Dal tramonto dei modelli intrapsichici all’orientamento relazionale
di Giovanna Bosco
1. Una domanda che riguarda non solo la psicoanalisi e la gruppoanalisi ma anche gli operatori delle relazioni d’aiuto e gli arteterapeuti
Alcune constatazioni fatte recentemente mi hanno indotta a riprendere qui oggi una questione che da tempo, come E-spèira, consideriamo fondamentale per la nostra navigazione: cosa comporta per il mondo della psicoanalisi il passaggio dai modelli intrapsichici ad un nuovo orientamento di carattere relazionale, e quale conseguenza questi due diversi approcci hanno anche per altri operatori delle professioni di aiuto e per chi si occupa di artiterapie?
Recentemente, facendo una piccola ricerca su Internet, mi sono resa conto che le espressioni “relazionale” o “orientamento relazionale”, oltre ad essere le chiavi di accesso ai siti di Associazioni con chiare basi teorico-metodologiche, in alcuni casi vengono utilizzate disinvoltamente come biglietto di presentazione per attività dai riferimenti molto incerti o fortemente contradditori (tanto da includere il bio-feedback e altre procedure di stampo comportamentista). Ho anche scoperto, con una certa sorpresa, che c’è pure chi, dopo aver affermato di occuparsi di ‘arteterapia ad orientamento relazionale’, per spiegare di che si tratta attinge a man bassa, e in modo pressoché esclusivo, ad una mia pubblicazione del 2001 , senza citare neppure una volta la fonte. A volte l’etichetta “relazionale” sembra essere utilizzata come una sorta di passe-partout o come copertura per l’assenza di un chiaro e consapevole orientamento teorico-clinico.
Parlando di orientamento relazionale in psicoanalisi, non si intende genericamente un approccio simpatico e accattivante in quanto “nuovo”, ma si fa riferimento ad un vero e proprio cambiamento paradigmatico che ha portato settori sempre più ampi della psicoanalisi ad abbandonare l’originaria visione intrapsichica a favore di una visione relazionale dell’essere umano e del processo terapeutico. Una visione diversa ma non priva di profondità e di coerenze interne.
Seguendo questo fil rouge, che connette tra loro più modelli teorici, cercherò di ripercorrere brevemente questo cambiamento di prospettiva, che non è avvenuto in modo lineare e costante, essendo stato contrassegnato da grandi intuizioni e da scomuniche, dall’esclusione di alcune linee di pensiero ad opera dell’establishment psicoanalitico e da successive riscoperte e riabilitazioni da parte di nuove generazioni di analisti. L’opzione tra orientamento intrapsichico e orientamento relazionale è di grande significato non solo per la psicoanalisi, ma anche per gli psicoterapeuti, per gli arteterapeuti, e in generale per tutti coloro che operano nelle professioni di aiuto.
L’opzione intrapsichica porta a cercare di 'decifrare’ il significato nascosto di ciò che viene espresso a livello verbale e/o corporeo, oppure attraverso un disegno, come se ci fossero delle corrispondenze stabilite una volta per tutte tra una determinata espressione (verbale, corporea o iconica) e il suo significato. Possiamo anche dire che l'opzione intrapsichica corrisponde al campo della spiegazione anzichè a quello della comprensione. In arteterapia ciò induce ad assumere una posizione di 'osservazione' anzichè cercare di comprendere attraverso la risonanza estetica e l'immedesimazione empatica. Due esempi, tra i tanti possibili, possono chiarire meglio questo concetto. Così come la prima generazione di analisti attribuiva un significato “fallico” a qualsiasi rappresentazione o immagine che non fosse piatta o rotonda (forzando gli accadimenti per farli aderire ad una teoria), allo stesso modo in alcuni settori dell’arte terapia si utilizzano certe letture standardizzate dei colori, in cui ad ogni colore viene fatto corrispondere un significato emotivo (o un insieme di significati), trascurando il fatto che lo stesso rosso può essere associato a sensazioni opposte: può essere angoscioso per qualcuno, che lo collega al sangue e alle ferite, e vitale per un altro.
