I processi di elaborazione di esperienze ‘indicibili’ (parte 2°)

  di Giovanna Bosco

 

In questa seconda parte dell'articolo (la prima è stata pubblicata su questo sito nel luglio 2015) prendo in considerazione i contributi della Infant Research e le implicazioni per la psicoanalisi e gruppoanalisi della scoperta dei 'neuroni specchio'. Vengono poi discussi i concetti di emozione e di empatia in un’ottica di complessità, e viene messa in luce l’interdipendenza tra lo sviluppo del sistema nervoso e la qualità delle esperienze emozionali intersoggettive.

Tutto ciò ha a che fare con quell’area dell’esperienza umana che è ‘indicibile’. La stessa psicoanalisi va sempre più riconoscendo l’importanza dei ‘fattori terapeutici nascosti’, che hanno a che fare con l‘insieme di  comunicazioni non intenzionali e spesso non consapevoli, veicolate dagli aspetti prosodici del linguaggio parlato e dalle espressioni del viso e del corpo. Prendo poi in esame il concetto di ‘schema emozionale dissociato’ (W.Bucci), e faccio dei collegamenti con la mia esperienza terapeutica, esponendo due casi clinici in cui le tracce di eventi traumatici del passato, affidate ad un solo canale sensoriale, erano inizialmente esiliate in “isole di non senso”.

Nell’ultima  parte dell’articolo propongo degli elementi di riflessione, corredati da vignette cliniche, sui processi di elaborazione delle esperienze indicibili nel contesto psicoanalitico, e mi ricollego ad una domanda di Antonio Imbasciati sul posto che ha, nella formazione dell’analista, la comunicazione non verbale.  Porto infine l’attenzione sulla specificità dei processi di elaborazione nelle terapie a mediazione artistica e nelle artiterapie.

 

La scoperta dei neuroni specchio: implicazioni per la psicoanalisi e la gruppoanalisi

Si parla sempre più spesso di empatia come di un fattore fondamentale, oltreché nella relazione madre-bambino e nelle relazioni umane in genere, nel rapporto terapeutico.  La scoperta dei neuroni specchio da parte di Rizzolatti e altri (1996) toglie un po’ dell’alone mistico che ha sempre circondato questo concetto. Più in generale, tracciando nuove linee di collegamento tra fenomeni biologici e fenomeni psichici, contribuisce al superamento del pensiero dicotomizzato che per secoli l’essere umano ha avuto su se stesso, per lo meno nella cultura  occidentale, e al recupero di una visione più armonica ed integrata del rapporto corpo-mente.

Rizzolatti ha scoperto che i neuroni motori, oltre ad entrare in funzione quando si compie un movimento o un’azione con determinate finalità (alzarsi in piedi, portare il cibo alla bocca, ecc.), si attivano anche alla semplice vista di analoghi movimenti compiuti da altri, come se il soggetto stesse  compiendo un’azione equivalente. “Il cervello che agisce è un cervello che comprende”, scrive Rizzolatti (2006) per sottolineare che comprendiamo un’azione e il suo fine proprio perché nel nostro cervello si attivano gli stessi neuroni che si attiverebbero se stessimo compiendo noi stessi quell’azione. Tutto ciò avviene in modo implicito, senza alcuna partecipazione cosciente, e ci permette di conoscere in modo immediato e senza alcuna comunicazione verbale le intenzioni degli altri, e di conseguenza fare  previsioni sui loro comportamenti.
 
Alla luce di questa scoperta anche certi fenomeni cosiddetti  ‘occulti’ o ‘paranormali’ diventano molto meno esoterici. Già Freud, in uno scritto poco noto del 1921 (dal titolo Psicoanalisi e telepatia) avanzava l’ipotesi che la telepatia dipendesse da una comunicazione da inconscio a inconscio, anche se – nel quadro della dicotomia corpo/mente, pensiero primario/pensiero secondario -  considerava questo fenomeno come un residuo di qualcosa di molto primitivo, appartenente alle origini  della specie umana, che solo in certe particolari condizioni (ad esempio nella folla) può riemergere (Dahlin e al., 2002)

Tornando alle recenti scoperte della neurobiologia, i nostri neuroni specchio si attivano anche alla vista degli stati emotivi della persona che abbiamo di fronte -  che si manifestano attraverso una serie di mutamenti nel colore della pelle, nella grandezza dell’iride, nella postura e nell’espressione dei viso, nel tono della voce,  e così via – facendo sì che noi sentiamo ciò che sente l’altro.  E’ questo circuito nervoso di tipo imitativo involontario, secondo Gallese (2001, 2006), a permettere di provare l’emozione che prova l’altro: rivivendo all’interno del proprio corpo, attraverso  una simulazione inconsapevole ed automatica,  le sensazioni ed i movimenti che corrispondono nell’altro a quel determinato stato emotivo, si comprendono, oltre alle  azioni e alle intenzioni di un’altra persona, anche le sue emozioni. 

Questi studi consentono di individuare delle corrispondenze tra meccanismi biologici  e fenomeni evidenziati in campo psicologico: oltre all’empatia, ritenuta un fattore essenziale in ogni relazione terapeutica al di là del contesto teorico di riferimento, il rispecchiamento, considerato, a partire da Winnicott, un importante fattore terapeutico, e la risonanza, da tempo riconosciuta dalla Gruppoanalisi come uno dei fenomeni  caratterizzanti i processi di gruppo. La scoperta dei neuroni a specchio getta inoltre una nuova e meno ‘negativa’ luce anche su concetti psicoanalitici come quello dell’identificazione proiettiva:  vista in origine come tentativo inconscio del paziente di liberarsi di contenuti mentali spiacevoli, trasferendoli nella mente dell’analista, oggi, alla luce di queste nuove scoperte della neurobiologia, appare molto più semplicemente come l’esito della riproduzione inconsapevole, da parte dell’analista, attraverso una non intenzionale “simulazione incarnata”, di ciò che prova il paziente. 

E possibile cogliere significative corrispondenze tra queste recenti scoperte, fatte nell’ambito delle neuroscienze, e le conclusioni cui è pervenuta la Infant Research attraverso sistematiche osservazioni di ciò che accade fin dalle prime settimane di vita nel rapporto tra il bambino e la madre o coloro che si prendono cura del piccolo. Sviluppatosi nella cornice della teoria dell’attaccamento, questo filone di ricerca ha trasformato la visione del bambino che caratterizzava originariamente la psicoanalisi, ampliando la concezione relazionale che già si affaccia in autori come Balint, Winnicott, Fairbairn.  Secondo Trevarthen (1998) il bambino è pronto, già dalle prime settimane di vita, ad interagire con il suo ambiente ed è predisposto ad avere esperienze condivise con altri esseri umani. L’intersoggettività si manifesta inizialmente attraverso ‘dialoghi’ caratterizzati da sorrisi e scambi vocali, per evolvere man mano, dando vita ad interazioni sempre più complesse. Questo stesso ricercatore considera la scoperta dei neuroni specchio una ulteriore conferma di quanto teorizzato dalla Infant Research a proposito del ruolo fondamentale del ‘rispecchiamento empatico’.

