Psicoterapia gruppoanalitica del trauma (2° parte)

di Werner Knauss

La prima parte di questo articolo, ricevuto da Werner Knauss, è stata tradotta in italiano e pubblicata su questo sito il 28 giugno 2014. Facciamo ora seguire la seconda parte dello stesso articolo. 

La traduzione del testo è di Giovanna Bosco

 

 

Passerò ora ad un esempio clinico per illustrare come le vittime ed i responsabili di abusi sessuali possono elaborare in un gruppo misto il loro traumi derivanti dall’aver abusato sessualmente o dall’aver subito abusi.

 

6. Le vicissitudini dei processi di identificazione nella Psicoterapia Gruppoanalitica con un gruppo misto in cui sono co-presenti responsabili e vittime di abusi sessuali

La mia esperienza clinica e la Foulkes Lecture tenuta da Estela Welldon su come adeguare il trattamento al crimine (1997) mi hanno incoraggiato a intraprendere un processo inusuale. Decisi di creare, nell’ambito della mia attività professionale privata, un gruppo misto ad orientamento gruppoanalitico, che si incontrava due volte alla settimana ed era formato da nove pazienti, inclusi due responsabili e due vittime di abusi sessuali. Vi invito a seguire questi quattro pazienti ed i loro processi di identificazione – su cui mi concentrerò in questo lavoro – attraverso un percorso di psicoterapia gruppoanalitica che è durato in media due anni e mezzo.

Prima di correre il rischio di includere sia vittime che abusanti nello stesso gruppo ho preso in esame la letteratura significativa su questo argomento. La maggior parte di essa si riferiva a gruppi omogenei di vittime di abusi sessuali. Ho trovato solo due colleghi, Estela Welldon (1997) e Mathias Hirsch (2004), che riportavano processi molto promettenti realizzati in gruppi formati sia da vittime che da abusanti.

L’esperienza clinica che avevo potuto sviluppare supervisionando un’équipe che lavorava in una struttura psichiatrica forense con pazienti interni, ed inoltre facendo la supervisione ad un collega che conduceva, con una seduta settimanale, un gruppo omogeneo di pazienti esterni che erano tutti responsabili di abusi sessuali, aveva confermato il punto di vista dei miei due colleghi che i gruppi omogenei di abusanti o di vittime favoriscono meccanismi di difesa omogenei che ne limitano i risultati. Earl Hopper riferiva esperienze analoghe in un suo lavoro clinico riguardante un gruppo di sopravvissuti alla Shoah (Earl Hopper, Traumatic experiences in the unconscious life of groups).

Avevo iniziato la supervisione dell’équipe psichiatrica forense dopo un tragico incidente: uno dei pazienti aveva ucciso una donna che faceva parte dello staff in una foresta vicina, dopo che questa aveva rifiutato le sue avances sessuali. A quei tempi la struttura psichiatrica era organizzata secondo i principi della psicoterapia ad orientamento analitico individuale, ma offriva anche dei gruppi addizionali come musicoterapia, arteterapia, ecc.

Rischiai di essere licenziato come supervisore quando toccai il tema tabù delle relazioni sessuali tra due membri dello staff. Ciò che mi consentì di sopravvivere nel mio compito fu la mia interpretazione di quel tabù. Sostenni inoltre il sottogruppo che, all’interno dell’équipe, desiderava introdurre la psicoterapia di gruppo quale nuova modalità di trattamento. Sentivo che il rischio che ci fosse una ricaduta di un paziente e che un simile incidente potesse ripetersi poteva essere molto più facilmente controllato in un setting di gruppo poiché i pazienti potevano identificarsi molto più chiaramente con la persona che rischiava di incorrere in un agito.

Questa strategia si dimostrò vincente. Dopo l’introduzione della psicoterapia di gruppo con due sessioni settimanali in piccolo gruppo non ci furono più altri incidenti o ricadute dei pazienti e si ridusse anche la durata del trattamento necessario per evitare future ricadute.