Nel secondo caso (l’opzione relazionale), il terapeuta, o conduttore di gruppo, favorirà l’instaurarsi di un clima accogliente in cui le sensazioni e le emozioni possano prendere forma ed essere comprese empaticamente e un nuovo sentimento di ‘verità’ possa nascere dalla condivisione di tali esperienze. Ciò che conta è che ci sia sintonia, che ci si incontri sulla stessa lunghezza d’onda, poiché questo è il presupposto per poter comprendere le emozioni degli altri. Per tornare agli esempi fatti prima, chi assume un orientamento relazionale si rende conto che solo all’interno di una relazione risonante ed empatica si potrà comprendere il senso di un racconto in cui compaiono una torre o un campanile, come pure il senso emotivo di quel colore rosso o blu, usato da quel determinato soggetto in quel determinato contesto.
Non basta tuttavia aderire razionalmente ad un determinato orientamento. Anche se siamo dei fautori convinti dell’approccio relazionale, in talune circostanze potremo infatti scoprire che stiamo ricorrendo a spiegazioni o interpretazioni calate dall’alto, magari per difenderci dal rischio di esporci ad una vicinanza emotiva e relazionale vissuta come troppo pericolosa. E’ come se si dicesse, in questi casi: “sei tu che hai un problema, io non c’entro nulla, non mi riguarda”.
Dicevo che questa riflessione è fondamentale anche per chi si occupa di terapie a mediazione artistica poiché, a volte, l’arteterapia mitizza il potere curativo dell’arte, salvo poi appoggiarsi, se costretta a misurarsi con severe condizioni di disagio psichico, alla stampella di un sapere psichiatrico di vecchio stampo, che tende a catalogare ed etichettare, oppure a modelli psicoanalitici intrapsichici che non rappresentano il migliore equipaggiamento per addentrarsi nei territori ‘oltre la parola’.
2. La crisi della Metapsicologia freudiana e dei modelli intrapsichici
Già da molti decenni la Metapsicologia (o teoria generale della psiche) elaborata da Freud ha perso il ruolo ‘sacrale’ che aveva un tempo, e i modelli intrapsichici che ne sono derivati (a partire da quello kleiniano) sono stati sottoposti ad un serrato vaglio critico.
Freud distingueva tra fenomeni intrapsichici (interni alla psiche dell’individuo) e interpsichici (o intersoggettivi). Ma la sua attenzione si concentrò soprattutto sul mondo intrapsichico, o ‘mondo interno’. In esso, secondo la concettualizzazione freudiana, agiscono delle forze innate, le pulsioni, che hanno origine nel corpo e sono guidate dal ‘principio del piacere’ (dove il piacere viene fatto coincidere con la cessazione di uno stato di eccitazione attraverso la ‘scarica’ delle energie pulsionali). Ma poiché il desiderio di soddisfare le pulsioni si scontra con il mondo esterno, il mondo interno viene ad essere abitato, oltre che da rappresentazioni degli ‘oggetti’ che hanno procurato soddisfazione, anche da rappresentazioni dei divieti provenienti dal mondo esterno e diventa perciò il teatro di conflitti tra diverse istanze. Tali rappresentazioni sono ‘fantasie’ in cui la Realtà viene modificata e distorta. E’ perciò fondamentale distinguere, attraverso l’Esame di realtà, tra ‘fantasia interna’ (soggettiva) e ‘realtà esterna’ (oggettiva)
Freud concentra dunque la sua attenzione prevalentemente sui processi psichici interni all’individuo e sul modo in cui questi influenzano i rapporti interpersonali. Pur non ignorando che l’influenza è nei due sensi, e che anche il mondo esterno influenza l’interno, si occupa quasi esclusivamente delle vicende ‘intrapsichiche’. Questo vale non solo per la sua elaborazione teorica, ma ancor più per la pratica terapeutica che da Freud si è sviluppata. Irrigidendo gli aspetti più conservatori del suo pensiero, l’ortodossia psicoanalitica ha rinunciato a occuparsi sia dei rapporti, presenti e passati, sperimentati con le persone significative della propria vita, sia del rapporto analista-paziente, per concentrarsi esclusivamente sulle dinamiche intrapsichiche. Conflitti e mediazioni paiono avvenire esclusivamente in un teatro interno, abitato da personaggi come Es, Io e Super-Io, oppure Seno-buono e Seno-cattivo, e così via, che erano già là, e che l’incontro con l’analista si limiterebbe a far uscire allo scoperto.
