GRUPPI-GRUPPOANALISI

I CIECHI E L’ELEFANTE: ci vuole un sguardo largo per comprendere la violenza di genere

di Giovanna Bosco

 

Sommario

Oltre a portare l’attenzione sul tema specifico della violenza di genere alla luce delle contrapposizioni emerse recentemente sulla questione dei femminicidi, lo scritto introduce elementi di riflessione su come accostarsi a problematiche che hanno una genesi multifattoriale, partendo dal presupposto che i diversi punti di vista e le conoscenze derivanti da diverse discipline possono contenere elementi di verità ma non sono tutta la Verità.  Per integrare lo sguardo psicoanalitico con l’analisi socioculturale, viene utilizzato il concetto di “inconscio sociale”, sviluppato nell’ambito della Gruppoanalisi.

Vengono pure riportati spezzoni di casi clinici, mettendo in rilievo quanto gli stessi psicoterapeuti, in quanto maschi o femmine, possano essere influenzati inconsapevolmente, nel corso della loro attività, dal proprio “inconscio sociale”, sia nella relazione con i pazienti  sia quando c’è  una triangolazione in cui un curante maschio e una curante donna collaborano, con funzioni diverse, al progetto di cura rivolto a un/una  paziente.

Si sollecita infine a pensare agli uomini che esercitano violenza nei confronti delle donne non solo come colpevoli da sanzionare e fonte di pericolo da sottoporre a restrizioni, e neppure soltanto come un prodotto della cultura patriarcale, ma anche come persone che sono anch’esse bisognose di una presa in carico psicoterapeutica, restituendo loro la dimensione soggettiva.

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La parabola dei ciechi e dell’elefante

La polemica che si è accesa recentemente a proposito della violenza sulle donne, ed in particolare dei “femminicidi”, e che ha visto anche personaggi di un certo spessore culturale mettere in campo spiegazioni parziali e contrapposte, mi ha fatto tornare alla mente la storia dell’elefante e dei ciechi. Si tratta di una parabola che compare già anticamente nelle scritture del Buddismo, e che in seguito ha dato vita a numerose versioni, anche in Occidente.

Nella versione originaria la storia è ambientata in una località dell’India, dove un gruppo di dotti e scienziati litigavano continuamente, tanto che in quella città regnava la confusione. Su qualsiasi argomento ognuno riteneva di conoscere la Verità e nemmeno ascoltava ciò che l’altro aveva da dire. Tra loro c’era un saggio che per porre fine ai litigi raccontò al gruppo questa storia:

“in un tempo lontano c’era un Re che un giorno mandò a chiamare  coloro che erano nati ciechi. Dopo che questi si furono raccolti in una piazza fece portare nello stesso luogo un elefante, e chiese ai ciechi di dire a cosa somigliava. A seconda del punto in cui si trovava e della parte dell’animale che aveva vicino e che poteva toccare ognuno diceva una cosa diversa. Chi sentiva la proboscide diceva “il ramo di un albero”, chi toccava le zampe “le colonne di un tempio”, chi toccava la coda diceva che era “la fune di una barca”, chi stava presso il ventre dell’elefante “un granaio” e così via.  Ed erano così convinti della loro idea che volavano gli insulti perché nessuno era disposto a mettere in dubbio quello che aveva pensato. Il Re decise allora di aiutarli a capire invitandoli a cambiare posizione in modo da toccare quello che avevano toccato gli altri, e poi a parlarsi tra loro. Così alla fine tutti poterono formarsi un’idea migliore di come fosse un elefante”.

L’implicito della parabola è che gli esseri umani tendono a considerarsi detentori della Verità assoluta, ignorando il punto di vista delle altre persone, senza rendersi conto che solo prendendo in considerazione più punti di vista si può arrivare a conoscere davvero.

Quando poi ci accostiamo a fenomeni complessi, rischiamo di perderci in sterili contrapposizioni se assumiamo come Verità assoluta delle prospettive parziali, che permettono di cogliere solo  alcuni aspetti di un problema, quelli che ciascuno può toccare con mano (l’esperienza soggettiva) oppure riesce a mettere a fuoco attraverso le particolari lenti fornite dal proprio sapere (sociologico, antropologico oppure psicologico, storico, giuridico).

 

Il femminicidio, forma specifica di crimine che sollecita l’integrazione tra più punti di vista: socioculturale, storico, psicologico, giudirico

A proposito dei femminicidi, abbiamo sentito affermare che essi sono il prodotto della società “patriarcale”, mentre altri sostengono con altrettanta sicurezza che il patriarcato è morto da tempo.

Anche restringendo il campo alla psicologia e in particolare a coloro che avanzano interpretazioni psicoanalitiche del fenomeno, per lo più su sollecitazione dei media, emergono talvolta visioni contrastanti. Così, riguardo alla personalità degli autori dei femminicidi, c’è chi ritiene che sia l’eccesso di accudimento e l’iperprotezione materna prolungata fino all’età adulta, insieme all’evanescenza della figura paterna, a caratterizzare la personalità degli autori dei femminicidi. Altri al contrario riconducono la fragilità di colui che, sentendosi annientato dall’abbandono, uccide l’oggetto da cui dipende, ad una profonda ferita narcisistica insorta precocemente per via delle carenze della figura materna, e ad un inconscio desiderio di distruggere una madre indifferente o svalutante.

In realtà non esiste un unico profilo del femminicida, e comunque sappiamo troppo poco sugli uomini che esercitano violenza sulle donne. Mentre c’è una conoscenza più specifica di ciò che può indurre donne di ogni ceto sociale a restare imprigionate in relazioni abusanti, perché sono ormai molte le donne che hanno ricevuto sostegno psicologico da parte di un Centro Antiviolenza o che hanno intrapreso una psicoterapia, non ne sappiamo abbastanza di ciò che spinge una parte degli uomini agli abusi, ai maltrattamenti, alla violenza fisica e psicologica verso la donna con cui hanno o hanno avuto una relazione intima.

Come tutti i crimini, anche i femminicidi, e più in generale le varie forme di violenza di genere, di cui i femminicidi rappresentano la punta dell’iceberg, non possono essere compresi senza considerare il modo in cui vengono ad interagire tra loro un insieme di fattori: da quelli socio-culturali a quelli psicologici a quelli politici. Anche per quanto riguarda i fattori psicologici, si diventa ciechi quando si fanno rientrare meccanicamente  tutti i casi di femminicidio o comunque di violenza di genere in un profilo psicologico e familiare predeterminato, sulla base delle proprie specifiche e necessariamente limitate esperienze personali o cliniche e della Teoria di riferimento che ci è più congeniale.