Ciò che mi indusse a sviluppare questa strategia fu un’esperienza precedente: in un gruppo omogeneo di pazienti non istituzionalizzati che erano responsabili di abusi sessuali, per il quale svolgevo la supervisione, il conduttore Henner Will (2001) aveva osservato quanto segue:

• I membri del gruppo si descrivevano come vittime di una società ingiusta, il che poté lentamente essere compreso come una difesa contro l’empatia verso le loro reali vittime.

• Il modo in cui essi descrivevano i loro bisogni lasciavano intravedere i loro deficit interpersonali e i traumi primari risalenti alla loro prima infanzia.

• A livello transferale il conduttore del gruppo era percepito come una figura paterna molto rigida che avrebbe dovuto dire loro cosa fare e cosa non fare.

I programmi cognitivo-comportamentali per la riabilitazione dei responsabili di abusi sessuali, che Will conosceva e che aveva usato in passato, non sviluppavano a sufficienza la capacità dei pazienti di assumersi la responsabilità delle loro azioni e la loro capacità di entrare in empatia con le loro vittime. Questi programmi incoraggiavano invece forme di comportamento basate sul controllo, sulla sottomissione e sull’adattamento – una pseudo conformità. Will dovette portare nel gruppo una terapista, che lavorava con pazienti che erano state vittime di abusi, la quale raccontò dei loro traumi al fine di sostenere lo sviluppo dell’empatia con le vittime.

Tutte queste scoperte confermano l’esperienza clinica di Estela Welldon (1997) e Mathias Hirsch (2004), i quali riferiscono che i gruppi misti di abusanti e di vittime consentivano un processo di identificazioni incrociate tra vittime e autori degli abusi. Tornerò in seguito su questo punto.

Ora tuttavia vorrei presentarvi questi quattro pazienti che presero parte, per un periodo tra i due e i tre anni, al mio gruppo di psicoterapia gruppoanalitica a due sedute settimanali: si trattava di due uomini autori di abusi e di due donne che erano state vittime di abusi sessuali.

La mia avversione al contro-transfert dei due abusanti era rafforzata dal fatto che a quel tempo mia figlia aveva la stessa età delle ragazze di cui essi avevano abusato sessualmente. Entrambi i maschi che avevano commesso abusi sessuali mi erano stati inviati a seguito di una sentenza del tribunale. Questa aveva stabilito che essi avrebbero dovuto sottoporsi ad una psicoterapia durante i tre anni di affidamento in prova. Allo scopo di chiarire i confini del setting e di favorire la fiducia all’interno del gruppo, durante i colloqui individuali dissi a coloro che avevano commesso abusi sessuali che, una volta che l’alleanza terapeutica si fosse sviluppata, avrei discusso le mie relazioni nel gruppo prima di trasmetterle a chiunque al di fuori di esso. In questo modo la loro reale dipendenza sarebbe diventata trasparente attraverso la comunicazione di gruppo.

Benché le due vittime mi avessero detto durante i colloqui individuali di aver subito abusi sessuali da parte di vicini di casa durante la loro infanzia, esse portarono i loro traumi nel gruppo solo dopo che i membri del gruppo che avevano commesso abusi ebbero rivelato le loro storie. In questo testo descriverò i processi di mutua identificazione che hanno sostenuto l’elaborazione dei traumi sia da parte delle vittime che degli abusanti.

Solo quando questi pazienti poterono identificarsi con la cultura gruppoanalitica e pertanto avere fiducia nel gruppo essi poterono aprirsi e riportare nel gruppo le loro esperienze in quanto vittime e in quanto responsabili degli abusi. Un processo di identificazione incrociata con i traumi della loro infanzia e con quelli degli altri gettò le basi per lo sviluppo dell’empatia.

Molto lentamente i colpevoli arrivarono a identificarsi con i traumi sperimentati dalle vittime. Essi poterono rendersi conto del danno che avevano causato alla vita delle loro vittime e comprendere come le loro vittime si erano sentite mentre venivano traumatizzate. La loro paura di soffrire e la percezione cosciente dei loro stessi traumi infantili mise in moto un processo di sviluppo dell’Io che aprì la strada a vissuti di colpa e alla differenziazione tra soggetto e oggetto.