Con il passare del tempo, tuttavia, l’estensione del campo di applicazione della psicoanalisi a nuovi contesti (il lavoro con i bambini, il mondo della psicosi, il lavoro nelle istituzioni, le pratiche di gruppo) ha portato a modifiche della pratica terapeutica, a variazioni del setting e ad un’enorme quantità di nuove esperienze, che hanno indotto a dei ripensamenti anche sul piano teorico.
Ogni variazione del setting, in effetti, favorisce una diversa fenomenologia. Il lettino, in cui il paziente è visto ma non può vedere l’analista, è funzionale ad una teoria in cui è necessario che il paziente regredisca ad una condizione da nursery affinché il suo transfert possa essere analizzato; corrisponde inoltre ad una pratica terapeutica fondata sul mito di un’analista che non partecipa al campo relazionale ma si limita ad offrirsi come sfondo neutro e asettico su cui il paziente proietta i contenuti del suo “mondo interno”.
Nel setting vis-à-vis emergono in tutta la loro evidenza aspetti che prima si cercava di sterilizzare e che riguardano la relazione che si sviluppa nell’attualità tra analista e analizzando, nonché l’intreccio tra i rispettivi transfert. Il vis-à-vis riduce l’asimmetria della relazione e consente un complesso intreccio di comunicazioni, verbali e non verbali, che viaggiano nei due sensi. Diventa così cruciale la capacità dell’analista di accogliere emotivamente l’altro ed emergono fenomeni come il rispecchiamento, la risonanza, la sintonizzazione.
Il cerchio introdotto dalla Gruppoanalisi, in cui ogni membro è visto e può vedere tutti gli altri membri del gruppo e il conduttore siede all’interno del cerchio, fa emergere un intreccio ancor più complesso di comunicazioni verbali e non verbali e nuovi fenomeni, che difficilmente potevano essere sperimentati nel setting duale. Si risuona con il gruppo, ci si rispecchia non solo con il terapeuta ma anche con gli altri membri del gruppo. Di conseguenza il nuovo setting ha portato allo sviluppo di nuovi pensieri teorici, come il concetto, sviluppato da Foulkes, di un transfert orizzontale, tra pari. Ha inoltre avuto una notevole influenza sulla tecnica (si veda l’importanza data alla qualità qui-ed-ora dell’interpretazione). In un articolo pubblicato nella Rivista Group-Analysis, Stephen Arcari sottolinea inoltre che la posizione in circolo incoraggia il pensiero simmetrico. A questo proposito vorrei aprire una parentesi per segnalare che il cerchio di persone sedute sul pavimento su dei cuscini (un’ulteriore variazione del setting, frequentemente utilizzata nell’ambito delle pratiche corporee o a mediazione artistica) fa emergere in modo ancor più significativo la comunicazione corporea anche durante i cosiddetti ‘spazi di verbalizzazione’. Il corpo diventa più plastico e se, ad esempio, qualcuno non si sente connesso, in un determinato momento, con il resto del gruppo, è probabile che lo segnali involontariamente con la posizione del corpo (magari arretrando un poco, in modo da porsi un po’ fuori dal cerchio, oppure girandosi in altra direzione, o altro ancora) e il suo stato d’animo potrà essere recepito, anche in assenza di parole, attraverso meccanismi di rispecchiamento che coinvolgono specifici processi neuronali (i neuroni a specchio), da altri membri del gruppo.