 

Emozioni, relazioni, empatia: l'interdipendenza tra sviluppo del sistema nervoso e evoluzione delle esperienze emozionali intersoggettive

A questo punto mi pare opportuno introdurre una domanda: cosa si intende quando, a proposito  dell’attività dei neuroni-specchio e delle primissime interazioni madre-bambino, si parla di  ‘emozioni’ ? Ritengo che si stia parlando, senza nulla togliere alla portata di queste scoperte, di sensazioni ed emozioni embrionali, che passano per diversi canali sensoriali e richiedono, per emergere in forma compiuta, un complesso processo di connessione ed elaborazione attraverso una relazione risonante con  le figure di accudimento. Un’emozione in senso pieno è infatti già un costrutto complesso, risultante dall’elaborazione e connessione di una molteplicità di sensazioni viscerali, cinestesiche, visive, uditive, ecc.  Pur tenendo presente che si può passare facilmente da un’emozione all’altra, ogni emozione è un’entità ‘discreta’, che si distingue qualitativamente dalle altre. Non importa se si sia o meno in grado di dare un nome alle proprie emozioni. Un bambino di un anno e mezzo può esprimere in modo chiaro, attraverso una sorta di balletto accompagnato da una mimica e da espressioni vocali inequivocabili, una gioiosa eccitazione ricca di aspettative, quando capisce che un genitore, che era stato assente per alcuni giorni, sta per arrivare.  Diverse ma altrettanto inequivocabili  possono essere le sue espressioni non verbali quando è arrabbiato,  o quando ha paura.  Si tratta in questi casi di emozioni non verbalizzate, ma che emergono in tutta la loro complessità e specificità da quei processi che Wilma Bucci definisce di ‘elaborazione sub-simbolica’,  e che al tempo stesso contengono anche aspetti di ‘elaborazione simbolica’ non verbale.  In epoche più precoci, tuttavia, ciò che è possibile condividere con un bambino molto piccolo sono espressioni prosodiche (riguardanti il tono, ritmo e timbro della voce)  e movimenti corrispondenti a stati emotivi embrionali, che, pur potendo essere molto intensi, non sono ancora altrettanto strutturati e differenziati qualitativamente.  Essi si collocano infatti lungo il continuum che va dal ben-essere al mal-essere, dall’apertura alla chiusura, dal movimento ascendente a quello discendente, e così via. Pur riconoscendo che si tratta di esperienze importantissime per il futuro sviluppo, penserei  a questi stati emotivi embrionali come a precursori della ricca gamma di emozioni che si andrà via via sviluppando e differenziando attraverso una relazione con un ambiente capace di sintonizzarsi affettivamente con il piccolo.  Significativo, a questo proposito, è un esempio, riguardante l’interazione tra una mamma ed una bambina di dieci mesi, che viene descritto da Stern (1985) per illustrare il suo concetto di attunement  e che viene citato da Wilma Bucci (2009) per sottolineare “la centralità dell’elaborazione subsimbolica nell’elaborazione dell’informazione di tipo emozionale”:

La bambina dà alla sua faccia prima un’espressione generale di apertura (bocca aperta, occhi spalancati, sopracciglia alzate) e poi di progressiva chiusura, effettuando una serie di cambiamenti il cui profilo può essere rappresentato da un lieve arco (il corsivo è mio). La madre risponde intonando un aaaah con un tono ascendente e poi discendente che corrisponde al crescere e decrescere del volume.

Come si può notare, la madre risponde alla bambina non semplicemente imitandola, ma arricchendo la comunicazione tramite variazioni sul tema di tipo transmodale (che comportano la trasposizione dell’espressione del bambino in altra modalità sensoriale)
La stessa emersione dell’empatia, che permette la comprensione del vissuto altrui senza tuttavia esserne travolti, pur poggiando a livello biologico sull’attività dei neuroni specchio, è l’esito di un processo di rispecchiamenti e scambi affettivi che consente via via una sempre più fine elaborazione degli stati emotivi e che permette la maturazione del corpo-mente, inteso come sistema in cui il dato biologico e il dato mentale sono in costante interazione e proprio per questo inscindibili.

Tornando alle recenti scoperte della neurobiologia, oggi sappiamo che i neuroni specchio sono la base biologica che permette  alle persone che si prendono cura del bambino di riconoscere ciò che egli sente, e che consente al piccolo di sentirsi riconosciuto. E proprio un funzionamento deficitario dei neuroni specchio  è stato riscontrato da recenti studi della neurobiologia nei bambini autistici. Ma allo stesso tempo è importante tener presente, sull’altro versante, che le strutture nervose del neonato dipendono, per poter maturare, dagli scambi affettivi e dalle esperienze che il piccolo avrà modo di condividere con chi lo accoglierà fin dal suo affacciarsi al mondo (Schore, 2003). Attraverso la sintonizzazione delle espressioni del viso, delle vocalizzazioni, dei movimenti del corpo, verrà co-costruita una trama di reciproca regolazione emotiva a mediazione corporea. Dalla compattezza, o viceversa dalla fragilità o lacerazione di questa trama, dipenderà anche lo sviluppo delle sue strutture nervose, oltre che del suo Sé.

Ed è altrettanto vero, se guardiamo le cose dal punto di vista del terapeuta, o dell’adulto che si prende cura del bambino, che l’empatia può esistere nella misura in cui si è in grado di provare le stesse sensazioni ed emozioni che sente l’altro (e questo ci fa diventare ‘tutt’uno con l’altro’), ma all’interno di una cornice che mantiene la capacità di differenziare Sé dall’Altro. E’ questo paradosso  che,  a mio avviso, rende possibile la condivisione empatica, senza tuttavia essere completamente invasi dagli stati emotivi altrui. In caso contrario sarebbe compromessa la funzione di contenimento emotivo e di contributo allo sviluppo della capacità di tollerare, modulare ed elaborare le emozioni. Del resto, se una madre, si limitasse a rispecchiare il pianto del bambino mettendosi anche lei a piangere, questo contagio ben difficilmente aiuterebbe il bambino. L’empatia consente  invece un rispecchiamento di tipo particolare, che non è pura e semplice replica dell’emozione dell’altro, ma che attraverso la modulazione delle emozioni le restituisce in modo che siano tollerabili, favorendo  esperienze evolutive.

 

L'indicibile ed i fattori terapeutici nascosti

 Ciò che ho descritto fin qui dal punto di vista scientifico e teorico riguarda tutta un’area dell’esperienza umana che è “indicibile”, e non solo nel caso del bambino che non possiede ancora le parole per comunicare nel linguaggio convenzionale le sue esperienze e ciò che prova. Quando Stern, nel passo che ho riportato sopra, descrive dettagliatamente il modo in cui la madre si sintonizza transmodalmente attraverso la voce con i cambiamenti delle espressioni del viso della sua bambina di dieci mesi, ci offre delle informazioni preziose sul piano dell’osservazione scientifica.  Ma per sentire e trasmettere qualcosa di quella indicibile armonia che attraversa e insieme avvolge madre e bambina, che le muove e fa vibrare l’una con l’altra, l’una verso l’altra, deve affiorare dalla nostra memoria incarnata un’immagine, o l’eco di una voce che per analogia evochi quel clima ineffabile, quel senso di inafferrabile bellezza, quell’attimo di fuggevole emozione intrisa di eternità. Oppure dobbiamo cercarli in una composizione poetica, in una musica, in un quadro. Dice un verso di David Frost “la poesia è ciò che viene perso nella traduzione”.  E molti pittori affermano che ciò che li spinge a dipingere è l’impossibilità di farsi capire in altro modo.