Le vittime poterono lentamente identificarsi con la loro stessa aggressività nei confronti degli abusanti, il che permise loro di percepire coscientemente la loro ansia rispetto all’essere attive. L’identificazione inconscia, masochistica con l’aggressore da parte delle vittime – una ragione dei vissuti di colpa da parte di queste ultime – e la difesa nei confronti della sofferenza da parte degli autori di violenze sessuali – una delle ragioni che portano a diventare violentatori – poterono essere oggetto di un rispecchiamento reciproco.

La scelta del gruppo misto era in linea con la legge fondamentale della psicoterapia gruppoanalitica: i pazienti si sostengono l’un l’altro nel processo di guarigione per il fatto di essere diversi l’uno dall’altro, il che consente di imparare a tollerare i diversi punti di vista sullo stesso evento che viene riferito e di identificarsi con i punti di vista degli altri.

Focalizziamo ora l’attenzione su questi quattro membri del gruppo

Ilona, un’assistente sociale di 40 anni, arrivò al gruppo dopo otto settimane di psicoterapia effettuata mentre era ricoverata per una depressione intervenuta a seguito del suo divorzio. Le sue due figlie, di 18 e 20 anni, stavano per andarsene di casa, e la sua nuova partner, una donna della sua stessa età, l’aveva lasciata. Ilona si sentiva priva di forze e stava per abbandonare il lavoro. Viveva ancora nella casa di famiglia, dove la madre occupava il primo piano. Ilona sperava che la psicoterapia di gruppo l’aiutasse a stare meglio, dal momento che l’aveva aiutata molto durante il ricovero.

Ilona entrò così nel mio gruppo di pazienti esterni, che si incontrava due volte alla settimana, e quando il primo autore di abusi sessuali riferì, nella seconda sessione di gruppo, che egli aveva costretto con la forza una ragazzina di 12 anni ad entrare nella sua automobile, divenne estremamente tesa. Inizialmente ammutolì, ma subito dopo gridò: “Uno di noi due deve lasciare immediatamente questo gruppo”. Io assunsi una posizione molto attiva, e commentai che probabilmente non era furiosa solamente nei confronti del nuovo membro del gruppo, ma anche verso di me, che la costringevo a confrontarsi con tali attività criminali.

Ilona lentamente si calmò e, nella sessione seguente, riferì che un vicino di casa le aveva chiesto di soddisfarlo sessualmente, cosa che lei si era rifiutata di fare. Egli aveva poi minacciato di ucciderla se avesse parlato con chicchessia dell’accaduto. Nonostante la minaccia, lei ne aveva parlato con la madre e il vicino era stato processato e condannato al carcere. Ilona si era sentita terribilmente colpevole, ed era stata incapace, fino a quel momento, di comprendere quella sensazione. Disse che nel corso della sua vita ogni attività sessuale era contaminata dall’immagine dell’abuso sessuale, e nel gruppo reagiva come se il suo aggressore fosse seduto davanti a lei: una modalità di funzionamento equivalente (P. Fonagy e altri, 2002).

Mary, una donna di 54 anni, era entrata nel gruppo dopo tre mesi di psicoterapia effettuata all’interno di una struttura residenziale, di cui ebbe bisogno a seguito del suicidio del suo ex marito. Il suo sintomo principale consisteva nel non provare nulla. Era al suo secondo matrimonio e le due figlie avute dal primo matrimonio, attualmente di 20 e 23 anni, erano andate via di casa. Mary era sconvolta dal fatto di non riuscire a provare nulla nei confronti della sua prima nipotina quando si occupava di lei. Nel corso delle relazioni sessuali non provava assolutamente nulla.

Il primo vissuto che Mary riportò nel gruppo fu di disgusto verso sua madre, una testimone di Geova, che le telefonava spesso, chiedendole aiuto. La madre di Mary non chiedeva mai a sua figlia come lei si sentisse. Mary era incapace di dirle di stare fuori dalla sua vita. Quando il secondo autore di abusi sessuali raccontò la sua azione criminale Mary dovette afferrarsi alla seggiola con entrambe le mani per evitare di saltargli agli occhi. In una delle sessioni seguenti riferì con disgusto che un vicino di casa aveva abusato di lei quando aveva otto anni. Gli abusi erano continuati fino al suo decimo compleanno perché lei era curiosa e anche perché subito dopo riceveva dei regali. Veniva costretta a manipolarlo sessualmente e anche a guardare mentre egli si masturbava. Mary non aveva osato parlare a nessuno dell’accaduto, perché si sentiva colpevole e piena di vergogna. Gli abusi cessarono solo quando lei, la madre ed il fratello cambiarono casa.

