Workshop “per restare umani”: introduzione, discussione, conclusioni
Premessa
Giovanna Bosco
La mia relazione è stata suddivisa in due parti, per introdurre le due fasi del workshop in cui si è sviluppata la discussione di gruppo. La proposta di incontrarsi per "mettere in comune emozioni e pensieri per restare umani", era rivolta sia a colleghi psicoterapeuti e operatori delle professioni di aiuto che a cittadini interessati al tema, Il workshop si è svolto il 9 marzo 2019 presso la sede dell'Associazione E-spèira.
Le comunicazioni introduttive sono state volutamente brevi: il loro scopo era quello di permettere di focalizzare il tema e, in particolare la prima, di favorire il riconoscimento e la libera espressione del disagio e delle paure che possono manifestarsi in ognuno di noi quando siamo esposti all’incontro con la “diversità” nonché lo sviluppo di un pensiero riflessivo di gruppo.
Forse in passato noi che ci occupiamo professionalmente del benessere relazionale, oppure che come cittadini abbiamo a cuore l’accoglienza, non abbiamo prestato abbastanza attenzione alle paure nei confronti dei “diversi” e in particolare dei migranti , spesso percepiti come minaccia al senso di identità personale e collettivo. Penso invece che sia importante riconoscere e accogliere queste paure, individuare dei dispositivi in cui poterle fare oggetto insieme di una ricerca di senso: un presupposto indispensabile per poter accogliere le paure degli altri e favorire quei processi trasformativi che permettono di passare dalla paura dell’estraneo alla curiosità, diventando “promotori di umanità”.
Nell’introduzione alla seconda parte dell’incontro si è portata l’attenzione sui fenomeni riguardanti i grandi gruppi (etnici, religiosi, nazionali, ecc.), che si manifestano quando si vivono situazioni di forte insicurezza rispetto al futuro e quando il senso della propria identità personale o collettiva è minacciato e che possono avere sbocco diverso a seconda della personalità e delle condotte dei leader. Ho accennato a fenomeni quali la de-individualizzazione e la trasformazione dei diversi in capri espiatori, tenendo conto sia degli studi e delle riflessioni di chi si è occupato in modo specifico delle psicodinamiche dei grandi gruppi e, dal punto di vista sociologico, dei fenomeni legati alla globalizzazione, sia della specificità della situazione che stiamo vivendo nel nostro paese.
Nell’accingermi a rivedere le mie comunicazioni introduttive per la pubblicazione, ho evitato, per non tradire il clima dell’incontro, di ampliare le considerazioni di tipo teorico, e mi sono astenuta dal trasformare in un lessico specialistico ciò che a voce avevo cercato di dire con un linguaggio accessibile. Mi sono limitata a piccole modifiche, che mi pareva necessarie per la comprensione del testo scritto. Accade infatti, nel passaggio dall'esposizione orale alla scritttura, che ciò che era affidato alla comunicazione corporea vada perso e debba essere integrato.
Ho anche aggiunto una breve bibliografia, per chi volesse approfondire.
INTRODUZIONE- parte 1°
Giovanna Bosco
E’ per me motivo di particolare interesse che all’invito a mettere in comune emozioni e riflessioni "per restare mani", abbiano risposto sia colleghi che per professione si occupano delle relazioni e della cura del benessere psichico, sia cittadini che desiderano mantenere viva la capacità di riflessione su questo tema, in un tempo in cui proprio il senso dell’umano e la capacità di un pensiero complesso, non rozzamente semplificatore, rischiano di smarrirsi.
Penso che tra coloro che sono qui oggi nessuno nutra sentimenti grossolani di odio, disprezzo o cinica indifferenza verso i migranti, e in genere verso i portatori di una differenza o di handicap o di una fragilità. Tuttavia in tutti noi c’è una zona d’ombra, un lato oscuro, che in certe circostanze può emergere spiazzandoci, perché non corrisponde ai nostri principi. Io stessa talvolta ho avvertito in me un senso di inquietudine, e ho provato almeno per un attimo cosa vuol dire sentirsi invasi.
E’ successo ad esempio quando mi sono accorta che nella zona dove vivo gli extracomunitari non si limitavano a venire alla mattina e andar via alla sera, dopo aver prestato la loro opera nelle nostre case come badanti o domestici, oppure nei negozi, ma qualcuno incominciava a prendere casa in zona, a diventare residente. Certo, poi ho iniziato a interrogarmi : “perché ti disturba l’idea che un giorno non lontano potresti anche tu avere un vicino di casa non italiano né europeo, sei proprio sicura che gli extracomunitari quanto a cultura e umanità siano inferiori?”
Mi sono allora ricordata che pochi giorni prima una signora dall’aspetto elegante e distinto, vedendo un nero che normalmente staziona ad un angolo della via, senza assillare nessuno ma gratificando con un bellissimo sorriso chi si fermava e gli dava qualcosa, si era messa gridare parole rabbiose: “basta con questi negri!” (aveva usato proprio questo termine spregiativo). Nella realtà sono solamente tre o quattro, sparsi in diversi punti della zona circostante. Nel sentire quelle grida rabbiose e quel disprezzo, tutto mi era apparso rovesciato: l’uomo nero mi era sembrato civilissimo, un vero Milord; mi è venuto il desiderio di andargli vicino, di offrirgli quel sorriso che il grido rabbioso aveva spento sul suo volto, di parlargli. Mentre la signora italiana “distinta” mi appariva ora la prova vivente dell’imbarbarimento dei costumi, della perdita di civiltà e umanità che ci sta minacciando. Forse c’era da avere più paura di tutto questo.