In parallelo con le molte nuove esperienze che si andavano accumulando, si è andata sviluppando una grande quantità di studi comparati che poco alla volta ha messo in luce l’incompatibilità tra le più recenti scoperte della neurobiologia e molti concetti che Freud aveva preso in prestito dalla fisica e dalle scienze biologiche del suo tempo. Gli studi contemporanei sul cervello e quelli della infant observation, concordano sul fatto che il bambino è diverso da come lo pensava Freud: mentre per Freud il piacere coincideva con la 'scarica' di un’energia psichica, il bambino sarebbe invece un essere continuamente attivo, teso alla ricerca di stimoli. Anche le idee di Freud sul rapporto tra processo primario e processo secondario, tra immagini e pensieri sono state oggetto di profonda revisione. Infine i neonati non avrebbero ‘relazioni oggettuali’ ma “esperienze che coinvolgono altri esseri umani”
Ciò che colpisce chi abbia un po’ di dimestichezza con l’antropologia culturale, inoltre, è il fatto che in tutti i modelli intrapsichici l’ambiente il cui il soggetto è immerso fin dalla nascita non è quello specifico ambiente con quelle determinate caratteristiche, in cui si sperimenta un certo tipo di relazioni e non altre, ma un ambiente standard, astorico, che sembra di origine naturale anziché culturale, cui vengono attribuiti caratteri universali. Così, nel modello kleiniano il mondo intrapsichico appare abitato da immagini fantasmatiche innate, come il “seno buono”, il “seno cattivo”, che l’incontro con l’ambiente si limita a far uscire dall’ombra in cui già preesistevano.
3. Dal paradigma intrapsichico al paradigma relazionale
Come già ho accennato, oggi emerge un fil rouge che invita a percorrere la storia della psicoanalisi come storia di una trasformazione che traghetta dalla originaria concezione individualistica e intrapsichica ad una nuova concezione di tipo relazionale.
Tutto questo è avvenuto in un arco di tempo non piccolo: quasi un secolo, infatti, è passato da quando un precursore come Ferenczi iniziò a criticare l’idea della neutralità dell’analista. Per la sua eccessiva modernità l’opera di Ferenczi fu tuttavia fortemente osteggiata dai contemporanei, per essere rivalutata solo in tempi più recenti. Già nei primi decenni del secolo scorso, Ferenczi considerava i processi terapeutici o formativi non prevedibili poiché si sviluppano dall’incontro tra due diverse soggettività, rifiutava il tabù dei contatti corporei e criticava il concetto, allora sacrale, della neutralità dell’analista, ritenendo che in certi casi un simile atteggiamento non faccia che rafforzare l’esperienza avuta dal paziente in passato con un genitore indifferente o rifiutante.
Miglior fortuna ebbe il gruppo degli indipendenti inglesi, Winnicott, Fairbairn e Balint. Leggendoli ho avuto l’emozionante sensazione di essere di fronte a degli squarci operati all’interno di un apparato concettuale ancora vecchio, che tuttavia già aprono a una nuova concezione della vita psichica e della pratica analitica.
Fino dagli anni ’30, pur rimanendo all’interno della tradizione kleiniana, essi svilupparono una particolare sensibilità e attenzione alle relazioni, a partire da quelle originarie madre-bambino. Anche per quanto riguarda la pratica clinica, con loro iniziò ad emergere la consapevolezza che l’analista non è un osservatore neutrale e uno specchio in cui si riflette il mondo interno del paziente, poiché la sua soggettività, i suoi atteggiamenti, vissuti, comportamenti (partecipi o distaccati) influiscono sulla relazione analitica.
Winnicott sottolinea l’importanza della holding materna per lo sviluppo del bambino e afferma che il setting è anzitutto l’ambiente emotivo fornito dall’analista: un ambiente che, soprattutto inizialmente, dev’essere improntato alla massima accoglienza.