Erano sorrisi, voci, trilli,
in gote paffute, carezze di piuma.
Riflessi di trasparenze antiche
ed emozioni mai sopite.
Una lacrima    goccia di mare
(Angelo Giansiracusa)

Si pensa spesso alle situazioni terapeutiche in cui si ricorre a forme di espressione non verbale (dalle  terapie infantili in cui si utilizza il disegno o il gioco alle arti terapie) come a delle modalità per consentire l’espressione di quanto non può essere comunicato con il linguaggio convenzionale (o per l’età precoce dei soggetti, oppure a causa di handicap mentali o di gravi patologie psichiche). Tuttavia, quanto esposto fin qui (sia nella prima che nella seconda parte di questo articolo) permette di riconsiderare la questione: il linguaggio convenzionale, anche nel caso di soggetti che lo padroneggiano senza difficoltà, non è il più adeguato per comunicare i nostri stati emotivi e le nostre esperienze affettive all’interno di un setting terapeutico, come pure nell’ambito di qualsiasi relazione umana. 

All’interno della stessa psicoanalisi, che ha a lungo ritenuto centrale nei processi di elaborazione la ‘traduzione in parole’ di quanto si esprime attraverso il corpo ed i suoi sintomi, si va sempre più riconoscendo che anche nel rapporto discorsivo che si svolge nel setting analitico entrano in azione fattori terapeutici nascosti. Nel setting tradizionale, in cui paziente e analista non possono vedersi, questi fattori terapeutici nascosti e non intenzionali poggiano sugli aspetti prosodici del linguaggio: il timbro, il tono, il ritmo della voce.  Nel vis a vis, alle sonorità vocali si aggiunge una più ampia gamma di  comunicazioni corporee non intenzionali  e quasi sempre inconsapevoli, che rendono la parola incarnata, autentica, ‘piena’, impregnata di comunicazione affettiva, e che consentono la sintonizzazione reciproca tra terapeuta e paziente  e, nel setting di gruppo, la risonanza tra i suoi vari componenti. E viceversa, se non c’è armonia tra le parole e le espressioni del viso, del corpo,  della voce, questa mancata corrispondenza induce un clima di inautenticità, che, se non riconosciuto, diventa un fattore di disturbo della relazione terapeutica, così come lo è nelle relazioni primarie. Meltzer cita il caso della madre di un bambino autistico, che ripeteva meccanicamente “tesoro”, mentre il tono della sua voce  veicolava indifferenza nei confronti del bambino. Wilma Bucci (2009) parla, a proposito di vicissitudini di questo tipo, di schemi emozionali dissociati.  Come ho esposto nella prima parte di questo articolo,  questa autrice segnala che c’è tutta un’area dell’esperienza, (corrispondente a ciò che ella definisce ‘Sistema sub-simbolico’), che è indicibile, che non può proprio essere ‘tradotta’ in parole, perché si tratta di sistemi comunicativi radicalmente diversi. Già la Scuola di Palo Alto, del resto, aveva messo in luce la radicale differenza tra comunicazione non verbale, che è di tipo ‘analogico’, in quanto  conserva la somiglianza tra la cosa rappresentata e ciò che la rappresenta, e comunicazione verbale, in cui questo intimo legame si perde.  Mentre il linguaggio corporeo, di tipo analogico, è universale (fatta eccezione per alcuni segni appresi come il movimento del capo per dire Si o No) il linguaggio verbale è il prodotto di una determinata cultura ed è costituito da codici di tipo digitale, logico, convenzionale.  Esso è necessario per  fare distinzioni e generalizzazioni, per esprimere rapporti causali, temporali, di inclusione o esclusione, ma è poco efficace per comunicare le emozioni. 

 

Gli 'schemi emozionali dissociati: punti di contatto con concetti fondamentali della psicoanalisi – casi clinici  

Come ho già segnalato nella prima parte di questo articolo, un aspetto originale della Teoria del Codice Multiplo di Wilma Bucci  (1997) sta nel suo sostituire alla visione bipolare (comunicazione verbale/non verbale) un sistema più complesso, articolato su tre livelli (subsimbolico, simbolico non verbale e simbolico verbale), che devono essere connessi tra loro (anche se questa connessione non sarà mai totale), perché possa esserci una vita emozionale sana. In questo quadro di sviluppo di collegamenti tra i vari sistemi  un fondamentale ruolo di mediazione tra esperienza somatica e comunicazione verbale è assegnato all’elaborazione di simboli non verbali, ossia alle immagini, che non sono solamente di tipo visivo, ma possono anche essere rappresentazioni sonore o tattili o di movimenti corporei.  Questa integrazione permette la formazione degli schemi emozionali. Le sensazioni, azioni ed esperienze somatiche derivanti dalle prime relazioni madre-bambino sono la base dalla quale si svilupperà lo schema, attraverso gli opportuni collegamenti con l’attività immaginativa simbolica e con le parole.

Pur nascendo nell’ambito della psicologia cognitiva, il concetto di schema emozionale ha molti punti di contatto con concetti fondamentali per la psicoanalisi, come  i modelli operativi interni di Bowlby e le rappresentazioni interne generalizzate  di Stern. In comune c’è la stessa idea di fondo: si tratta di rappresentazioni implicite (non consapevoli) di Sé in rapporto con gli altri, che hanno le loro radici nelle relazioni primarie e che determineranno il modo in cui anche in seguito si percepirà se stessi, le proprie esperienze ed emozioni, ed influenzeranno il modo di interagire con le altre persone. Continuerò comunque a utilizzare il concetto di  ‘schema emozionale’, sia perché è visto come qualcosa di plastico, sia perché questa espressione  mette in luce un aspetto importante: tali rappresentazioni di sé comprendono rappresentazioni del proprio corpo ‘emozionato’ in relazione con il corpo dell’altro. 