Fino ad ora Mary non aveva mai parlato a nessuno di questa esperienza. Essa raccontò che nel suo lavoro, per altro di successo, si sentiva incapace di sviluppare dei confini chiari nei confronti dei colleghi, dai quali si sentiva sfruttata. Era anche incapace di mettere dei limiti alle richieste del suo capo.

Peter, un dipendente pubblico di 50 anni, era stato inviato al gruppo da un servizio diurno di una clinica universitaria che si occupava di malattie psicosomatiche. Quel percorso si era interrotto quando aveva minacciato di suicidarsi poiché la sua figlia diciassettenne aveva appreso delle sue azioni criminali dagli atti del tribunale. Peter era stato condannato a tre anni di carcere, e la condanna era stata sospesa a condizione che intraprendesse una psicoterapia. In più occasioni aveva molestato delle bambine di 8 anni nelle piscine, ed era stato denunciato alla polizia da un addetto alla piscina dal quale le bambine erano corse a rifugiarsi dopo essere state molestate da lui.

Peter pianse amaramente nel raccontare al gruppo quest’azione criminale, cercando sostegno ed empatia. Al contrario, si trovò invece ad essere oggetto di una grande aggressività ed ostilità, soprattutto da parte delle due vittime. Solo due membri del gruppo erano sinceramente interessati a capire perché aveva deciso di suicidarsi e perché aveva toccato le bambine. Tutttavia Peter non fu in grado di dire nulla delle sue motivazioni.

Solamente durante il percorso della terapia Peter ricordò una vicenda amorosa, sperimentata quando aveva otto anni. Era accaduto con una bambina della sua stessa età, l’unica persona in cui egli aveva avuto fiducia in tutta la sua vita. Peter era cresciuto con la nonna, che l’aveva preso in adozione dall’istituto per l’assistenza all’infanzia in cui si trovava. I suoi genitori avevano cercato di ucciderlo quando aveva due anni, insieme con il suo fratellino più piccolo, costringendoli a stare all’aperto sul balcone durante l’inverno. Erano stati salvati dai vicini e portati in un istituto, e successivamente affidati alla nonna. Entrambi i nonni si occupavano dei bambini, ma erano molto severi e ostili. Li punivano entrambi picchiandoli quando rifiutavano di seguire le loro istruzioni.

Paul, uno specialista in computer di 35 anni, entrò nel gruppo dopo essere stato condannato a tre anni di carcere, sospesi a condizione che intraprendesse una psicoterapia. Al ritorno da una visita ai suoi genitori egli aveva progettato di obbligare una scolara di 12 anni ad entrare nella sua auto. Mentre percorreva l’autostrada si era diretto verso la città più vicina, aveva aspettato davanti ad una scuola e afferrato con violenza una dodicenne di passaggio. Quando lei, nell’auto, aveva iniziato a piangere, le aveva chiesto dove abitava e l’aveva portata a casa. Un altro automobilista aveva denunciato Paul alla polizia, che l’aveva fermato mentre tornava verso l’autostrada.

Durante i colloqui individuali Paul aveva riferito che egli aveva fantasie sulle dodicenni mentre si masturbava. Il tribunale aveva pertanto ritenuto che egli avesse progettato di abusare sessualmente della ragazza. Paul raccontò il suo atto criminale al gruppo con vergogna, senso di colpa ed un rincrescimento superficiale. Il gruppo, e soprattutto le due vittime che ne facevano parte, reagirono con una forte aggressività. Non credevano che il suo dispiacere fosse genuino, si concentravano sulla sua azione violenta, e lo rimproveravano per il modo in cui aveva danneggiato la vita della ragazza.