Fairbairn, in contrasto con la ‘teoria delle pulsioni’, afferma che il bambino non cerca il ‘soddisfacimento orale’ ma cerca piuttosto, attraverso il contatto con il seno, il rapporto con la madre. Considera il mondo interiore dei pazienti un teatro privato dove operano, anziché entità astratte, personaggi derivanti dalla interiorizzazione delle prime relazioni oggettuali. In sostanza diventa “mondo interno” ciò che un tempo è stato “esterno”.
Negli Stati Uniti, fin dagli anni ’20 Sullivan, Karen Horney e Fromm percorsero vie simili, ma accentuando l’importanza degli aspetti interpersonali e fondando il movimento di Psicoanalisi interpersonale. Vennero considerati dai contemporanei non oppure non più psicoanalitici, per essere poi riscoperti dai successori, che da loro trarranno ispirazione per rivitalizzare il pensiero e la pratica della psicoanalisi
Negli anni ‘70, Kohut, sulla base delle sue esperienze con gli psicotici, svilupperà trasformazioni teoriche e cliniche radicali, pur conservando l’asse passato-presente, e darà vita alla Psicologia del Sé. Kohut ritiene che la psiche del neonato abbia bisogno di un oggetto capace di empatia, per arrivare a sentisi un Sé intero. In caso contrario si disintegra. Per consentire di ricostruire un Sé frammentato la terapia dovrà basarsi sulla immedesimazione empatica con il paziente.
La Psicologia del Sé si intreccia con varie correnti legate al filone della psicoanalisi interpersonale (Sullivan), intersoggettiva e con la infant reseach (ricerca psicoanalitica infantile di tipo sperimentale realizzata da Daniel Stern e altri), dando corpo al nuovo orientamento relazionale, che grazie all’opera di Mitchell ha iniziato ad influenzare notevolmente, a partire dagli anni 80-90 anche la psicoanalisi ‘ortodossa’, non solo negli Stati Uniti, ma anche in altri paesi.
Se comunque confrontiamo il punto di partenza e il punto di arrivo di questo lungo e non lineare cammino, ci accorgiamo che è avvenuto, e che è tuttora in atto, un profondo cambiamento, anche se più accentuato in certi settori della psicoanalisi contemporanea piuttosto che in altri.
Sul piano clinico i cambiamenti sono stati abbastanza chiaramente analizzati e teorizzati, mettendo a confronto i criteri di riferimento, i comportamenti e la posizione di un analista del passato e di un analista contemporaneo che abbia un orientamento relazionale.
Per quanto riguarda, invece, la teoria generale della psiche elaborata da Freud, la cosiddetta Metapsicologia, anche se molti autori hanno sottoposto ad un’analisi critica serrata il pensiero di Freud, non si è sviluppata una nuova teoria complessiva che possa sostituire l’impianto teorico freudiano. Questo, a mio avviso, dipende soprattutto dal fatto che l’orientamento relazionale non rappresenta l’ennesimo modello che si propone di descrivere dettagliatamente i meccanismi che agiscono all’interno della psiche, tutto ciò che succede in ogni fase dello sviluppo, e così via. Si tratta piuttosto di un cambiamento di orizzonte: oggi ci si rende conto più che nel passato che non è possibile descrivere a priori tutti i possibili accadimenti e includerli in un’unica costruzione. Per fare un esempio, si pensi all’affermazione di Daniel Stern sull’importanza che hanno, nel lavoro analitico, quei passaggi che egli chiama new moments, momenti straordinari caratterizzati da esperienze emozionali impreviste, piene di riconoscimento reciproco, di autentico incontro tra analista e paziente, che avvengono sul confine tra il setting analitico e la spontaneità dell’incontro umano. A suo dire sono gli unici che possono produrre cambiamenti nella memoria procedurale del paziente, quella che regola in modo automatico i comportamenti importanti (dal camminare al modo di relazionarsi con gli altri). In questi momenti emergenti si tollera il disordine, il non sapere, ci si fa guidare dall’intuizione e dall’empatia. Anche se, sottolinea D. Stern, queste eccezioni hanno un valore inestimabile proprio in quanto eccezionali: l’irrompere della spontaneità trasgressiva all’interno della cornice del setting, che deve mantenere le sue regole e i suoi aspetti rituali.