Il contesto interpersonale è fondamentale per lo sviluppo di questi schemi, che si riattivano anche nel transfert e nel controtransfert  determinando vissuti e aspettative reciproche, e che possono essere modificati da nuove esperienze. Quando il bambino ha paura, o prova delle sensazioni interne spiacevoli, il suo pianto incontra un suono-movimento ritmico che lo rassicura, un abbraccio che lo conforta.  Ma se il genitore non riconosce i segnali del bambino, se è indifferente o peggio ancora se lo maltratta, si verifica una dissociazione patologica degli elementi dello schema.  Nelle vicende traumatiche,  non potendo riconoscere l’adulto come fonte di minaccia (il bambino non può fuggire né difendersi),  viene meno la possibilità di riconoscere e in seguito ricordare il legame tra le sensazioni di paura, ansia, rabbia  (le ‘memore corporee’) e le vicende che le hanno determinate. Questa dissociazione persisterà anche successivamente, quando, a livello sensoriale, si presenterà  qualcosa che per analogia riattiverà quello schema emozionale.   Oppure, al contrario, possono venire attivate soltanto le componenti simboliche dello schema, per cui il soggetto può descrivere con precisione accadimenti paurosi o traumatici senza però provare l’emozione corrispondente.  Ricordo il caso di una paziente che può essere ricollegato con il primo tipo di dissociazione.

Carla  sapeva di essere stata oggetto di abusi sessuali da bambina, ma i suoi ricordi sulle circostanze della violenza e sulle caratteristiche del violentatore erano avvolti in una fitta nebbia.  Talvolta durante le sedute sobbalzava bruscamente quando si sentiva il rumore scoppiettante di un motore, e veniva invasa da un profondo senso di agitazione, senza riuscire a comprenderne il motivo. Attraverso i ricordi di una parente, aveva scoperto che accanto alla casa degli zii, a cui i genitori la affidavano spesso, c’era un bar frequentato da motociclisti, ma passò del tempo prima che si potesse stabilire un legame tra le sue dolorose emozioni e l’abuso subito. Tuttavia fin dal primo momento ogni volta che, durante la seduta, si sentiva un suono simile a quelli che avevano contrassegnato quelle esperienze traumatiche, la paziente veniva invasa da un profondo senso di angoscia, senza riuscire a comprenderne il motivo.  Nel processo di elaborazione degli elementi sconnessi dello schema emotivo, fu fondamentale la condivisione di ciò che sentiva la paziente,  e  un impiego limitato del registro verbale accompagnato da una espressività corporea elevata, come avviene quando si comunica con un bambino. Le parole che dicevo quando la paziente era turbata da un rumore esterno erano come  fili del telefono che permettono di tramettere e condividere a livello vocale un’emozione.  Un giorno un mio lapsus (“via, via questo bruto rumore”) suscitò nella paziente una agitazione più intensa del solito, ma fece anche affiorare dalla nebbia dei suoi ricordi l’immagine del “bruto”. In qualche modo, a livello empatico e del tutto inconscio, avevo collegato il rumore, e l’emozione che esso attivava, con l’abuso subito anni prima dalla paziente.  Dapprima l’immagine del ‘bruto’ fu per la paziente quella di un uomo vestito di nero a cavallo di una motocicletta, tuttavia quell’ immagine non era un ricordo realistico ma piuttosto una prima elaborazione simbolica che condensava vari aspetti sensoriali (uditivi e visivi) della traumatica esperienza subita. In seguito dalle nebbie dei ricordi emerse la figura del vero abusante: lo zio.

In miei precedenti scritti ho riportato diffusamente diversi percorsi analitici, realizzati nel setting duale, dai quali emerge che anche l’integrazione tra i diversi canali sensoriali, che sappiamo potersi realizzare pienamente solo nell’ambito di una relazione madre-bambino risonante e sintonica (l’interfaccia transmodale di cui ci parla Stern) può essere compromessa oppure può andare perduta, per lo meno in relazione a certe zone della memoria e certe rappresentazioni di sé. Anche in epoche successive alla prima infanzia, quando compaiono vicende difficili da fronteggiare sul piano emotivo (una separazione, un lutto, lo sradicamento dal proprio ambiente) si può determinare una frattura tra le emozioni e sensazioni embrionali e le attese di un ambiente familiare non empatico, che misconosce o addirittura disprezza come una colpevole debolezza le sensazioni e gli stati emotivi di dolorosa perdita, tristezza, sgomento. La mia ipotesi è che questo abbia spesso come conseguenza la perdita dell’integrazione sensoriale.  Può così accadere  che percezioni o sensazioni connesse con un particolare canale sensoriale restino come tracce esiliate dall’esperienza di Sé, frammenti di memoria implicita, confinati in isole di non senso. (Bosco 2001). Quasi ogni paziente con cui ho intrapreso un percorso analitico si è rivelato particolarmente sensibile, soprattutto nella prima fase del percorso analitico, ad un determinato canale sensoriale.  Tralascio qui i casi in cui è emerso il primato dei suoni, del movimento, del canale tattile, avendoli già descritti in altri miei testi  pubblicati su questo sito oppure in forma cartacea,  per soffermarmi sul percorso analitico con un paziente che conservava soprattutto a livello visivo le tracce di esperienze che avevano dato luogo a rappresentazioni di Sé non integrate.

Guglielmo
Da bambino  Guglielmo aveva dovuto lasciare da un giorno all’altro l’aspra vallata alpina in cui aveva passato i primi anni, delimitata dai profili familiari delle alte montagne, con case dai grigi tetti spioventi, per approdare ad un altro continente, tra immense pianure dove la linea dell’orizzonte è l’unico confine: un ambiente dapprima estraneo e poi apprezzato per il senso di libertà e per il calore che aveva contrassegnato le esperienze relazionali di cui aveva goduto durante l’adolescenza. Tuttavia il padre  non vedeva di buon occhio le sue amicizie e le sue nuove esperienze. Guglielmo aveva così dovuto abbandonare anche questo nuovo ambiente, che dopo l’iniziale spaesamento gli era diventato familiare, quando la famiglia lo aveva rimandato in Italia, da solo, per frequentare l’Università.  Parlava di queste vicende senza manifestare particolari emozioni, e senza riconoscere lo sradicamento due volte patito.  Un giorno mi portò un album di fotografie di quel paese sudamericano.  Gli dissi che ciò che mi interessava ancor più erano le “fotografie che si erano impresse nella sua memoria”.  Iniziò così a  descrivere in modo vivace aspetti dei diversi ‘paesaggi’ che aveva conosciuto. Di quegli ambienti così diversi e egualmente perduti sembravano essere rimaste soprattutto tracce visive.  E fu accompagnandolo nello sfogliare idealmente quei ricordi visivi, ed a comporli in immagini sempre più nitide e dense di significati, che pian piano quei paesaggi si animarono di suoni, odori, voci, e stili contrastanti di espressività. Infine presero forma le sue emozioni,  inizialmente inaccessibili, connesse con i vari strappi che aveva subito nel corso della sua storia. Quelle emozioni che erano state sommerse da parole prescrittive (“non è il caso di piangere, devi essere contento perché in America andiamo a stare meglio”, e così via). In parallelo anche il ‘qui ed ora’ della relazione analitica si colorò di emozioni condivise.

Questo caso è, per certi aspetti, il rovescio di quello descritto prima.  Oltre ad essere diverso il canale sensoriale da cui emergevano tracce di passati eventi traumatici (là i suoni, qui la vista), diverse sono le modalità di dissociazione tra i vari aspetti dello schema emozionale: nel caso di Guglielmo era rimasto un ricordo nitido dei fatti accaduti, anche se scollegato dalle emozioni corrispondenti; nel caso precedente, al contrario, c’era un’emozione senza un perché, priva di connessioni  sia con i ricordi del passato che  con le vicende presenti, che permettessero di dare senso a quell’emozione.