Paul era stato allevato con una sorella più giovane in una famiglia improntata alla severità. Non c’erano stati traumi evidenti nella loro infanzia, ma egli aveva la sensazione che sua madre non l’avesse mai visto come una persona reale. Come egli disse, l’aveva trattato come una parte di se stessa. Tutte le sue relazioni naufragavano dopo alcuni mesi. Si sentiva privo di speranza, isolato, e aveva perso tutti gli amici dopo la condanna del tribunale.

Quanto entrambi i responsabili di abusi sessuali riferirono al gruppo le loro azioni criminali, l’intero processo di gruppo fu a rischio. Le due vittime reagirono in modo molto simile, comportandosi come se i violentatori che in passato avevano abusato di loro fossero seduti lì, nel gruppo. Pertanto, il primo processo di identificazione consistette nell’identificazione con la cultura gruppoanalitica della tolleranza lavorando sulle differenze, anziché negare le differenze di comprensione, attraverso una comunicazione non giudicante. Lentamente il gruppo imparò a differenziare la modalità del “come se” dalla “modalità equivalente” di funzionamento della mente, un processo che si sviluppa parallelamente alla differenziazione soggetto-oggetto (cf. Fonagy e al., 2002). In questo primo confronto tra vittime e abusanti entrambi funzionavano secondo la “modalità equivalente”: i responsabili degli abusi si scusavano per le loro azioni come se le vittime fossero state le loro reali vittime. Queste ultime erano pronte a saltare agli occhi degli autori di abusi sessuali come se esse fossero stare realmente le loro vittime. Sostenuti dal contenimento, dal rispecchiamento e dalla risonanza dell’intero gruppo, entrambi, vittime e autori degli abusi, impararono a differenziare, funzionando nella modalità “come se”, che favorisce la differenziazione tra soggetto e oggetto. Prima, secondo la modalità del funzionamento equivalente, i responsabili degli abusi percepivano il loro mondo come un mondo di vittime verso le quali essi dovevano scusarsi, e le vittime percepivano il loro mondo come un mondo di violentatori rispetto ai quali esse dovevano restare silenziose e passive.

Andando oltre le storie dei singoli casi e le reazioni iniziali, vorrei ora discutere l’elaborazione del trauma in una psicoterapia gruppoanalitica attraverso i processi di identificazione incrociata. Passerò successivamente a discutere i risultati per i pazienti e in relazione all’idea di trattare vittime e responsabili degli abusi in un gruppo misto.

 

L’elaborazione del trauma nella psicoterapia gruppoanalitica

Al fine di contenere i traumi sia dei responsabili di abusi che delle vittime in un gruppo misto, è essenziale che entrambi siano in grado di identificarsi con la cultura gruppoanalitica: questo include la fiducia nella diversità e una comunicazione liberamente fluttuante e non giudicante all’interno del gruppo e la definizione di confini precisi nei confronti dell’esterno.

Questo permise al gruppo di funzionare come un ambiente che forniva ‘holding’ e contenimento, specialmente durante la prima fase in cui l’intero processo di gruppo era a rischio. In questa fase dovetti diventare molto attivo, trasferendo l’aggressività distruttiva su di me, responsabile, in quanto conduttore, del contesto che aveva portato vittime e autori di abusi a fronteggiarsi aspramente nello stesso gruppo. Dovetti anche mantenere un saldo ancoraggio alla cultura gruppoanalitica, ricordando varie volte al gruppo l’alleanza terapeutica che si era stabilita durante i colloqui individuali. Grazie alla mia posizione attiva e con l’aiuto degli altri membri del gruppo, entrambe le parti poterono lentamente identificarsi con un’attitudine improntata alla curiosità, cercando di ‘comprendere’ e cessando di chiedere vendetta o sottomissione.