Mentre in un‘ottica deterministica come quella freudiana tutti i tasselli della costruzione possono essere messi a posto, qui si teorizza proprio il valore trasformativo di esperienze emozionali che nascono dalla capacità di tollerare l’imprevisto, lo spiazzante e il bizzarro. Ecco perché non possiamo pensare di poter sostituire la Metateoria freudiana con una teoria diversa ma simile nelle sue caratteristiche di razionalità esplicativa.
Molti hanno così spostato l’attenzione dagli elementi di diversità presenti nei vari modelli teorici alla base comune rappresentata dall’esperienza clinica, per trarne gli elementi su cui fondare una Teoria clinica che sia più vicina all’esperienza.
4. Confronto tra orientamento intrapsichico e orientamento relazionale.
Schematizzando, le principali differenze tra questi due orientamenti possono essere così riassunte:
1. La psicoanalisi classica vede l’essere umano come qualcosa di isolato e di chiuso e rivolge la sua attenzione al mondo intrapsichico. Nella visione relazionale, al contrario, l’essere umano è immerso in un mondo di relazioni e si ritiene che solo all’interno di un campo relazionale sia possibile conoscerlo.
2. Il “mondo interno” dei modelli intrapsichici è una dimensione astratta in cui agiscono forze impersonali senza rapporto con l’esperienza. Nell’orientamento relazionale, invece, anche quando si mantiene il concetto di “mondo interno” (che solo nelle versioni più radicali viene quasi completamente abbandonato) le rappresentazioni interne sono il derivato di ciò che è stato sperimentato fin dalla nascita nelle relazioni con l’ambiente.
Da queste premesse teoriche derivano significative differenze nella pratica:
– il setting analitico classico è concepito come laboratorio asettico dove un analista/osservatore neutrale interpreta le manifestazioni transferali del paziente; nell’orientamento relazionale, invece, il setting è un campo intersoggettivo dove si sviluppa una particolare relazione, quella tra analista e analizzando, ed entrambi si influenzano reciprocamente
– mentre per la psicoanalisi classica l’analista è esterno al processo nevrotico e il controtransfert è un’ingerenza da evitare, nell’orientamento relazionale il controtransfert (o transfert dell’analista) aiuta a comprendere la relazione.
Ovviamente, lo schema che ho proposto serve come punto di partenza, per capire di cosa stiamo parlando, ma ha, come tutti gli schemi, il difetto di cancellare i chiaroscuri e di appiattire le posizioni radicalizzandole. Così, ad esempio, anche se si assume un orientamento relazionale resta valida l’idea che le nostre rappresentazioni interne, pur essendo un derivato di ciò che è stato effettivamente sperimentato nel corso della propria storia, non ne sono sic et simpliciter una copia conforme.
Come sottolinea Sommmaruga in un suo recente scritto ciò che il paziente narra di sé non è verità storica ma verità narrativa. La sua autobiografia è un insieme di fatti realmente accaduti, di vicende immaginate e di racconti fatti dai familiari, “il tutto arrangiato per avere un minimo di coerenza con ciò che il paziente pensa di sé”. Così certi racconti su un genitore terribilmente severo o assente possono corrispondere ad esperienze reali oppure essere la forma che vengono ad assumere le esperienze di angoscia e di mancanza vissute nell’infanzia, nella misura in cui il bambino non si è sentito ascoltato e accolto emotivamente. Allora anche un fatto di per sé banale come il rifiuto di un gelato può assumere, all’interno della sua autobiografia, le sembianze di un ‘trauma’.