Guglielmo era in grado di ricordare i fatti che gli erano accaduti, tuttavia quei ricordi  erano ‘sterilizzati’, privi delle emozioni corrispondenti, di cui c’erano solo tracce di tipo visivo. Proprio a partire da quelle tracce fu possibile una maggiore integrazione sensoriale, presero forma immagini più  complesse ed a forte contenuto simbolico, e per questa via i suoi asettici ricordi divennero ricordi di ‘vita vissuta’, impregnati di emozioni. Questo avvenne parallelamente ad un risveglio emozionale nella relazione che si sviluppava nel presente, all’interno del setting analitico. Questa condivisione emotiva nel qui ed ora della relazione fu fondamentale per poter arrivare a fare dei collegamenti tra presente e passato che non fossero di tipo puramente intellettualizzato, dando senso alla complicata vita affettiva cui Guglielmo si sentiva costretto:  egli esprimeva in rapporti con donne diverse le diverse parti di sé non integrate, corrispondenti ai diversi paesaggi (ambienti) che lo avevano abitato.  Anche l’integrazione tra queste diverse parti  fu favorita da quel dialogo molto particolare già sperimentato all’inizio del nostro percorso: insieme creammo con gli occhi della mente un nuovo paesaggio che ricomprendeva, integrandoli, elementi dei paesaggi precedenti. Parallelamente egli trovò un nuovo assetto nella sua vita sentimentale. Venne poi il momento di concordare la fine del cammino analitico, e ci demmo un tempo per elaborare insieme la separazione dopo quel viaggio ricco di scoperte ed eventi emozionanti che avevamo  condiviso.

Come raccontare il  risveglio emozionale di Guglielmo?  E’ relativamente facile descrivere le immagini che in un percorso analitico prendono forma e si trasformano via via, perché l’immagine è già una rappresentazione, sia pure in forma non verbale, e dunque si tratta, utilizzando la concettualizzazione della Bucci, di connettere la modalità  ‘simbolica non verbale’  con quella ‘simbolica verbale’. Così come è possibile esporre quei passaggi di un percorso analitico che hanno prodotto insight. Ma quando si prova a raccontare eventi  come lo stabilirsi di un contatto empatico profondo, o la nascita di un nuovo clima com-movente (che ci muove insieme all’altro) sento la  parola scritta – privata della coloritura della voce oltre che di un corpo – inadeguata a comunicare ciò che si è vissuto nel setting. A meno di tentare la strada della scrittura poetica. Ma mi sono ripromessa, quando ho iniziato a scrivere questo articolo, di mantenermi su un registro comunicativo che possa essere largamente condiviso

 

Risonanza empatica e comunicazione non verbale: che posto hanno nella formazione psicoanalitica?   

Antonio Imbasciati  ipotizza che anche nell’analisi degli adulti il principale fattore terapeutico sia  una comunicazione empatica non  verbale.  “Una tale prospettiva sembra dare forza a quanto peraltro già affermato a livello clinico, e cioè che ciò che agisce mutativamente nel paziente risiede nell’assimilazione di messaggi che vanno ben oltre il contenuto dell’interpretazione verbale e spesso avvengono al di là della coscienza della coppia analitica. Sarebbe allora questa la comunicazione da inconscio ad inconscio, dall’analista al paziente e viceversa, che agirebbe terapeuticamente” (Imbasciati, 2010).  Si affacciano qui alcune domande:  in che consiste quel qualcosa che va ‘ben oltre’?  e quale tipo di linguaggio può favorire la connessione tra mondo della parola e mondo extra-verbale? 

Per ‘andare oltre’ la comunicazione e interpretazione verbale, anche nella pratica psicoanalitica si  tende oggi a privilegiare il lavoro vis a vis, in modo da far rientrare in campo, oltre alla voce che è sempre stata presente, quella comunicazione attraverso le espressioni del viso, che Freud aveva cercato di escludere mettendo il paziente sul lettino. Considerando che la comunicazione non verbale, di natura inconscia, avviene per lo più all’insaputa dei soggetti e può anche essere di tipo patogeno, Imbasciati si chiede quale formazione riceva l’analista nel suo training che gli permetta di “usare” in modo benefico la comunicazione non verbale.  “Gli si insegna ad ascoltare qualcosa dei propri affetti (la sua analisi personale) per capire qualcosa degli affetti del paziente (supervisione: di che tipo, per quali casi?) e lo si “attrezza” in tal modo all’ascolto transfert/controtransfert, ma nel corrente svolgimento del training quale è attualmente praticato, ci si focalizza sull’interpretazione verbale, e si trascura quell’altra e più importante comunicazione che avviene, comunque, per fortuna o per disgrazia, a livello non verbale” (Imbasciati 2010).  Dopo aver auspicato una maggior attenzione alla comunicazione non verbale nella formazione degli analisti, avanza  una serie di interrogativi, che cercherò di riassumere così: se la comunicazione non verbale appartiene allo psichico irrappresentabile, se si tratta di qualcosa di emotivo subsimbolico, che ha a che fare con la memoria del corpo, di natura inconsapevole,  come può l’analista usare questa comunicazione e modularla intenzionalmente a scopo terapeutico?  Per quanto riguarda poi la formazione degli analisti, Imbasciati si chiede se una strada possa essere quella di adottare, anche per quanto riguarda l’analisi degli adulti, una modalità formativa già utilizzata nel campo delle psicoterapie infantili, filmando le interazioni che avvengono durante la terapia per poi analizzarle in supervisione.