Tralascerei qui di considerare i fattori politici, dal momento che certe affermazioni sulla causa dei femminicidi, prevenienti da alcuni personaggi che ricoprono oggi posizioni chiave all’interno delle istituzioni, travalicano la questione delle verità parziali scambiate per la sola e intera Verità, come nella parabola dei ciechi e dell’elefante. Discuterne qui ci porterebbe ad un altro ordine di riflessioni: più che di verità parziali e di cecità che impedisce di vedere l’oggetto nel suo complesso, viene da pensare a un Re o a dei dignitari di corte che approfittano della cecità dei sudditi per portarli del tutto fuori strada, facendo loro credere che l’elefante sia il solito drago che viene chiamato in causa ogni volta che i sudditi hanno paura di qualcosa o protestano per qualche problema che li affligge. Soffrono la fame? E’ colpa del drago che è sceso dai monti a mangiare tutti i raccolti. E’ stata uccisa una donna dal marito? Il colpevole è il drago, entrato illegalmente in città.  E così via, secondo uno schema collaudato che devia l’attenzione dalla fonte del problema e dirige contro un capro espiatorio le emozioni che esso suscita.

Tralasciando le storie di draghi tanto care ad alcuni personaggi che detengono il potere, e tornando alle diatribe tra ciechi, già il termine “femminicidio”, introdotto dalla criminologa Diana Russell nel 1992, non è da tutti accettato. Perché creare una parola specifica per quegli omicidi che hanno come vittime le donne, e più precisamente le donne uccise per mano di un uomo? Accettare oppure respingere questa parola ha a che fare con ciò che si vuole illuminare oppure tenere in ombra.  Il termine “femminicidio” fa uscire dalla genericità della categoria degli omicidi e quindi porta all’attenzione un fenomeno specifico e permette di raccogliere dati statistici su di esso e di studiarlo, riconoscendone la rilevanza sociale. Come si legge sull’Enciclopedia Treccani alla voce “femminicidio”: “oggi la categoria criminologica del femminicidio ha un ruolo fondamentale per consentire di distinguere a livello mondiale quanti, tra gli omicidi di donne e bambine, siano una manifestazione della violenza maschile sulle donne” E ancora: “purtroppo è molto difficile la raccolta e la comparazione di questi dati, perché a livello statistico non tutte le autorità dei vari Paesi rilevano i dati relativi alla relazione tra l’autore e la vittima”, rendendo così impossibile distinguere tra un femminicidio e un omicidio”.  Queste parole mi hanno permesso di riconoscere un aspetto della questione cui non avevo fino ad ora pensato: l’introduzione del concetto di “femminicidio” consente di distinguere i casi in cui le donne vengono uccise per motivi occasionali, da quelli in cui sono uccise proprio in quanto donne.

Nella categoria criminologica del femminicidio rientrano dunque gli omicidi di donne da parte del partner o ex partner, quindi nell’ambito di una relazione intima, presente o passata, per lo più reale anche se talvolta solo fantasmatica, ed inoltre gli omicidi di prostitute da parte del cliente o sfruttatore e ogni altro caso in cui la donna viene uccisa a causa delle relazioni di genere.

C’è da chiedersi se il concetto di “femminicidio” mette a fuoco un fenomeno davvero rilevante dal punto di vista sociale, che merita di essere approfondito nella sua specificità. Guardando ai dati statistici, questi ci dicono che mentre il numero complessivo di omicidi volontari di qualsiasi natura, compiuti a danno di uomini e donne, senza distinzione di genere, è andato diminuendo nel corso degli ultimi anni, non accenna invece a diminuire il dato annuale sui femminicidi. Il numero di omicidi volontari di uomini si è infatti dimezzato negli ultimi 25 anni per effetto di una progressiva riduzione delle uccisioni ad opera della criminalità organizzata, mentre il fenomeno dei femminicidi resta quantitativamente costante da quando abbiamo dati statistici. Va anche detto che in più della metà dei casi le donne sono vittime della violenza omicida tra le mura domestiche, o comunque nell’ambito delle loro presenti o passate relazioni di coppia.

 

Uno sguardo alle statistiche sui femminicidi e sui modelli culturali che alimentano la violenza sulle donne

I femminicidi, che colpiscono in modo particolare l’opinione pubblica, sono la punta dell’iceberg del fenomeno ben più diffuso della violenza di genere, una violenza che può essere di natura psicologica (una forma di abuso emotivo basato sulla denigrazione, colpevolizzazione, manipolazione della donna), economica (esclusione della donna dalla gestione delle risorse economiche, anche se derivanti dal suo lavoro, per accentuare la sua dipendenza) o fisica. Spesso si ha una combinazione di più forme di violenza.

Questo non significa che, nell’ambito delle relazioni di genere, siano sempre ed esclusivamente le donne ad essere vittime di abusi e che non possa accadere il contrario, soprattutto se si considerano gli abusi di natura psicologica. Tuttavia la violenza di genere colpisce in modo ben più diffuso le donne. Senza  annoiare con troppi dati statistici, mi pare eloquente un indicatore indiretto di tipo culturale. Nel 2018 l’Istat, su incarico della Commissione Parlamentare di inchiesta sul femminicidio e sulla violenza di genere,  ha effettuato varie indagini per studiare e riferire sui vari aspetti del fenomeno. Ha tra l’altro intervistato un vasto campione (più di 15.000 persone, uomini e donne, dai 18 ai 74 anni), per indagare sui modelli culturali che alimentano la violenza sulle donne.  E’ risultato che il 25% delle persone intervistate (27% degli uomini e 23% delle donne) “ritengono accettabile il controllo dell’uomo sulle attività della compagna e la violenza contro di lei tramite schiaffi”.  Anche il sottogruppo dei giovani non si discosta molto da questi dati percentuali. Questi dati segnalano che i modelli culturali che tendono a considerare “normale” la violenza di genere, per lo meno nelle sue forme meno eclatanti, sono stati interiorizzati profondamente non solo da un ampio numero di uomini ma anche dalle stesse donne (e che tanti, troppi giovani restano vincolati da tali modelli).