Anche tra coloro che sono favorevoli all’orientamento relazionale si osservano delle differenze, tanto che c’è chi distingue tra:
– orientamento intersoggettivo
– orientamento relazionale in senso ampio
I primi, pur riconoscendo il valore della relazione che si sviluppa nell’attualità, ritengono che l’asse passato-presente resti valido e che l’attività interpretativa non vada abbandonata. Ciò che cambia è il peso dei vari elementi della situazione analitica e il rapporto tra la relazione e l’attività interpretativa. Si ritiene che l’attività interpretativa (nella misura in cui si riesce insieme a “dare senso” a ciò che avviene nel vivo del rapporto analista-paziente), resti necessaria per portare “fuori” da un sistema relazionale stereotipato e ripetitivo, consentendo una trasformazione della stessa relazione analista-analizzando. Molti continuano a utilizzare concetti classici come i meccanismi di difesa, attaccamento e angoscia di separazione, e così via, ma ricomprendendoli all’interno di un quadro profondamente trasformato.
Coloro che hanno un orientamento relazionale più radicale (e che hanno come riferimento la Psicologia del Sé e le elaborazioni di Sullivan) spostano invece quasi completamente l’attenzione su ciò che avviene nella relazione attuale terapeuta-paziente. Cosa non apprezzata da tutti, in quanto c’è chi teme un declassamento dell’analisi a 'semplice psicoterapia', come se l’interpretazione fosse di per sé un tratto distintivo di tipo aristocratico.
Altri ancora osservano che non è questione di scegliere una volta per tutte tra le due posizioni, e fanno dipendere la scelta della condotta terapeutica (inclusa la questione se dare o non dare interpretazioni) dalle caratteristiche del paziente.
5. Il mio punto di vista sulla questione dell’interpretazione
A mio modo di vedere, il ricorrere o meno all’interpretazione non è questione di quarti di nobiltà. Per certi versi è più facile e comodo far cadere dall’alto delle interpretazioni sull’altro piuttosto che mettersi in gioco con l’altro. Trattando le psicosi, le tossicodipendenze, o situazioni di handicap psichico con diagnosi mista, appare chiaro che il problema non è cosa sia più nobile, ma quale via ci permette di incontrare quel determinato paziente.
Tuttavia la condotta terapeutica non può essere stabilita esclusivamente e aprioristicamente attraverso una decisione razionale presa in base ad una diagnosi. Molto dipende dal dispiegarsi della relazione e del processo, e da come riusciamo a porgere ciò che comprendiamo, se con empatia o con Anti-Pathos.
La questione è non solo, a mio parere, se sia opportuno dare o non dare interpretazioni, e quando, ma anche come si intende l’attività interpretativa – diretta o indiretta, satura o insatura, puramente verbale o che sappia andare ‘oltre la parola’ – e in quale contesto relazionale avviene (osservazione e giudizio sull’altro o contesto del ‘come se’ o del gioco reciproco).
Per rendere più accessibile il concetto di ‘interpretazione indiretta’ e ‘insatura’, proverò a portare qualche esempio. A volte mi accade di associare il mondo relazionale che sperimento con un determinato paziente nel corso di una seduta ad altre esperienze, ad altri incontri. E allora questo mi permette di dire che “una volta ho conosciuto una persona che…..”, oppure “una volta una persona saggia mi aiutò a capire che….” Non sono mossa, così facendo, dal desiderio di parlare di me (sarebbe un’inopportuna interferenza, un abbandono della regola dell’astensione), ma piuttosto dal desiderio di porgere qualcosa che ho compreso all’interno del setting in un modo indiretto, più delicato, permettendo al paziente di immedesimarsi con altre storie, con altre persone, un po’ come avviene nei gruppi, quando la scoperta dell’uno consente anche ad altri membri di raggiungere un insight che altrimenti, in una relazione asimmetrica, non sarebbe tollerabile. E