Il processo di differenziazione ed una corrispondente modalità di funzionamento della mente potevano ora svilupparsi. I membri del gruppo che avevano commesso abusi sessuali, che erano stati in precedenza confusi dalle vittime con coloro da cui avevano subito violenza in passato, venivano ora percepiti secondo una modalità di funzionamento “come se”, che consentiva di distinguere tra gli uni e gli altri. Grazie all’aiuto dell’intero gruppo, questo permise loro di metabolizzare gli affetti primari, di mentalizzare le esperienze traumatiche e di simbolizzare gli affetti contradditori. In un processo di identificazioni incrociate le vittime poterono identificarsi con i responsabili di abusi e, in tal modo, comprendere i propri vissuti di colpa, diventando coscienti della loro stessa aggressività distruttiva nei confronti di chi aveva abusato di loro. Diventarono così capaci di verbalizzare tale aggressività. L’identificazione masochistica con l’aggressore, che portava a sentimenti di colpa rispetto a qualsiasi forma di attività, poté essere elaborata e compresa come difesa nei confronti della propria feroce aggressività, fino ad allora negata.

Questo permise alle vittime di diventare più apertamente aggressive nelle comunicazioni di gruppo e di stabilire dei confini più chiari nei confronti degli amici e colleghi. Non era più possibile sfruttarle facilmente e abusare di loro nella vita di tutti i giorni, specialmente nelle situazioni di lavoro. Poterono verbalizzare la loro profonda delusione nei confronti delle loro madri, da cui non si erano mai sentite amate, così come il loro profondo desiderio di figure parentali premurose e amorevoli, un desiderio che le aveva rese così disponibili e vulnerabili nei confronti di chi aveva abusato di loro.

Attraverso l’identificazione con le vittime i responsabili di abusi poterono poco alla volta sviluppare empatia nei confronti delle loro reali vittime, rendendosi conto di ciò che avevano fatto loro e di come avevano danneggiato le loro vite. Entrambi gli abusanti poterono piangere per i loro crimini con sincero dolore. Poterono inoltre individuare i traumi della loro infanzia, in cui essi avevano avuto la parte delle vittime. Peter era stato minacciato di morte dai suoi genitori e Paul aveva subito abusi da parte dei suoi genitori, che lo consideravano una “parte mancante” e non lo vedevano e rispettavano come persona separata con propri diritti.

Questi processi di identificazione incrociate furono possibili solo in quanto il gruppo funzionò come contenitore sicuro in cui l’ansia intollerabile e l’aggressività poterono essere metabolizzate e simbolizzate. I membri del gruppo poterono identificarsi con il gruppo quale oggetto capace di contenere l’ansia e di metabolizzarla. Essi poterono comprendere e differenziare i propri stati mentali e quelli degli altri. Questo permise sia alle vittime che agli abusanti di prendere coscienza dei loro autentici vissuti provati, sia nell’infanzia che all’interno del gruppo, e di far fronte alla propria forte ansia e ostilità.

Un responsabile di abusi sessuali fece un agito nel gruppo seducendo una donna che faceva anch’essa parte del gruppo, la quale abbandonò il gruppo formando una coppia insieme a lui. A livello controtransferale ero furibondo per questo agito. E’ stato difficile metabolizzare ed affrontare la mia aggressività controtransferale. La loro relazione si interruppe dopo pochi mesi e fu per molte volte oggetto di discussione all’interno del gruppo. Poco alla volta potemmo tutti comprendere i sentimenti di disperazione ed impotenza che questo soggetto responsabile di abusi aveva ‘agito’ escludendo un altro paziente dal gruppo.

Quali furono gli esiti per questi quattro pazienti?

Le due vittime ebbero la possibilità di entrare in contatto con la loro aggressività e poterono comprendere i loro vissuti di colpa come un’identificazione masochistica con l’aggressore. Divennero consapevoli delle loro deludenti relazioni e del loro odio verso i loro oggetti primari. Esse fecero un duro lavoro nel gruppo e riuscirono a diventare nuovamente attive al di fuori di esso, stabilirono dei confini più chiari, approfondirono la relazione con i loro partner e svilupparono una relazione più soddisfacente con i loro genitori.

Quando il padre di Mary morì ella poté piangerne la perdita e condividere il suo sincero dolore con il gruppo. Il suo falso Sé, che non provava nulla e che era identificato con una madre incapace di empatia, poté essere rimpiazzato da un vero Sé, che era in grado di distinguere tra lei e gli altri e tra differenti vissuti e fantasie dentro di sé. La sessualità non era più solo un peso, ma qualche volta anche un piacere.