 

Donne invischiate in relazioni abusanti e aspetti co-transferali nel rapporto psicoterapeutico: un caso clinico

La mia esperienza clinica  mi ha portata più volte a scoprire che anche le donne invischiate in relazioni abusanti hanno spesso forti resistenze a riconoscere gli aspetti disfunzionali dei rapporti che instaurano e soprattutto ad uscire da queste relazioni.  Si ritiene solitamente che non possano farlo a causa della loro dipendenza economica dal partner, e per la difficoltà ad affrontare la vita da sole se hanno figli, vuoi per l’indifferenza, talvolta perfino il biasimo, di familiari, amici e conoscenti, vuoi per l’assenza di strutture e interventi pubblici a sostegno e tutela delle donne e madri vittime di violenza. Questa indifferenza e minimizzazione del problema da parte del mondo circostante è un aspetto importante del problema, che non bisogna sottovalutare e che va combattuto, tuttavia non è il solo. Anche donne apparentemente emancipate, che hanno un lavoro abbastanza qualificato, che garantirebbe loro una relativa indipendenza economica, tendono a negare la parte che loro stesse hanno avuto fin dall’inizio e che continuano ad avere nell’instaurare una relazione di coppia disfunzionale. E’ possibile che queste donne, oltre ad aver introiettato la cultura patriarcale, facciano fatica a riconoscere una relazioni abusante perché hanno avuto scarsa esperienza, nel corso della loro vita, di relazioni affettive sane.

Una mia paziente con un buon livello culturale e un lavoro interessante aveva lasciato che fosse il marito a gestire anche il suo stipendio, e aveva smesso di frequentare la propria madre ed il proprio fratello, arrivando a parlare con loro solo al telefono e solo di nascosto dal marito, pur di non contrariarlo. Alcuni familiari, pur adattandosi alle sue scelte, avevano manifestato la loro disponibilità ad aiutarla in caso di bisogno. La donna era turbata dal fatto che il coniuge stava incominciando a ricorrere anche a forme di violenza fisica (ad esempio, un giorno, avendo lei protestato per certi comportamenti del marito e avendo manifestato l’intenzione di andare a fare un giro fuori casa per sottrarsi al clima domestico, l’uomo l’aveva intenzionalmente chiusa in casa per qualche ora sottraendole le chiavi). Diceva che avrebbe voluto lasciarlo ma che non poteva mettere in pratica questo desiderio perché aveva un figlio piccolo ed era sola, non aveva nessuno su cui contare. Eppure, oltre alla madre e al fratello, che si dicevano disposti a sostenerla, aveva anche un’amica che si era più volte resa disponibile per andare a prendere il figlio a scuola quando lei non poteva, tenendolo a casa sua in compagnia del suo stesso figlio finché la paziente non fosse tornata dal lavoro. Tuttavia quest’ultima aveva iniziato a tenere anche questa amica a distanza per non irritare il marito, colludendo con il bisogno dell’uomo di isolarla da tutti, per renderla sempre più dipendente da lui. C’erano sedute in cui sembrava aprirsi alla consapevolezza degli aspetti tossici della relazione, tuttavia dopo ognuna di queste aperture mi pareva di tornare con lei alla casella di partenza. Quando questo accadeva mi chiedevo cosa non avevo capito, dove avevo sbagliato. Il fatto è che intraprendere una psicoterapia con pazienti di questo tipo espone anche il terapeuta o la terapeuta a vissuti di inadeguatezza (come se le pazienti facessero vivere anche al terapeuta quel senso di incapacità che probabilmente deriva dalle loro precedenti vicissitudini relazionali ma che viene amplificato dalle continue critiche e svalutazioni del partner). Diventa perciò indispensabile, in questo tipo di lavoro, elaborare i propri vissuti co-transferali.

Modelli culturali delle relazioni di genere interiorizzati dai professionisti della cura, uomini e donne –  un caso clinico

E’  importante saper riconoscere quanto anche noi stesse/i continuiamo ad essere influenzati, a livello profondo, in quanto uomini o in quanto donne, dai modelli culturali di genere che abbiamo interiorizzato. Chi fa il nostro mestiere dovrebbe aver fatto un percorso personale approfondito. Di solito questo ci rende consapevoli delle modalità relazionali che si sono impresse in noi in quanto figli attraverso la relazione con la madre e il padre o altri caregiver e dei nostri vissuti rispetto a fratelli e sorelle, se ne abbiamo avuti. Un po’ meno, solitamente, si è consapevoli dei modelli culturali di genere interiorizzati, non solo sulla base delle prime esperienze realizzate nella famiglia di origine, ma anche in seguito, vivendo in un mondo sociale.

A questo proposito il mio pensiero va ad una vicenda accaduta una ventina di anni fa. Una donna che soffriva di una grave depressione (non si trattava  in questo caso di una problematica riconducibile al suo rapporto di coppia), si era rivolta a me come “ultima spiaggia”, avendo alle spalle vari TS e tentativi precedenti di terapia abortiti con psicoanalisti e psichiatri. Dopo un primo anno in cui la psicoterapia sembrava procedere in modo fruttuoso, era nuovamente caduta in uno stato di forte depressione e di ritiro relazionale. Oltre ad introdurre delle modifiche del setting che si rivelarono particolarmente opportune per sciogliere il suo congelamento relazionale, accennai al fatto che in quella fase poteva essere utile rivedere la terapia farmacologica che lei stava seguendo su prescrizione del medico di base. La paziente mi chiese se potevo indirizzarla, per la prescrizione di psicofarmaci, ad uno psichiatra che avesse “un orientamento simile al mio”, dal momento che con i precedenti si era trovata male. Avevo individuato un collega psichiatra che non era un organicista e che, oltre alla formazione come psichiatra, aveva fatto un percorso analitico personale,  gli avevo dato qualche informazione essenziale sulla paziente ed avevo chiarito (o almeno così mi pareva) i limiti dell’invio, affinché potessimo procedere in parallelo svolgendo funzioni diverse (io la psicoterapia, lui la terapia farmacologica) senza contrastarci.

Grande fu il mio sconcerto quando un po’ di tempo dopo, mentre la paziente incominciava a riaprirsi alle relazioni a condizione di sentirsi accolta in modo saldo ma anche delicato, la stessa, dopo un incontro con lo psichiatra, mi riferì che si era sentita molto a disagio con lui perché quest’ultimo, dopo averle chiesto a freddo come andavano i rapporti sessuali con il marito (l’assunzione degli psicofarmaci può effettivamente interferire con la vita sessuale) di fronte alla sua risposta evasiva (credo che la paziente non avesse rapporti sessuali non solo e non tanto per effetto degli psicofarmaci ma perché si trattava di qualcosa di prematuro rispetto al  percorso che stava facendo) l’aveva sollecitata ad essere un po’ più “geisha”.  Avvertii l’eco di certe fantasie maschili sulla potenza curatrice del pene. Mi chiesi  anche se per caso non avessi io stessa inconsapevolmente autorizzato il collega ad interferire con la mia funzione  psicoterapeutica, senza cogliere la problematicità di certe comunicazioni sotterranee tendenti a collocarmi nella posizione della “geisha”.

