ne ha parlato con una collega che è stata in analisi e che le ha detto che era legittima. “Dottore, se dovesse raccontare a qualcuno di me, raccontarmi, cosa direbbe?”. Sono un po’ imbarazzato, ci penso un momento e poi le dico: “Sono un po’ imbarazzato. Saprei raccontare quello che le è accaduto nella vita, cosa pensa di voler fare e cosa fa, certe emozioni che prova, ma certe cose sue…che ne so…cosa fantastica la sera prima di addormentarsi quando non è occupata da pensieri su quello che deve fare non lo conosco ancora”. Lei ha un piccolo sorriso imbarazzato e poi dice che il farsi vedere, attirare l’attenzione degli altri l’ha sempre messa in difficoltà. “Già alle elementari un compagno mi ha detto che ero carina e non sapevo dove nascondermi”.
Parla a lungo di questo suo problema, poi le chiedo “e i sogni?” E lei li racconta. Nell’ultimo sogno, quello della notte prima, sono arrivati i nazisti. Qualcuno le dice che lei, come gli altri ebrei che sono in quella casa sconosciuta, deve nascondere la sua identità, distruggere ogni traccia del suo essere ebrea. Ma lei vuole conservare delle foto che le sono care, anche se è pericoloso. Le nasconde alla meglio. Entrano i nazisti, le parlano, non sospettano nulla, eppure lei lancia delle frasi ambigue, lascia delle tracce, come se volesse farsi scoprire. Si sveglia, un po’ spaventata, e si domanda come può essere stata così stupida. Non avrebbe dovuto agire così. Chissà perché. E io ”Perché io sono un nazista”. Lei sobbalza “Noo dottore!” E io le dico che teme sempre che io e gli altri siamo nazisti, ha delle istruzioni interne di nascondere chi è lei veramente, ma oggi ha voglia di farsi riconoscere da me, anche se ha paura di quel che succederà se cambia il suo modo di essere con me”. Assente e parliamo di questa sé tanto a lungo nascosta.
Forse quello che ho detto è stata un'interpretazione, ma non certo nel senso di rendere conscio quello che era inconscio. Semplicemente ho detto qualcosa che tutt’e due sapevamo ma non si poteva dire. Quello che è importante è che la mia interlocutrice potesse vestirsi così e farmi quella domanda. Non so bene attraverso quale via condivisa ha fatta un'esperienza nuova e l’ha fatta fare a me.
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