Ilona fece del suo lavoro un trampolino di lancio e fece carriera diventando un capo. I suoi rapporti con sua madre e le sue figlie si rivitalizzarono, ma ella non osò più imbarcarsi in nuove relazioni sentimentali.

Peter riuscì a ristabilire un rapporto con la moglie e la figlia e a superare la depressione. Si sentiva sicuro che non avrebbe mai più avuto bisogno di toccare una bambina perché aveva perso interesse nelle ragazzine di otto anni. Cercò invece di rendere più soddisfacente il rapporto con sua moglie.

Dopo la rottura della sua relazione con la paziente, Paul non fu più in grado di stabilire nuovi rapporti sentimentali. Egli salì nella gerarchia lavorativa, ma si sentiva insoddisfatto dei suoi compiti, che consistevano nel lavorare tutto il giorno con i computer. Non era in grado di descrivere davvero cos’era successo quando aveva ‘agito’ il suo piano di portare una dodicenne sotto il proprio controllo. Egli poté elaborare la sua relazione con la madre e la sua delusione e il desiderio di un padre più forte che avrebbe potuto proteggerlo dalla perdurante relazione simbiotica con la madre. Paul poté identificarsi e empatizzare con le vittime e riuscì a comprendere quale danno aveva fatto alla vita di questa ragazzina. Egli era pertanto sicuro che non avrebbe ripetuto il suo crimine, ma non riuscì a superare davvero la profonda identificazione con la madre che lo vedeva come parte di Sé.

 

Conclusioni

Io ritengo che tutti i resoconti sui gruppi costituiti sia da vittime che da responsabili di abusi, così come la mia personale esperienza, dimostrino che il processo di identificazioni incrociate tra vittime e responsabili di abusi possano essere sviluppati solamente in gruppi in cui coesistano entrambi. Questo processo di identificazioni incrociate è sostenuto dal rispecchiamento, dalla risonanza, dalla ‘holding’ e dal contenimento all’interno del gruppo. Si possono distinguere i seguenti processi di identificazione:

1. Identificazione con l’attitudine gruppoanalitica a comunicare liberamente, ad essere non giudicanti, tolleranti, curiosi rispetto alla diversità, desiderosi di comprendere, empatici (assumendo il punto di vista degli altri) nel giocare con differenti opinioni e convinzioni.

2. Identificazioni incrociate tra vittime e responsabili degli abusi.

3. Identificazione con la modalità ‘come se’ di relazionarsi, di percepire e di funzionare, e pertanto differenziazione dalla modalità di funzionamento ‘equivalente’.

4. Identificazione con se stessi come vittime o responsabili di abusi

5. Identificazione di tipo diretto con l’aggressore: essere stati vittime nell’infanzia ed essere diventati in seguito aggressori.

6. Identificazione masochistica con l’aggressore: sottomissione, passività, vissuti di colpa, sentirsi una vittima in tutte le situazioni della vita quotidiana.

7. Identificazione con una madre incapace di empatia, con conseguente impossibilità di sentire alcunché.

2 commenti a Psicoterapia gruppoanalitica del trauma (2° parte)

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    Rosaria Alberico scrive:

    Ho letto con molto interesse l'articolo. Capisco e condivido la scelta del professor Knauss di includere nello stesso gruppo vittime e abusanti. Mi piacerebbe conoscere di più il cammino che ha portato alla nascita del gruppo. Mi riferisco soprattutto all'accenno che Knauss fa ai colloqui individuali in cui si è creata l'alleanza terapeutica a cui lui si è appellato per aiutare una delle vittime a non abbandonare il gruppo. Quanti colloqui? Questa è solo una delle domande che mi sto ponendo…

     

    • Giovanna Bosco
      Giovanna Bosco scrive:

      Cara Rosaria, poichè il tuo commento contiene una domanda all'autore, aspetterei per vedere se arrivano anche da altri lettori Commenti o domande, in modo da tradurli e inviarli insieme a Werner Knauss, affinchè possa rispondere. E poichè tu stessa scrivi che, nel leggere l'articolo, ti sei posta anche altre domande, perchè non condividere anche gli altri tuoi interrogativi?

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