Questo episodio mi indusse a ripensare  come mio padre mi trattava in quanto femmina…  come si poneva in quanto maschio nei  confronti di mia madre e lei con lui … e ancora ciò che, in seguito, avevo introiettato  attraverso le letture, i film, le esperienze avute, da adolescente e poi da adulta, al fine di poter accompagnare la paziente nel riconoscimento e nella elaborazione dei  suoi vissuti rispetto ad un “maschile” che usa il linguaggio della passione  senza chiedersi se questo sia gradito alla donna cui si rivolgeva e, nel caso specifico, se corrispondesse ai bisogni emotivi della paziente (vedi J. Cremerius,  “Il linguaggio della tenerezza e il linguaggio della passione”, 1984)  Questo lavoro le permise di esprimere il suo disagio con lo psichiatra senza troncare il rapporto, come aveva fatto con altri curanti in passato. Sostenuta in parallelo da me attraverso un colloquio di chiarificazione con io ebbi con il collega, quando lo rivide gli disse che non desiderava discutere con lui della sua vita sessuale.   Qualche  mese  dopo si sentì in grado di ridurre e in seguito di rinunciare del tutto agli psicofarmaci e il suo rapporto con lo psichiatra terminò.  Il nostro percorso psicoterapeutico proseguì per diverso tempo fino alla positiva conclusione.  Anche dopo la fine della terapia continuò per un paio di anni a farmi recapitare per Natale una decorazione fatta con le sue mani, da appendere all’albero.

 

I modelli culturali sopravvivono inconsciamente ai cambiamenti della struttura della società

Sia nel lavoro psicoterapeutico, con singoli pazienti o con gruppi, sia nell’accostarsi a fenomeni complessi oltre che socialmente rilevanti, com’è il caso dei femminicidi, diventa importante allargare lo sguardo, in modo da tenere insieme gli aspetti sociali, culturali e psichici, possibilmente non limitandosi a  sommare osservazioni fatte da vertici diversi, ma piuttosto arrivando ad un’integrazione tra diversi vertici osservativi. A proposito del rapporto tra femminicidi e patriarcato abbiamo visto esprimere posizioni radicalmente contrapposte e comunque riduttive. In particolare,  all’idea che chi commette femminicidio è un “un figlio sano del patriarcato” (gridata nelle piazze a seguito dell’uccisione di Giulia Cecchettin da parte di un “bravo ragazzo” del suo stesso ambiente) è stata contrapposta l’asserzione che il patriarcato appartiene ad un passato e che non esiste più da decenni, adducendo come prova il fatto che le norme giuridiche di matrice patriarcale sono state abolite o superate da nuove norme, come la riforma del  Diritto di Famiglia che nel 1975  ha abolito la Patria Potestà.

In sociologia il termine patriarcato sta a indicare un assetto sociale in cui sono gli uomini a detenere il potere ed a stabilire cosa è lecito e cosa non lo è, cosa è bene e cosa è male nella società, tanto nella sfera pubblica quanto in quella domestica. Così nella famiglia “patriarcale” è il padre o la figura paterna a esercitare l’autorità nei confronti della donna e dei figli.

Sicuramente il processo di emancipazione femminile, che a partire dall’ultimo dopoguerra ha fortemente messo in discussione i rapporti tra i generi, ha modificato profondamente la struttura sociale. Quando i cambiamenti sono profondi si traducono anche in modifiche sul piano legislativo, che sanciscono  che da quel momento determinati aspetti della società sono regolati da nuove norme. Non si può tuttavia restringere un fenomeno così complesso e millenario ai soli aspetti giuridici, senza considerare quanto, degli assetti sociali precedenti, sopravvive a livello culturale, nella prassi e nell’”inconscio sociale”.

D’altro lato attribuire i femminicidi in modo esclusivo al patriarcato, vedendoli come una manifestazione “normale” dello stesso, è una modalità difensiva che, ponendo la responsabilità per intero nella società e nella politica deresponsabilizza chi li commette, e non sollecita neppure le donne a riconoscere fin dall’inizio quando una relazione affettiva è disfunzionale, cosa le ha spinte a legarsi a “quel” partner,  cosa le induce a permettergli di maltrattarla, quasi fosse un destino a cui non ci si può sottrarre, o ancora, anche quando tentano di liberarsi di un rapporto fatto di violenze e abusi, a non riuscire a chiudere la porta in modo definitivo, ad illudersi di poter redimere Barbablù, non appena questi si dichiara pentito oppure afferma di non poter vivere senza di loro, o ancora a sentirsi in obbligo di soccorrerlo quando le ricatta con la minaccia del suicidio.

Il concetto di Inconscio Sociale

Il concetto di Inconscio Sociale, sviluppato dalla Gruppoanalisi ci aiuta ad avere una visione  più dinamica e complessa delle relazioni di genere disfunzionali.  La Gruppoanalisi, nata dall’incontro tra la psicoanalisi e alcune elaborazioni della sociologia (vedi in particolare Kurt Lewin) e dell’antropologia, è molto di più di una pratica psicoterapeutica in cui il lavoro psicoterapeutico svolge in gruppo.  Al contrario l’approccio gruppoanalitico può essere adottato anche nell’attività psicoterapeutica svolta con singoli pazienti, perché si tratta di una vera e proprio cambiamento teorico e di metodo, che considera l’individuo non come entità isolata all’interno del quale emergono e si scontrano diverse forze e pulsioni, ma come punto nodale di una rete di relazioni sociali. Per la Gruppoanalisi anche ciò che chiamiamo “mondo interno” deriva da ciò che si è impresso in noi attraverso le esperienze fatte nel “mondo esterno”, ossia nelle relazioni che abbiamo sperimentato a partire dalla famiglia d’origine ma più in generale nei segmenti della società di cui abbiamo fatto e facciamo parte.

Ed è proprio questo sguardo più largo, nato dall’incontro tra più saperi, che ha permesso di sviluppare il concetto di “inconscio sociale”. Esso è stato definito da Earl Hopper (1996) come un insieme di vincoli di origine sociale, culturale e comunicativa, di cui si è inconsapevoli. Sono inconsapevoli nella misura in cui “non sono percepiti (non conosciuti), e se percepiti non sono riconosciuti (ossia sono negati), e anche se sono riconosciuti non vengono considerati problematici, e se ritenuti problematici  non sono presi in considerazione in modo adeguato”

Di solito non ci si rende conto di quante nostre idee sull’essere uomini e essere donne, e sui rapporti tra i generi, hanno la loro origine nel sociale, ossia dipendono dalla specifiche esperienze che abbiamo sperimentato prima nella famiglia di origine, poi nelle vari altre articolazioni della società: amicizie, scuola, rapporti di lavoro, gruppi di cui abbiamo fatto e facciamo parte, comunicazioni mediatiche a cui siamo esposti. Tutto questo agisce in noi influenzando i nostri vissuti e comportamenti, per lo più senza che ne siamo consapevoli.