ancora, le esperienze di drammatizzazione che ho potuto fare per molti anni mi inducono a volte, anche nel setting analitico, a dare senso a ciò che esprime il paziente, immaginandolo come una scena teatrale, in cui agiscono diversi personaggi di fantasia (che sono il frutto di una rielaborazione in chiave simbolica dei racconti del paziente e/o di ciò che avviene tra noi nel qui ed ora della relazione). “Se fossimo a teatro, vedrei una scena di questo tipo:….” . Questo permette al paziente di spostarsi idealmente in uno spazio ‘altro’, in cui ri-guardare le cose in modo ludico, non gravato dalla sensazione di essere “guardato dall’alto in basso” (non a caso in inglese lo stessa verbo -“to play”- significa sia giocare sia “mettere in scena” un lavoro teatrale). In questo modo è più facile, per il paziente, entrare anch’egli idealmente nella scena, aggiungendo qualcosa a ciò che io ho iniziato ad abbozzare, soprattutto quando sente che il gioco che propongo è un gioco in cui le sue emozioni sono state accolte e comprese attraverso l’empatia. Parlo di una scena che io ho solamente “iniziato ad abbozzare”: è importante infatti che un’interpretazione non saturi le possibilità di pensiero, ma resti aperta ad ulteriori contributi e sviluppi. Con un paziente che mi parlava da tempo di una relazione affettiva in cui era alla mercè dei desideri mutevoli della sua compagna, e si arrovellava sulle strategie da adottare per avere maggiore successo con lei, evocai una scena di questo tipo “in una casa riscaldata, d’inverno, un gattino ed una bambina… la bambina adora il suo gattino e gioca a lungo con lui, ma dopo un po’, presa da altri interessi, lo mette fuori casa, nel cortile… “ Il paziente (che aveva uno scarso contatto con le sue emozioni), potè calarsi nella scena concentrando l’attenzione sul freddo che provava il gattino, sul desiderio di cercare un nuovo focolare ma anche sul timore che, allontanandosi, la bambina non l’avrebbe più trovato se fosse tornata a cercarlo.
Un altro punto fondamentale, a mio avviso, riguarda il metterci in gioco pure noi. Solo se riusciamo a dare senso, anzitutto per noi stessi, al mondo relazionale in cui inizialmente il paziente tende a catturarci, riconoscendo la nostra partecipazione transferale, può avvenire una trasformazione della relazione. Il paziente cambia se anche noi con lui riusciamo a cambiare, se il nostro intento non è quello di cambiare l’Altro per conformarlo a determinati modelli di ‘normalita’, ma di vivere con l’Altro un processo trasformativo.
Contrariamente a quello che si pensava un tempo, ciò che distingue il paziente dall’analista non è il fatto che quest'ultimo ha liquidato i suoi transfert una volta per tutte, ma che, si spera, è più pronto a riconoscerli e farli diventare elementi del gioco creativo comune.
Giovanna.Bosco@libero.it
Giovanna Bosco, ‘Il corpo, i suoni, i colori, la scena in psicoanalisi e nelle artiterapie’, in Oltre la parola: la relazione terapeutica e formativa tra psicoanalisi e arti-terapie (a cura di G. Bosco), Guerini, 2001 (se non più reperibile in libreria, si vedano i siti Internet di Amazon e dei principali editori)
Giovanna Bosco, 'Dai modelli intrapsichici al paradigma relazionale', in Bollettino E-spèira n. 2, gennaio 2005
Stefhen Arcari: ‘The Unconscious setting of the Group’, in Group Analysis, the international Journal of Group-Analytic-Psychotherapy, marzo 2003, vol. 36, n. 1
J. Gedo, La storia intellettuale della psicoanalisi, 1973-1998, in Psicoterapia e Scienze Umane, 1999, XXXIII, 1: 5-33
Pietro Rizzi, 'Crisi e trasformazioni del trattamento psicoanalitico, in Trattamenti in setting individuale, F. del Corno e M. Lang (a cura di), Ed. Franco Angeli, 2001
Silvia Vegetti Finzi, Storia della psicoanalisi, Mondadori, 1986
Pierluigi Sommaruga, Il tempo presente, in Il Ruolo terapeutico n. 117, 2011
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