Questi pensieri sollevano in me un’altra domanda: può la comunicazione non verbale essere ‘usata’ intenzionalmente, posto che è qualcosa che avviene comunque indipendentemente dal nostro controllo? Quello che so per esperienza è che si può acquisire maggiore consapevolezza di ciò che noi comunichiamo a livello corporeo (ma prima ancora di chiederci cosa comunichiamo è fondamentale prestare ascolto a ciò che ‘sentiamo’ nel corpo). Possiamo anche limitare intenzionalmente l’uso della parola per lasciare più spazio alla comunicazione non verbale; possiamo rinunciare, con certi pazienti e in certe fasi  del rapporto analitico, a qualsiasi forma di interpretazione verbale, così come possiamo modificare il nostro modo di concepire l’interpretazione (rimando qui all’ampia letteratura ormai esistente in materia, a partire dalla considerazione di Winnicott (1971) che ogni interpretazione che non avvenga nell’area di gioco tra terapeuta e paziente è puro indottrinamento). Ma possiamo pensare di arrivare ad ‘usare’ intenzionalmente la comunicazione non verbale? Come del resto sa bene Imbasciati e come emerge da altri punti del suo scritto, l’empatia è qualcosa che o c’è o non c’è, e se ci sforziamo di essere empatici riusciamo solo a combinare disastri. Possiamo invece sviluppare la nostra capacità di risuonare empaticamente con l’altro attraverso  esperienze personali che ci permettano di ‘vivere’ relazioni empatiche; e possiamo avere cura nell’evitare che un training formativo ponga un accento eccessivo sui processi di mentalizzazione.  Si può anche diventare, almeno in parte, consapevoli delle nostre comunicazioni non verbali. Tuttavia sia l’esperienza personale che le esperienze maturate in molti anni nella formazione di colleghi mi suggeriscono che la strada più efficace, a questo proposito, consiste nel mettersi in gioco in un setting specificamente predisposto per  esperire e elaborare la  comunicazione corporea, anziché ricorrere all’osservazione di sedute registrate. Un approccio esperienziale alla comunicazione non verbale ha iniziato già da tempo a farsi strada, sia pure timidamente, nella formazione dei gruppoanalisti (un antesignano è stato Anzieu che ha introdotto decenni fa, nella formazione degli psicologi clinici, attività corporee e psicodrammatiche, dedicando loro un intero capitolo del suo volume II gruppo e l’inconscio). Anche attraverso esperienze di gruppo limitate nel tempo si possono sperimentare attività e giochi relazionali che favoriscono la sintonizzazione corporea sia tra coppie che nel gruppo; che promuovono la consapevolezza della propria espressività corporea attraverso il rispecchiamento e la modulazione emotiva da parte degli altri membri del gruppo; e che infine permettono di collegare il versante corporeo subsimbolico con quello simbolico (tramite immagini particolarmente evocative, espresse sia in forma extraverbale che verbale). Possono esperienze di questa natura essere introdotte anche nella formazione degli analisti?

L’aver potuto sviluppare esperienze di questo tipo mi permette, anche nel lavoro analitico nel setting duale,  di accentuare, in modo spontaneo e spesso non intenzionale, l’espressività corporea, quando sento che le parole non arrivano al paziente e che neppure ciò che passa per lo sguardo e l’espressione del viso è sufficiente.  Penso ad esempio ai colloqui preliminari con Anna, una paziente di cui ho già parlato nella prima parte di questo articolo, che nel rivolgersi a me si era posta  come una manager che cercava di valutare se era il caso di ‘assumermi’ oppure no, e che nulla sembrava smuovere da questa posizione, tanto da fami dubitare dell’opportunità di iniziare con lei un percorso analitico. Per capire meglio, durante il secondo ed ultimo colloquio preliminare mi sporsi dalla mia poltrona per prendere le sue mani tra le mie, lasciando che fossero i nostri corpi e i nostri occhi a parlare.  Attraverso quel breve contato corporeo si aprì un varco nelle sua dura corazza, sentii il suo affidarsi, e anche le mie riserve si sciolsero, e questo fu determinante nello stabilirsi del patto terapeutico. Di lì partì un cammino analitico che si è concluso felicemente  circa tre anni fa.  In un altro caso – si trattava di un giovane paziente che immancabilmente sosteneva il contrario di qualsiasi cosa io gli dicessi -  mi è accaduto, per interrompere quella sterile contrapposizione verbale, di iniziare una frase e poi lasciare che la parola passasse in secondo piano per comunicare con la gestualità.  L’affacciarsi di un lieve sorriso complice sul suo viso mi aiutò a comprendere che il linguaggio verbale (la lingua paterna) era per lui iscritto in un registro di lotta per il potere, mentre il portare in primo piano la comunicazione non verbale favoriva l’apertura di spazi di gioco.  Di solito si tratta di ‘movimenti’ spontanei e non intenzionali del terapeuta che nascono dall’intuito. Tuttavia è possibile, in seguito, dare loro un senso, capire come hanno influito sulla relazione, il che ci permette successivamente di adottare intenzionalmente quel determinato registro comunicativo di cui si è potuto constatare l’efficacia.  Quello che invece sfugge alla nostra intenzionalità (a questo dobbiamo rassegnarci) è il contenuto emotivo della comunicazione non verbale.

 

L'elaborazione di esperienze indicibili: elementi di riflessione, domande e vignette cliniche 

1. Sappiamo che la comunicazione orale non è mai fatta di sole parole ma è sempre intrecciata con comunicazioni che vanno oltre la parola, ed è perciò auspicabile che il training dell’analista permetta di limitare le dissonanze tra i due registri comunicativi.  Ma, essendo impossibile una sintonia perfetta tra i due registri, che fare quando ci rendiamo conto di una dissonanza? Quando mi rendo conto che questo accade, cerco di coglierne il senso, e di essere trasparente con il paziente. Così ad esempio, mentre cercavo di parlare in modo pacato ad un paziente,  è accaduto che l’improvviso e inaspettato insorgere di un disagio nella mia gola alterasse la mia voce buttando all’aria le mie intenzioni. Ho riconosciuto ed esplicitato che forse il mio corpo voleva dire che qualcosa “mi era andato di traverso” (in effetti il paziente aveva passato l’intera seduta a lamentarsi di come il mondo non lo comprendesse, impedendomi peraltro di dire qualsiasi cosa sul piano della comprensione e mitigazione del suo vissuto).  Può la nostra ‘trasparenza’, in casi questo tipo, favorire anche da parte del paziente una maggior focalizzazione sulle proprie emozioni e la possibilità anche da parte sua di connettere il mondo subsimbolico con quello simbolico, il corpo con la mente?  Penso che molto dipenda dal modo in cui sentiamo i disvelamenti che provengono dal nostro corpo: li sentiamo in modo amichevole o ne proviamo imbarazzo o vergogna? e la ricerca di senso avviene all’insegna di una autentica curiosità oppure nasce dal bisogno di recuperare il ‘controllo’ della situazione?

2. Qual è quel linguaggio particolare che può favorire l’elaborazione di esperienze indicibili? Partirei dalla considerazione (che a qualcuno potrà sembrare ovvia) che in un percorso analitico si possono usare con parsimonia le parole, ma non si può, e neppure è opportuno, eliminare la comunicazione verbale. Certo non si comunica solo verbalmente, ormai ci è chiaro. Così come sappiamo che  ancor più del contenuto delle parole conta il modo in cui vengono dette, e tutto il linguaggio corporeo che le accompagna. Tuttavia  la comunicazione verbale è imprescindibile in un percorso analitico: le parole sono necessarie pe dire a se stessi e per condividere con altri ciò che emerge dagli episodi della propria vita, per fare collegamenti  tra passato e presente,  per comunicare (a se stessi e agli altri) progetti riguardanti il futuro, e per molte altre ragioni ancora. C’è tuttavia  da chiedersi quale linguaggio può favorire, in una terapia analitica,  l’elaborazione delle esperienze indicibili. Mi riferisco ovviamente ad un’elaborazione intesa non come ‘traduzione in parole’ di ciò che ha a che fare con le emozioni e la corporeità, ma piuttosto come creazione  dei collegamenti perduti o mai nati tra sensazioni -emozioni embrionali e pensiero simbolico; tra memoria implicita, corporea e memoria autobiografica. Ho già segnalato che si tratta di co-creare di volta in volta, insieme con il paziente, uno specifico linguaggio, che permetta di mettere in forma le esperienze indicibili e dare loro senso.   Ma quali sono le caratteristiche di fondo di una comunicazione che favorisca il collegamento tra i processi subsimbolici e quelli simbolici?   Lascio la domanda aperta a ulteriori contributi, limitandomi qui a evidenziare l’importanza di un linguaggio incarnato, con radici nell’esperienza sensoriale, corporea, concreta, ed a portare qualche esempio tratto dalla mia esperienza clinica:

- con una paziente che aveva una lunga storia di depressione e di rapporti interrotti con diversi ‘curanti’, e che non tollerava alcun riferimento alla  sfera emozionale, ho scoperto l’efficacia di comunicazioni di tipo concreto, di analogie implicite.  Quando mi rendevo conto di una consonanza tra l’espressione cupa che la paziente aveva entrando e il colore del cielo (ben visibile, poiché il mio studio ha ampie vetrate): “oggi è proprio una giornata scura” dicevo; o, al contrario: “oggi è tornato il sole”.  Erano similitudini non dichiarate. Il registro comunicativo non era quello del  ‘come se’. Lasciavo che fosse la paziente, semmai, a fare un collegamento con il proprio stato d’animo, cosa che talvolta accadeva.

- con pazienti che hanno una maggiore capacità di accesso alla simbolizzazione è prezioso l’uso di un linguaggio metaforico. Mi viene in mente una paziente  che esprime per tutta la seduta una rabbia generalizzata e pervasiva.  Più ancora delle sue parole sono il tono aspro ed il ritmo incalzante della sua voce a colpirmi, facendomi sentire inaridita. Ad un certo punto nasce in me l’immagine di un drago che erutta  fuoco  e quando trovo uno spiraglio le dico “la capisco”… poi, in modo giocoso  “però mi raccomando non incenerisca il mondo …  sarebbe brutto anche per lei dopo…”  Questo le consente di riconoscere e iniziare a dare senso alla sua profonda e pervasiva rabbia.

Ovviamente questi esempi non vanno intesi come procedure da replicare in modo meccanico. La possibilità di aprire uno spiraglio in un muro difensivo, dipende anche dalla nostra possibilità di intuire la solitudine, o la paura, o l’angoscia tenuti a bada da schemi relazionali di questo tipo, di coinvolgerci senza essere totalmente coinvolti, mantenendo aperto in noi uno spazio di simbolizzazione e di gioco.  Si discute  molto, oggi, se sia opportuno rimanere sul piano del ‘come se’ oppure se sia necessario provare realmente le stesse emozioni che prova il paziente.  Come già scrissi a proposito dell’empatia, l’analista deve riuscire a vivere una dimensione ‘paradossale’: deve partecipare davvero emozionalmente alla relazione, ma allo stesso tempo far coesistere questo coinvolgimento con la capacità simbolica ‘come se’.


3. Comunicare verbalmente non è sinonimo di interpretare. Si può anche usare la parola in modo conversazionale, anche se si tratta di una conversazione particolare, che avviene nel contesto di una relazione terapeutica. Possiamo fare associazioni, esprimere comprensione, fare domande, comunicare ciò che risuona in noi ascoltando il paziente: una sensazione, un’immagine, la scena di un film, un’esperienza di cui siamo a conoscenza, un detto popolare, una canzone.  Le esperienze fatte nel campo delle arti terapie mi hanno resa più sensibile a ciò che sento nel corpo, ed hanno favorito la trasformazione di queste sensazioni in immagini. Mentre tutto questo avviene a livello implicito, intuitivo, più consapevole è la scelta del registro comunicativo.  Con ogni paziente si tratta di inventare insieme una lingua comune che permetta di creare nuove connessioni  tra il versante corporeo e quello simbolico:

Una paziente ha grosse difficoltà ad elaborare il lutto per la perdita del marito, avvenuta più di sei mesi fa. Il suo è un dolore che le artiglia il petto e che niente può alleviare, la vita senza di lui non vale la pena di essere vissuta,  è piena di rabbia verso il mondo tutto e va quasi tutti i giorni a piangere al cimitero. Di recente mi racconta che ha comprato per la sua tomba i fiori vivaci che a lui piacciono tanto.  Quando già sta uscendo chiedo: “e portare a casa un piccolo fiore per lei?” Mi risponde con ritrosia che le piacciono i “fiori scuri (una pausa) … e poco appariscenti”. “Le violette!” dico intenerita dall’affiorare di un desiderio – che sento come un ponte tra la morte e nuova vita – in quel mondo in cui i desideri sono vietati.  “Un mazzo di violette per lei…” aggiungo con sentimento. Quando ci salutiamo c’è un’emozione  nuova nell’aria, qualcosa fluisce più liberamente dentro di me e passa tra di noi attraverso la stretta di mano, il sorriso, lo sguardo del congedo.
 


Processi di elaborazione e fattori terapeutici nascosti nelle psicoterapie a mediazione artistica e nelle artiterapie

Nell’ambito delle terapie che utilizzano come medium espressivo e comunicativo le arti visive, la danza e il  movimento, la musica, il teatro, ecc. i processi di elaborazione assumono caratteristiche specifiche, che cercherò di delineare, sia pure molto sinteticamente.  Segnalerò anche quello che io ritengo un punto critico, riguardante il rapporto tra le potenzialità delle arti-terapie e lo statuto che esse vanno assumendo nel nostro paese. Premetto che il mondo delle psicoterapie a mediazione artistica e delle arti-terapie è molto variegato.  Alcuni importanti criteri differenziali riguardano: l’approccio direttivo/non direttivo; il porre l’accento sul prodotto artistico ovvero sulla relazione (mediata dall’espressione nelle forme dell’arte), la presenza o meno di un setting definito;  l’indicare un tema o il lasciare libertà espressiva entro i soli limiti e confini del setting; il rapporto tra l’espressione attraverso le forme delle arti  e la comunicazione verbale.  Ciò che  dirò in questo ambito si riferisce  a quelle esperienze che avvengono in un contesto non direttivo, centrato sulla relazione, con un setting definito, in cui non viene solitamente assegnato un tema ma si lascia ampia libertà espressiva e, nel corso di ogni incontro,  gli spazi di espressione extraverbale si alternano a spazi di comunicazione verbale (anche se ai primi è dedicato solitamente un tempo maggiore). L’esperienza cui attingo si è sviluppata in diversi contesti: terapeutici, di supervisione, di conduzione di gruppi esperienziali di durata annuale nell’ambito della formazione di arte-terapeuti e psicoterapeuti.  Mi limiterò qui a considerazioni di carattere generale, che prescindono dal medium espressivo utilizzato e dal tipo di setting (individuale o di gruppo):