Si tratta di idee e rappresentazioni inconsce, che ci inducono a pensare e dire “è naturale, che sia così”, “è ovvio, non può essere che così”. Restano fuori dalla consapevolezza le specifiche esperienze da cui originano. Oppure, come sottolinea Hopper, quelle esperienze sono coscienti, ma non si riconosce il legame tra quel passato e il modo in cui noi sentiamo e ci comportiamo nel presente, e tra il “fuori” (il mondo sociale e la cultura di cui siamo parte) e il “dentro” (il nostro intimo sentire, il nostro mondo interiore).

Nei periodi di rapide trasformazioni si verifica spesso uno scollamento tra il “nuovo” che avanza e una cultura più “vecchia”, non più corrispondente al mutamento della società ma che tuttavia persiste a livello inconscio.

Ha ancora senso parlare oggi di patriarcato?

Tornando allora alla questione se abbia ancora senso parlare oggi di patriarcato, non si può ignorare che quel tipo di organizzazione sociale si è in buona parte dissolto, anche se nella sua ritirata ha lasciato qua e là vari presidi (basti pensare alle differenze salariali tra uomini e donne anche a parità di mansioni, o al fatto che poche sono le donne che riescono ad arrivare a posizioni apicali). Ma soprattutto è la cultura patriarcale, da cui discendono le rappresentazioni dei rapporti di genere che si sono tramandate per secoli da una generazione all’altra, che persiste, per lo più a livello inconscio, e in modo più o meno marcato a seconda dei luoghi, dell’età delle persone, dei contesti sociali di cui fanno parte. L’inconscio, come si sa, è conservatore, anche se a livello cosciente e razionale le persone esprimono idee molto evolute.

Fa parte di questa cultura l’idea che la donna abbia principalmente compiti di accudimento e nutrimento non solo materiale ma anche affettivo rispetto al coniuge ed ai figli, mentre all’uomo spetta proteggere la famiglia dalle minacce esterne e garantire i mezzi di sopravvivenza. Tutto questo ha come corollario che la donna, anche se in altri aspetti della vita appare emancipata, può continuare a percepirsi e ad essere percepita come la sola responsabile del buon funzionamento della coppia, per cui se le relazioni non sono buone ciò è dovuto a un suo difetto, ad una sua inadeguatezza nel comprendere e prendersi cura. Non a caso si parla della “sindrome della crocerossina” in molti casi di donne che moltiplicano gli sforzi per soddisfare o rabbonire un partner prevaricante, che pur riconoscendolo come persona problematica si illudono di poterlo cambiare, e che accettano un ultimo incontro chiarificatore con un ex partner dal quale dovrebbero invece tenersi alla larga.

Quanto agli uomini, se non riescono a vedere nel nuovo che avanza una possibilità anche per loro, una liberazione da modelli stereotipati di mascolinità interamente fondati sulla forza, l’assertività, il dominio, che li costringono ad una vita inautentica, in cui non c’è posto per il dubbio, per i momenti di insicurezza, per il riconoscimento della fragilità che ogni essere umano, uomo o donna, in qualche circostanza non può non provare, allora vivono il processo di emancipazione delle donne come una minaccia alla loro identità di genere, fondata su modelli culturali di virilità superati, non più funzionali, che tuttavia restano attivi a livello inconscio. Ponendo l’accento sulla superiorità maschile e la sottomissione della donna, la cultura patriarcale suscita nell’uomo il timore di non essere all’altezza dei modelli di mascolinità introiettati, tanto più nella misura in cui i rapidi cambiamenti sociali ne scuotono le fondamenta.

Problematiche psichiche e relazionali degli uomini violenti

I vissuti di pericolo sopra descritti, conseguenti alla frattura tra modelli culturali introiettati e realtà esterna, possono dar luogo da parte di alcuni uomini a forme di controllo ossessivo sulla donna ed a comportamenti oppressivi, nel tentativo di preservare la propria identità. Se però l’angoscia diventa insopportabile al punto da far scattare forme gravi di violenza, è probabile che quanto fin qui descritto si innesti su una particolare fragilità, una bassissima capacità di tollerare le frustrazioni e una forte impulsività che amplificano le reazioni violente. Margaret Elbow, della Columbia University, in un suo studio del 1977 (Theoretical considerations of violent marriage) ha descritto quattro categorie di aggressori:

  • Coloro che temono la perdita della propria autorità e del proprio dominio. Questo li porta ad esigere il totale controllo sulla donna e sugli altri membri della famiglia
  • I soggetti che hanno una forte dipendenza dalla donna. Essi non tollerano l’autonomia altrui, perché la vivono come minaccia di abbandono.
  • Coloro che hanno una bassissima autostima. Questi soggetti hanno bisogno di continua approvazione e si abbandonano a reazioni rabbiose di fronte alla più piccola critica.
  • Gli uomini che cercano un rapporto fusionale con la donna. La loro violenza scatta quando temono di perderlo.

A me pare che sia un po’ artificioso collocare ciascun soggetto in una sola di queste categorie, e che probabilmente le caratteristiche associate a diversi profili possano coesistere negli stessi soggetti.  In ogni caso quando si arriva ad uccidere ciò implica una profonda e patologica difficoltà a vivere rapporti che non siano fusionali o fondati sul completo controllo dell’altro, a tollerare le frustrazioni, a controllare la rabbia, tenere a freno l’impulsività.

Restituire ai violenti la loro soggettività attraverso percorsi di cura e riabilitazione

Il violento (e potenziale femminicida) di oggi non è semplicemente un “figlio del patriarcato”, ma è anche un essere umano la cui mascolinità tossica copre ma al contempo rivela a chi le sappia riconoscere profonde e gravi ferite e fragilità, solitamente dovute a precoci e prolungate esperienze traumatiche, che non è certo l’amore e la dedizione di una donna a poter curare.

