ARTITERAPIE

Tra Psicodramma e Drammaterapia – un testo del 2015 riproposto per l’attualità dell’argomento

di Giovanna Bosco

Ripropongo  con alcuni aggiornamenti uno scritto del 2015, nel quale prendevo in esame alcuni aspetti di cruciale importanza per chi utilizza il teatro nel lavoro con i gruppi.  Mentre la diffusione delle nuove forme di comunicazione tramite il web esclude sempre più la corporeità e la possibilità di vivere relazioni di risonanza empatica, dando ad individui sempre più estromessi da una piena vita di relazione l’illusione di essere costantemente interconnessi, appare ancor più di un tempo feconda la dimensione gruppale nel lavoro clinico, nella formazione e nei percorsi  esperienziali. Nell’ambito dei gruppi diventa di particolare interesse la possibilità di utilizzare il teatro quale forma di espressione in cui la parola diventa parola pienamente ‘incarnata’.  

Nell’articolo che ripropongo, oltre a discutere alcuni nodi teorico-metodologici che riguardano l’ “agire” e il  “gioco”, vengono presentati i tratti salienti di un metodo che nasce dall’integrazione dei contributi, a mio avviso più fecondi, provenienti da diversi approcci:   psicodramma Moreniano, psicodramma analitico e drammaterapia. Segue la narrazione di una sessione di un gruppo esperienziale in cui si è utilizzato il teatro – inteso come spazio ludico dove ciò che avviene è sentito come profondamento’ vero’ pur essendo ‘per finta’  – per favorire il riconoscimento della ‘scena di gruppo’ e dei copioni ‘internalizzati’ e la loro trasformazione.

 

Nel teatro troviamo una sintesi di tutte – o quasi tutte – le forme espressive, sia verbali che extraverbali, ed è per questo che, quando in un gruppo si ricorre alla drammatizzazione, l’esperienza che ne deriva è particolarmente trasformativa, coinvolgendo contemporaneamente una molteplicità di funzioni psichiche e di aree dell’esperienza.  La drammatizzazione si fonda su un paradosso: ciò che vi avviene è profondamente vero pur essendo per finta. continua a leggere

L’incontro con il trauma: riflessioni su “Una stanza tutta per lei”

di Giovanna Bosco

Premessa
Dopo uno dei seminari tenuti presso la nostra sede sul tema dell’ “indicibile”,  in cui era emersa la potenza comunicativa delle immagini mentali, particolarmente quando la relazione si fa emotivamente impegnativa, Teresa Mutalipassi ci ha inviato un interessante scritto, pubblicato all’inizio di settembre,  in cui torna con il ricordo al caso di Nina, una giovane donna con una storia di abusi e maltrattamenti alle spalle, inviata a lei per una valutazione delle sue capacità genitoriali.  Lo scritto, coinvolgente, interlocutorio e generoso nel rivelare sensazioni, difficoltà, immagini, desideri, pensieri suscitati da quell’incontro, aveva stimolato due brevi ma significativi Commenti da parte di  Luciana Monzi e Vera De Luca.
Rileggendo quello scritto a distanza di un po’ di tempo insieme ai Commenti, son stata sollecitata a riflettere su varie questioni, in particolare:

– le difficoltà emotive e relazionali cui siamo esposti quando ci viene richiesta una valutazione delle capacità genitoriali rispetto a soggetti che, prima di diventare genitori,  sono stati bambini  maltrattati o abusati e che quindi arrivano a noi con un carico di sofferenze indicibili ma inscritte nel corpo, se sappiamo ascoltarlo. Chi vediamo di fronte a noi?  Una madre inadeguata? O che va sostenuta e aiutata a svolgere le funzioni materne?  O una ragazzina mal-trattata da proteggere?  Con chi ci identifichiamo e con chi empatizziamo?  Con il figlio? Con la madre? Con la bambina segnata da mille spaventi, abbandoni e abusi che è in lei? continua a leggere…

La formazione delle immagini: introduzione al Seminario del 15 ottobre 2016

        di Giovanna Bosco

L’immagine è come un fiore che va trattato con delicatezza.
Darne un’interpretazione chiusa è come reciderlo dalla pianta,
per metterlo in un bicchiere dove avrà vita breve.
Soggettivare i vissuti che l’immagine suscita in ciascuno di noi
permette a nuovi fiori di sbocciare e nuovi frutti nascere,
dando inizio ad una storia aperta a nuovi sviluppi

 

 

Riporto in questo scritto la Relazione introduttiva da me tenuta il 15 ottobre 2017, integrata su alcuni punti da riflessioni successive stimolate dall’esperienza del Seminario. 

 

Una premessa
Poiché questo incontro di oggi  è la prosecuzione della riflessione comune iniziata con il Seminario del 15 marzo 2016 sui “Processi di elaborazione delle esperienze indicibili”, richiamerò brevemente, tra gli aspetti trattati nel precedente incontro, quelli che fanno da sfondo a quanto esporrò oggi, rinviando chi volesse approfondire agli scritti sull’argomento già pubblicati su questo stesso sito, e indicati in calce a questo testo:

 le immagini mentali sono il risultato di un’elaborazione non verbale e tuttavia già simbolica di molte informazioni che provengono o sono pervenute in passato dai vari canali sensoriali. Appartengono quindi alla sfera non verbale, analogica. Tuttavia differiscono dai processi di “elaborazione subsimbolica” (come li definisce Wilma Bucci), attraverso cui in modo inconsapevole e non intenzionale viene trattato il flusso continuo di sensazioni e informazioni che provengono dai nostri organi di senso e dall’interno del corpo. Pur non dando luogo a rappresentazioni, i processi “subsimbolici” hanno un grande valore e  sono alla base, tra le altre cose, dell’intuizione, un importante fattore terapeutico ‘nascosto’.