1. Una prima considerazione è che il tratto distintivo delle arti-terapie non sta solamente né prevalentemente nel tipo di linguaggio prescelto, dal momento che anche nelle arti-terapie c’è una componente (più o meno accentuata, a seconda del tipo di percorso e delle caratteristiche dei pazienti) di comunicazione verbale. Ciò che differenzia dalle forme classiche di psicoterapia il mondo delle arti-terapie, come pure dello psicodramma, è il fatto che queste metodiche si caratterizzano per il ricorso al ‘fare’ espressivo-creativo.  Si può dire che viene rovesciato il rapporto tra vissuto ed azione: mentre la psicoanalisi ha sempre escluso l’azione per concentrarsi sull’elaborazione e trasformazione dei vissuti, ritenendo che questo potrà avere come ricaduta, fuori dal setting analitico, anche una modifica dei comportamenti e delle azioni, nelle artiterapie, al contrario, attraverso il ‘fare’ espressivo  si esperiscono, ad un livello che è contemporaneamente motorio, percettivo ed emotivo, vissuti e relazioni, che diventano contenuti interiorizzati, anche se ad un livello inconscio. Anche azioni molto semplici, come ad esempio il riporre con cura, al termine di una seduta, un disegno per conservarlo, attivano processi che vanno ben al di là dell’intenzionalità cosciente e che, nel caso citato, hanno a che fare con il conservare dentro di sé l’esperienza creativa.

2. Quando si toglie la parola, per fare spazio ad altre forme espressive e comunicative che coinvolgono fortemente il versante corporeo, si favorisce l’elaborazione subsimbolica, che, come esposto nella prima parte di questo articolo, comporta l’elaborazione contemporanea e rapidissima, di tipo intuitivo ed inconsapevole, di una notevole mole di informazioni provenienti sia dall’interno del corpo che dall’esterno e da diversi canali sensoriali. Questo consente  non solo di prendere al volo una palla o di sintonizzarsi con il partner o con un gruppo in una danza, ma anche di comprendere intuitivamente ciò che prova chi è vicino a noi ed infine di risuonare empaticamente con gli altri.  E’ un livello di conoscenza-azione  che non è semplicemente corporeo ma che è nel corpo e nella mente insieme.  La modalità subsimbolica è importantissima per permettere di sperimentare quelle esperienze di risonanza empatica che sono state carenti nelle relazioni primarie.
Qui nasce a mio avviso un interrogativo di non poco conto. Le arti-terapie si sono strutturate prevalentemente in forme distinte e parallele, corrispondenti a ciascuna delle arti che conosciamo: la musica, la danza, le arti visive e plastiche, il teatro. Anche le organizzazioni professionali presenti in questo campo mirano al riconoscimento di figure specifiche per ognuna delle varie forme artistiche. Tuttavia, c’è da chiedersi che ripercussione avrebbe l’assunzione definitiva di questa visione sulla possibilità di sviluppare pienamente, nei percorsi di arte-terapia, i processi di integrazione sensoriale e di elaborazione subsimbolica.
Come si può favorire la ‘sintonizzazione transmodale’  che sappiamo avere grande importanza nella formazione del senso di Sé, se si rimane ancorati ad un’unica forma espressiva, senza concepire la possibilità di accompagnare il ritmo del corpo con l’improvvisazione sonora o di trasformare un movimento di danza in impronta o segno (e viceversa)? Sappiamo del resto che le prime forme di espressione artistica erano di tipo globale, e che anche oggi in certe tribù – dove non si è ancora verificato il livellamento culturale imposto dalla cultura occidentale – musica, danza e pittura dei corpi sono strettamente connesse, ed è proprio questa connessione che rende queste pratiche espressive ‘terapeutiche’, oltre che fonte di coesione sociale. Nella mia esperienza si è rivelato fecondo  evitare steccati rigidi tra diverse forme espressive e creative, sia per le ragioni accennate ora, sia perché ogni modalità espressiva favorisce in modo particolare determinati processi. Come ho esposto più diffusamente in un mio lavoro pubblicato nel 2001, è importante non rimanere rigidamente ancorati, per tutta la durata di un gruppo o di un percorso terapeutico duale, ad un’unica mdalità, ma potersi chiedere “quale forma espressiva (danza e movimento, espressione grafica, espressione sonora, drammatizzazione, ecc.) può favorire in questa fase il processo terapeutico?”

3. Le arti-terapie facilitano la messa in forma, e quindi la rappresentabilità,  dei contenuti  ‘indicibili’, ovvero, detto in altri termini, il passaggio dalla sfera non verbale sub-simbolica e quella simbolica  non verbale.  La creazione di immagini visive, o rappresentazioni sonore, motorie, tattili, crea quel ponte mancante – o crollato a causa di ripetute esperienze inadeguate o traumatiche – tra le esperienze indicibili,  depositate in modo parziale e frammentario nella memoria implicita, e il mondo della parola. L’espressione attraverso le forme dell’arte consente di entrare in contatto con le proprie esperienze ed emozioni senza sentirsi troppo esposti, perché la forma estetica trasforma anche un terrore indicibile o un vissuto cupo, rabbioso o intriso di violenza in un atto creativo.    Spesso è proprio questa particolare messa in forma di sensazioni, emozioni, esperienze indicibili, e l’accoglienza che esse trovano nel gruppo o nel terapeuta, ad aprire la strada alla possibilità di ricordare e di comunicare verbalmente, collegando  il pensiero corporeo inconscio con quello verbale. 

4. Gli spazi di comunicazione verbale, in cui viene nuovamente dato spazio alla parola astenendosi dall’azione (e a volte sono lunghi silenzi prima che nascano parole), permettono di soffermarsi sulle esperienze appena vissute (e nel caso dell’espressione iconica, di ri-guardare insieme ad altri quanto si è espresso attraverso il segno e il colore), di lasciarle sedimentare, di scoprire aspetti di cui non si era consapevoli, riconoscendo punti di contatto e differenze , e  soprattutto di rendere tutte queste esperienze  ‘contenibili’.  In attività di questo genere, infatti, emerge spesso molto più in fretta che nelle terapie tradizionali materiale a forte contento emotivo. Proprio per questo poterne parlare insieme, dopo,  è importante per poterlo metabolizzare (tenendo presente che anche negli spazi  ‘di parola’ giocano un ruolo importante  la comunicazione non verbale ed i fattori terapeutici nascosti).  Anche le artiterapie e psicoterapie a mediazione artistica possono , oltre ad essere esperienze formative e trasformative del senso di Sé attraverso le azioni-relazioni che si sperimentano nel presente, produrre  insight . La possibilità che questo avvenga  dipende, ovviamente, da diverse variabili, come la durata del percorso, il dispositivo che viene adottato, la formazione del terapeuta o conduttore di gruppo, le caratteristiche dei pazienti o, nel caso dei gruppi esperienziali, dei  formandi. Non è questa la sede per soffermarmi  sulle significative differenze tra le funzioni del terapeuta ed i processi che si sviluppano in un setting di gruppo rispetto ad un setting individuale.  In ogni caso fondamentale è lo stabilirsi di un clima accogliente, risonante, ludico e l’invenzione di un linguaggio comune condiviso e fortemente ‘incarnato’,  che non faccia sentire le parole come  ‘traduzione in una lingua straniera’ di ciò che è emerso dai territori oltre la parola.


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