Gli abusanti, tuttavia  ben raramente ammettono con se stessi di avere un problema e chiedono aiuto psicologico o psicoterapeutico. Nel nostro paese, che lascia senza risorse i Centri Antiviolenza, fondamentali per aiutare le donne invischiate in rapporti di abuso, sostenendole psicologicamente, assistendole legalmente, e accompagnandole nei passaggi più critici, non mi risulta che, a parte qualche lodevole ma isolata iniziative fondata sul volontariato,  ci siano programmi per favorire l’accesso degli uomini violenti alla psicoterapia o comunque ad un aiuto psicologico che consenta loro di riconoscere  e maneggiare le loro difficoltà sul piano relazionale anziché espellerle attraverso la violenza.

In un articolo pubblicato su questo sito nel 2014 (Psicoterapia Gruppoanalitica del Trauma),Werner Knauss ha esposto un’esperienza di supervisione agli operatori impegnati in un programma di riabilitazione di uomini già sanzionati dal Tribunale per abusi sessuali, che comprendeva, tra le varie attività, anche dei gruppi di psicoterapia. Per avviarli a questo programma, veniva loro offerta questa possibilità come alternativa al carcere. E’ possibile estendere questo approccio a tutte le forme penalmente rilevanti di violenza di genere? E inoltre è possibile svolgere un’adeguata attività psicoterapeutica con soggetti che aderiscono alla proposta  per per sottrarsi al carcere anziché per un autentico desiderio di cambiamento? E ancora: un progetto del genere può trovare posto nel nostro ordinamento giuridico?

Qualunque sia la risposta, la rilettura di quell’articolo mi ha ricordato che, oltre all’educazione e alla prevenzione della violenza di genere, é necessario pensare alla cura, sia per quanto riguarda le donne invischiate in relazioni disfunzionali sia per quanto riguarda gli uomini che esercitano violenza nei confronti delle donne. Si tratta anzitutto di incominciare a pensare questi uomini non solo come prodotto della cultura patriarcale o colpevoli da sanzionare e fonte di pericolo da sottoporre a restrizioni, ma anche come persone che sono anch’esse bisognose di una presa in carico psicoterapeutica, restituendo anche agli uomini violenti la loro soggettività.

Tra Psicodramma e Drammaterapia – un testo del 2015 riproposto per l’attualità dell’argomento

di Giovanna Bosco

Ripropongo  con alcuni aggiornamenti uno scritto del 2015, nel quale prendevo in esame alcuni aspetti di cruciale importanza per chi utilizza il teatro nel lavoro con i gruppi.  Mentre la diffusione delle nuove forme di comunicazione tramite il web esclude sempre più la corporeità e la possibilità di vivere relazioni di risonanza empatica, dando ad individui sempre più estromessi da una piena vita di relazione l’illusione di essere costantemente interconnessi, appare ancor più di un tempo feconda la dimensione gruppale nel lavoro clinico, nella formazione e nei percorsi  esperienziali. Nell’ambito dei gruppi diventa di particolare interesse la possibilità di utilizzare il teatro quale forma di espressione in cui la parola diventa parola pienamente ‘incarnata’.  

Nell’articolo che ripropongo, oltre a discutere alcuni nodi teorico-metodologici che riguardano l’ “agire” e il  “gioco”, vengono presentati i tratti salienti di un metodo che nasce dall’integrazione dei contributi, a mio avviso più fecondi, provenienti da diversi approcci:   psicodramma Moreniano, psicodramma analitico e drammaterapia. Segue la narrazione di una sessione di un gruppo esperienziale in cui si è utilizzato il teatro – inteso come spazio ludico dove ciò che avviene è sentito come profondamento’ vero’ pur essendo ‘per finta’  – per favorire il riconoscimento della ‘scena di gruppo’ e dei copioni ‘internalizzati’ e la loro trasformazione.

 

Nel teatro troviamo una sintesi di tutte – o quasi tutte – le forme espressive, sia verbali che extraverbali, ed è per questo che, quando in un gruppo si ricorre alla drammatizzazione, l’esperienza che ne deriva è particolarmente trasformativa, coinvolgendo contemporaneamente una molteplicità di funzioni psichiche e di aree dell’esperienza.  La drammatizzazione si fonda su un paradosso: ciò che vi avviene è profondamente vero pur essendo per finta. continua a leggere

Workshop “per restare umani”: riflessioni sul lavoro del gruppo

di Velia Bianchi Ranci

L’attesa di incontrare un gruppo nuovo è sempre carica di pensieri , emozioni e interrogativi che  sono quelli che poi orienteranno l’esperienza nel suo svolgersi.

Questo vale per tutti i partecipanti, ognuno a suo modo, e vale naturalmente anche per chi si assume il ruolo di accompagnare il gruppo nel suo  percorso. 

Quando ho incominciato a pensare all’incontro di gruppo offerto da Espèira con l’obiettivo di provare a riflettere sulla situazione sociale in cui siamo immersi, partendo dai nostri vissuti e dalle nostre paure, il mio primo pensiero/preoccupazione è continua a leggere…

Il lavoro nelle istituzioni: contributo di G. Bosco al Seminario del 23 febbraio 2018

 

Alle radici di un ossimoro

Ogni volta che mi soffermo a ripensare le mie esperienze nelle istituzioni, o che ascolto un gruppo di colleghi parlare delle istituzioni in cui lavorano, ho la sensazione di addentrarmi in un luogo pieno di contrasti e contraddizioni, di luci e di ombre, che solo degli ossimori possono  racchiudere e tenere insieme:  gusto dolceamaro? chiarezza tenebrosa? espansione vincolata? 

Le istituzioni sono oggetti complessi, e non è facile conoscerle,  non solo per il rapporto ambivalente che spesso abbiamo con le forme di organizzazione sociale fondate su norme e consuetudini vincolanti, ma anche per la intrinseca  contradditorietà delle istituzioni. continua a leggere…

IMMAGINI: riflessioni sul Seminario del 15 ottobre

di Velia Ranci

Come seguito alle nostre riflessioni sull’indicibile emerse nel Seminario di marzo abbiamo scelto per il Seminario di ottobre il tema dell’immagine.
Abbiamo fatto questa scelta perché il nostro lavoro ci ha fatto toccare con mano quanto possa essere importante un’immagine, nei momenti in cui la relazione  si fa emotivamente impegnativa e difficile. Un’immagine che ci si presenta alla mente e che riusciamo a condividere, col paziente o col gruppo, è quella che permette di dare un significato e di imprimere una svolta alla relazione e al processo terapeutico.
 