• La formazione di immagini  fa da ponte tra quel mondo sottotraccia che abbiamo definito subsimbolico – in cui vi è un flusso continuo di sensazioni che vengono dal corpo –  e il mondo delle parole, che per la loro radicale estraneità non potrebbero mai  incontrarsi tra loro. Le immagini possono svolgere questa funzione di ‘ponte’ perché da un lato mantengono l’ancoraggio al mondo dei sensi, proprio dei processi “subsimbolici”, ma allo stesso tempo hanno già in comune con le parole l’appartenenza al mondo dei simboli e delle rappresentazioni.

• Si è messo in luce nel precedente seminario che la psicoanalisi contemporanea, trovandosi a far fronte a nuove forme di disagio –  soggetti incapaci di riconoscere le loro emozioni e quelle degli altri, con limitata capacità immaginativa e prevalenza  del pensiero operativo, pratico – si è resa conto che il trattamento analitico classico, fondato sull’interpretazione verbale, con questi soggetti è poco praticabile. Questo  porta a rivalutare tutto ciò che nella relazione passa, più o meno consapevolmente, per il non verbale, in particolare la comunicazione corporea (le espressioni del volto, la voce, il ritmo, i movimenti del corpo, e così via). 

• Si è anche considerato che, nonostante il crescente interesse per la comunicazione corporea, resta la tendenza a restare difensivamente nella trincea dell’osservazione, anzichè riconoscere che anche noi siamo parte in causa, in quanto partecipiamo, per lo più inconsapevolmente, ad un fitto dialogo fatto di espressioni facciali, movimenti del corpo, tono della voce. Questo elemento di riflessione ci riguarda tutti: psicoanalisti e gruppoanalisti, arteterapeuti, formatori. Abbandonando il vertice dell’”osservazione” dell’Altro diventa possibile porci in ascolto – nel flusso delle comunicazioni da corpo a corpo – delle nostre sensazioni. Questa è la premessa perché i segnali che provengono dal nostro corpo possano trasformarsi in immagini. continua a leggere…

Andar per gruppi

di Giovanna Bosco

Non ho saputo resistere alla tentazione di prendere a prestito da Lo Verso (1998) l’espressione “andar per gruppi”, perché questa immagine è fortemente evocativa.

Anzitutto ha suscitato in me il pensiero che la nostra stessa vita è un “andar per gruppi”: dal gruppo familiare in cui abbiamo fatto le nostre prime esperienze sin dal momento in cui ci siamo affacciati al mondo, a tutti gli altri gruppi di cui abbiamo via via fatto parte, diventando ciò che ora siamo.

Pensando poi al gruppo come strumento di intervento nell’ambito della psicoterapia, delle artiterapie, della formazione, ecc. “andar per gruppi” ci parla del fatto che chi intende lavorare nel setting di gruppo deve sapersi muovere e orientare tra una vasta gamma di gruppi.
Ci sono gruppi aperti e gruppi chiusi; gruppi di breve o media durata e gruppi in cui i componenti possono restare finché ne sentono il bisogno ed il desiderio; gruppi “di parola” e gruppi che ricorrono in modo prevalente a forme di espressione e comunicazione non verbale; gruppi dalla composizione diversificata e gruppi omogenei. L’elenco dei possibili gruppi omogenei è pressochè infinito: adolescenti, donne, genitori, oppure soggetti che hanno in comune un passaggio critico della vita, come la menopausa, o una specifica problematica o sofferenza, come nel caso di una particolare malattia o di un lutto o della dipendenza da droga, fumo o alcool.  

Il contesto non è solo e necessariamente quello terapeutico. Come del resto metteva in luce già Foulkes (1975), riconosciuto come il fondatore della Gruppoanalisi europea, i principi gruppoanalitici possono essere applicati non solo ai gruppi terapeutici ma anche a molti altri tipi di gruppi continua a leggere…

Non ci sono due alberi uguali nella foresta: note per un approccio relazionale alle artiterapie

di Giovanna Bosco

Chi cercasse ‘libretti di istruzioni’ per elaborare progetti di arteterapia per una determinata categoria di persone o un certo contesto, basate su una sequenza di attività da proporre, o parole oracolari che mettano in grado di sapere a priori come affrontare i problemi che si possono presentare in un gruppo di arteterapia, non troverà qui indicazioni di questa natura.    Le esperienze maturate nel corso del tempo, sia lavorando come psicoanalista (e in alcuni casi inserendo nel percorso analitico modalità di comunicazione diverse dalla parola), sia conducendo gruppi di arteterapia, sia svolgendo attività di supervisione a colleghi che lavoravano a livello espressivo in molti diversi campi (dalla psichiatria alla formazione dei volontari, dai servizi per l’infanzia ai contesti educativi), mi hanno resa sempre più consapevole che se qualcosa ha funzionato con un gruppo o con un paziente, non vuol dire che vada bene anche con il successivo, anche se la situazione sembra analoga. L’importante, quando si inizia un percorso, individuale o di gruppo, è porsi in ascolto, e riuscire non solo a guardare ma a vedere, in modo da accogliere ciò che viene espresso, talvolta in forme ancora incoerenti o sommesse, e da riconoscere quali lacci frenino l’espressività e blocchino la creatività.

E’ molto importante tenere a bada l’aspettativa che si possa ripetere continua a leggere…

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