 Le esperienze evocate nel Seminario del 15 ottobre mi hanno fatto riflettere su quanto le immagini si impongano alla mente; perché si impongono, si sostituiscono al pensiero di parole, in momenti emotivamente impegnativi.  Momenti in cui si è dentro all’immagine, ci si immerge nell’immagine. Questa è l’impressione che mi ha suggerito il racconto di Pierluigi.
 Durante un’escursione in montagna Pierluigi si accorge che un masso enorme sta precipitando nella sua direzione. continua a leggere…

I processi di elaborazione di esperienze ‘indicibili’ (parte 2°)

  di Giovanna Bosco

 

In questa seconda parte dell'articolo (la prima è stata pubblicata su questo sito nel luglio 2015) prendo in considerazione i contributi della Infant Research e le implicazioni per la psicoanalisi e gruppoanalisi della scoperta dei 'neuroni specchio'. Vengono poi discussi i concetti di emozione e di empatia in un’ottica di complessità, e viene messa in luce l’interdipendenza tra lo sviluppo del sistema nervoso e la qualità delle esperienze emozionali intersoggettive.

Tutto ciò ha a che fare con quell’area dell’esperienza umana che è ‘indicibile’. La stessa psicoanalisi va sempre più riconoscendo l’importanza dei ‘fattori terapeutici nascosti’, che hanno a che fare con l‘insieme di  comunicazioni non intenzionali e spesso non consapevoli, veicolate dagli aspetti prosodici del linguaggio parlato e dalle espressioni del viso e del corpo. Prendo poi in esame il concetto di ‘schema emozionale dissociato’ (W.Bucci), e faccio dei collegamenti con la mia esperienza terapeutica, esponendo due casi clinici in cui le tracce di eventi traumatici del passato, affidate ad un solo canale sensoriale, erano inizialmente esiliate in “isole di non senso”.

Nell’ultima  parte dell’articolo propongo degli elementi di riflessione, corredati da vignette cliniche, sui processi di elaborazione delle esperienze indicibili nel contesto psicoanalitico, e mi ricollego ad una domanda di Antonio Imbasciati sul posto che ha, nella formazione dell’analista, la comunicazione non verbale.  Porto infine l’attenzione sulla specificità dei processi di elaborazione nelle terapie a mediazione artistica e nelle artiterapie.

 

La scoperta dei neuroni specchio: implicazioni per la psicoanalisi e la gruppoanalisi

Si parla sempre più spesso di empatia come di un fattore fondamentale, oltreché nella relazione madre-bambino e nelle relazioni umane in genere, nel rapporto terapeutico.  La scoperta dei neuroni specchio da parte di Rizzolatti e altri (1996) toglie un po’ dell’alone mistico che ha sempre circondato questo concetto. Più in generale, tracciando nuove linee di collegamento tra fenomeni biologici e fenomeni psichici, contribuisce al superamento del pensiero dicotomizzato che per secoli l’essere umano ha avuto su se stesso, per lo meno nella cultura  occidentale, continua a leggere…

Psicoterapia gruppoanalitica del trauma (2° parte)

di Werner Knauss

La prima parte di questo articolo, ricevuto da Werner Knauss, è stata tradotta in italiano e pubblicata su questo sito il 28 giugno 2014. Facciamo ora seguire la seconda parte dello stesso articolo. 

La traduzione del testo è di Giovanna Bosco

 

 

Passerò ora ad un esempio clinico per illustrare come le vittime ed i responsabili di abusi sessuali possono elaborare in un gruppo misto il loro traumi derivanti dall’aver abusato sessualmente o dall’aver subito abusi.

 

6. Le vicissitudini dei processi di identificazione nella Psicoterapia Gruppoanalitica con un gruppo misto in cui sono co-presenti responsabili e vittime di abusi sessuali

La mia esperienza clinica e la Foulkes Lecture tenuta da Estela Welldon su come adeguare il trattamento al crimine (1997) mi hanno incoraggiato a intraprendere un processo inusuale. Decisi di creare, nell’ambito della mia attività professionale privata, un gruppo misto ad orientamento gruppoanalitico, che si incontrava due volte alla settimana ed era formato da nove pazienti, inclusi due responsabili e due vittime di abusi sessuali. Vi invito a seguire questi quattro pazienti ed i loro processi di identificazione – su cui mi concentrerò in questo lavoro – attraverso un percorso di psicoterapia gruppoanalitica che è durato in media due anni e mezzo.

Prima di correre il rischio di includere sia vittime che abusanti nello stesso gruppo ho preso in esame la letteratura significativa su questo argomento. La maggior parte di essa si riferiva a gruppi omogenei di vittime di abusi sessuali. Ho trovato solo due colleghi, Estela Welldon (1997) e Mathias Hirsch (2004), che riportavano processi molto promettenti realizzati in gruppi formati sia da vittime che da abusanti.

L’esperienza clinica che avevo potuto sviluppare supervisionando un’équipe che lavorava in una struttura psichiatrica forense con pazienti interni, ed inoltre facendo la supervisione ad un collega che conduceva, con una seduta settimanale, un gruppo omogeneo di pazienti esterni che erano tutti responsabili di abusi sessuali, aveva confermato il punto di vista dei miei due colleghi che i gruppi omogenei di abusanti o di vittime favoriscono meccanismi di difesa omogenei che ne limitano i risultati. Earl Hopper riferiva esperienze analoghe in un suo lavoro clinico riguardante un gruppo di sopravvissuti alla Shoah (Earl Hopper, Traumatic experiences in the unconscious life of groups).

Avevo iniziato la supervisione dell’équipe psichiatrica forense dopo un tragico incidente: continua a leggere…

Psicoterapia gruppoanalitica del trauma (1° parte)

di Werner Knauss

Pubblichiamo qui la prima parte di un articolo, scritto in inglese, ricevuto da Werner Knauss, già Presidente della Group Analytic Society (International),  

La seconda parte verrà pubblicata dopo l'estate 

La traduzione del testo è di Giovanna Bosco

 

 

1.  La Darkroom

In una performance di danza dal titolo“the Darkroom” (N.d.T.: “camera oscura” per sviluppare le pellicole, ma anche stanza oscurata di certi club privè dove si svolgono pratiche sessuali trasgressive) il protagonista assume il ruolo dello spettatore che osserva standosene in disparte. Egli desidera entrare in un gruppo di ragazzi che “vanno forte” ed è gradatamente attirato in una banda di giovani che hanno sviluppato un terribile rituale per il week-end. Con l’ausilio delle droghe e dell’alcol seducono gruppi di giovani donne in una Darkroom poi obbligano le donne ad avere rapporti sessuali con ciascuno di loro.

Pian piano il protagonista lascia la posizione dell’osservatore e viene attirato dentro il gruppo. Egli viene attaccato fisicamente, sminuito e umiliato perché è innamorato di una ragazza straniera, che viene dall’Inghilterra. Lentamente, entra in un rapporto di collusione con la banda. Infine assume il ruolo del cameraman e riprende le scene, che saranno poi vendute.

Questa performance riesce efficacemente a far sì che il pubblico assuma il ruolo, con cui la maggior parte degli spettatori si identifica, di chi osserva, stando in disparte, le terribili scene traumatiche che vengono sperimentate sulla scena e che hanno luogo tra la gang dei ragazzi e il gruppo delle ragazze. Tutti sono traumatizzati: gli autori delle violenze, le vittime e, indirettamente, il pubblico.

Durante la discussione che si svolge al termine della performance emerge chiaramente che il pubblico oscilla tra due posizioni: la rabbia suscitata dalle scene traumatiche: “perché sono costretto a guardare queste cose?” e la dissociazione espressa sotto forma di negazione: “tutto questo non ha nessun senso”. Alla fine sono sconvolti da ciò che hanno visto. Si identificano con gli autori delle violenze e con le vittime, soffrendo di controllo onnipotente, terribile ansia, impotenza e speranza che tutto ciò finisca e che i responsabili siano puniti.

E’ questo il nostro ruolo in un gruppo analitico quando uno dei pazienti descrive un trauma che ha provato. Quali sono le precondizioni per elaborare le esperienze traumatiche individuali e collettive? Quale potrebbe essere il compito di un gruppoanalista nel creare una situazione gruppoanalitica intesa come spazio sicuro in cui il trauma possa essere ricordato, descritto in ogni dettaglio ed elaborato? continua a leggere…

L’interpretazione nella prospettiva gruppoanalitica: il processo di “traslazione”

di Jaime Ondarza Linares

Giovanna Bosco ha voluto essere così gentile da invitarmi a scrivere un articolo in seguito al mio commento apparso su Espeira (11- VII-13) illustrandolo con esempi clinici tratti da un gruppo analitico che conduco nel mio studio.

E’ un gruppo che conduco da circa 10 anni: “slow open” nel setting gruppoanalitico sta ad indicare un gruppo inizialmente formato da 8-9 persone che man mano che finiscono la loro esperienza terapeutica vengono sostituite da nuovi membri. Tale caratteristica richiama essenzialmente il processo del “gruppo famigliare primario”, un po’ aperto alla partenza e all’arrivo di nuovi membri;  essendo tale fenomeno gruppale-esistenziale  (inizio, partenza, anche interruzione) un’esperienza da elaborare del processo terapeutico medesimo… Tornando al nostro gruppo clinico, nel momento presente non rimane alcun membro del gruppo iniziale, tranne me medesimo come terapeuta.  E’ composto attualmente da sette membri di cui riferiremo opportunamente nella seconda parte dell’articolo, esponendo  alcuni particolari clinici e cambiamenti, con particolare riferimento al Processo di Traslazione (Traslation Process) che diciamo ‘tout court’ é l’equivalente gruppoanalitico dell’interpretazione nel processo psicoanalitico duale.

La mia presente esposizione si articola col precedente mio commento fatto alla suggestiva richiesta di Giovanna Bosco, che intitolava “Dal tramonto dei modelli intrapsichici all’orientamento relazionale”, domandandosi cosa è veramente l’interpretazione nella contemporanea psicoterapia  e delineando alla fine un “confronto tra orientamento intrapsichico e orientamento relazionale”.

Sottolineo che personalmente cerco di affrontare l’argomento dalla mia posizione di gruppoanalista, continua a leggere…

Andar per gruppi

di Giovanna Bosco

Non ho saputo resistere alla tentazione di prendere a prestito da Lo Verso (1998) l’espressione “andar per gruppi”, perché questa immagine è fortemente evocativa.

Anzitutto ha suscitato in me il pensiero che la nostra stessa vita è un “andar per gruppi”: dal gruppo familiare in cui abbiamo fatto le nostre prime esperienze sin dal momento in cui ci siamo affacciati al mondo, a tutti gli altri gruppi di cui abbiamo via via fatto parte, diventando ciò che ora siamo.

Pensando poi al gruppo come strumento di intervento nell’ambito della psicoterapia, delle artiterapie, della formazione, ecc. “andar per gruppi” ci parla del fatto che chi intende lavorare nel setting di gruppo deve sapersi muovere e orientare tra una vasta gamma di gruppi.
Ci sono gruppi aperti e gruppi chiusi; gruppi di breve o media durata e gruppi in cui i componenti possono restare finché ne sentono il bisogno ed il desiderio; gruppi “di parola” e gruppi che ricorrono in modo prevalente a forme di espressione e comunicazione non verbale; gruppi dalla composizione diversificata e gruppi omogenei. L’elenco dei possibili gruppi omogenei è pressochè infinito: adolescenti, donne, genitori, oppure soggetti che hanno in comune un passaggio critico della vita, come la menopausa, o una specifica problematica o sofferenza, come nel caso di una particolare malattia o di un lutto o della dipendenza da droga, fumo o alcool.  

Il contesto non è solo e necessariamente quello terapeutico. Come del resto metteva in luce già Foulkes (1975), riconosciuto come il fondatore della Gruppoanalisi europea, i principi gruppoanalitici possono essere applicati non solo ai gruppi terapeutici ma anche a molti altri tipi di gruppi continua a leggere…

Genitori in gruppo

di Velia Bianchi Ranci

 

1. Il mio bambino ha un problema

Tutti i terapeuti infantili sanno quanto è difficile aiutare i genitori ad accettare la psicoterapia per il figlio. Perché è difficile, più in generale, per un genitore, accettare che il proprio figlio manifesti qualche aspetto di inadeguatezza.
"Ogni volta che un bambino è in difficoltà, di qualsiasi grado sia questa difficoltà, la capacità genitoriale è minacciata” – dice Trudy Klauber (1998) . Si genera nei genitori incertezza ed ansietà, che si rimanda al bambino, in una spirale discendente che peggiora sempre più la situazione.
Quando poi il problema riguarda la salute mentale del bambino questa dinamica è ancora più potente, per la paura inconscia di averlo danneggiato, e il senso di colpa che ne deriva. L'indicazione ad una psicoterapia può essere letta dai genitori come la conferma di questo danno e della loro colpa, prima che come un aiuto al loro bambino.
I genitori di questi bambini hanno quindi sempre bisogno di essere aiutati, prima di tutto  a recuperare fiducia nella loro capacità genitoriale. continua a leggere…

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