Eppure sia io che la signora che aveva urlato il suo disprezzo e la sua rabbia eravamo partite probabilmente dalla stessa sensazione di pancia: il timore di essere invasi da qualcosa di non familiare, di diverso, di estraneo.
Penso che non ci sia niente di anormale se affiorano in noi sensazioni di questo tipo. Ci può succedere anche se ci troviamo nello spazio ristretto di un ascensore vicino ad un estraneo, ancor più se questa persona ha un handicap che ne deforma il corpo e il viso. E in tante altre situazioni in cui siamo costretti ad incontrare la “diversità”.
Ciò che fa la differenza è quello che accade nella nostra mente e nel nostro corpo da quel momento in poi. Ci sono due possibilità:
– Una prima strada è quella che porta a trasformare in modo rapido e immediato la sensazione di disagio e di timore in azione violenta (c’era profonda violenza non solo nelle parole, ma nella voce gridata, nell’espressione del viso, in tutta la corporeità). E’ qualcosa che la psicoanalisi chiama “evacuazione del pensiero”, “passaggio all’atto”. C’è un’emozione e c’è un pensiero embrionale (“qui cambia tutto!..” “cosa succederà?”) che non riesce a svilupparsi perché viene subito trasformato in grido rabbioso, e quindi resta rozzamente semplificatore: è un pensiero fondato sull’aut/out (“o noi o loro”, o buttiamo a mare loro per salvarci noi, o viceversa). Chi studia il rapporto tra emozioni, pensiero e sistema nervoso ci dirà che in questo caso le emozioni seguono un percorso neuronale rapidissimo, di tipo primitivo, che salta il passaggio per la corteccia cerebrale, la parte più evoluta del nostro sistema nervoso, e porta a reazioni rapide e drastiche del tipo amico/nemico, buono/cattivo, analogamente a quanto succede agli animali, che per sopravvivere debbono reagire con grande rapidità scegliendo se lasciarsi avvicinare, oppure fuggire o lottare.
– La seconda strada è quella che incanala le nostre sensazioni ed emozioni in percorsi più lunghi, che, passando per la corteccia cerebrale, ci permettono di fare connessioni, confronti, di sviluppare un pensiero complesso, di tipo riflessivo e autoriflessivo (apro una parentesi per dire che quando parlo di pensiero non penso solamente al pensiero verbale, ma anche ai processi di elaborazione che avvengono nella sfera del non verbale, trasformando ad esempio la chiusura in apertura, la voce rabbiosa e respingente in voce che crea un ponte). Prendendoci il tempo per riflettere, possiamo allora anche fare collegamenti con altre esperienze, scoprire cosa muove a livello profondo e non consapevole quel senso di pericolo, di minaccia.
Non ignoro che c’è un forte rapporto tra la diffusione dell’odio, del disprezzo, della disumanizzazione di chi percepiamo come diverso, da un lato, e dall’altro la quantità di messaggi terroristici da cui siamo bombardati, che mirano a legittimare i lati più oscuri e egoistici presenti in ciascuno di noi e a trasformare i “diversi” in capri espiatori del malessere personale e sociale. Tuttavia vi invito, in questa prima parte del nostro incontro, a mettere tra parentesi le valutazioni di tipo macrosociale, per concentrarci su cosa avviene in noi nell’incontro con la diversità.
DISCUSSIONE DI GRUPPO
sintesi a cura di Giovanna Bosco e Vera De Luca
Si inizia condividendo con il gruppo le sensazioni di disagio e rifiuto che anche lo psicoterapeuta può provare nell’incontro con pazienti che hanno tratti di personalità e modalità relazionali troppo difformi rispetto alle proprie aspettative e a ciò che sentiamo di poter tollerare, e che possono far emergere un pensiero giudicante che inibisce la disposizione all’ascolto e all’accoglienza.
Ci si interroga su cosa rende il nuovo, il non già conosciuto, pericoloso, quindi “cattivo”, “sporco”, “brutto”, “violento”.
Il focus si concentra poi sull’incontro con i migranti. Circolano nel gruppo racconti di esperienze che portano al centro dell’attenzione i vissuti rispetto a una particolare categoria di migranti: i “neri”. Si riflette sulla difficoltà a incontrare la diversità negli aspetti corporei ; e sul timore che l’incontro con i neri provenienti dall’Africa possa far emergere il “primitivo” che è in noi. Si osserva che l’importanza della corporeità, propria delle culture dell’Africa Subsahariana, può essere sentita come minacciosa per la nostra identità culturale, fondata sulla superiorità del verbale rispetto al corporeo. Rispetto all’associazione tra migrante nero e “bruttezza”, si osserva che ciò che è “brutto”, e che quindi temiamo, è la povertà, portando esempi di neri di successo nel campo della politica o dello sport, che “se fossero qui con noi non li vedremmo certo brutti”
Quanto all’associazione tra migranti e violenza, l‘immagine di alcune madri nigeriane immigrate, che, per tenere a bada i figli, ripetono loro in una sorta di minacciosa cantilena “I beat you, I beat you”, viene ripresa allargando l’angolo di visuale, e ci si rende conto che espressioni simili esistono anche nella nostra cultura: a partire dall’invettiva della madre napoletana che quando è arrabbiata dice ai figli “io t’ho fatto, io ti disfo”, vengono rintracciate le diverse varianti regionali, tutte ugualmente riconducibili ad un immaginario materno minaccioso e violento.
Si riflette sul fatto che la xenofobia – l’avversione nei confronti dell’estraneo – non ha a che fare solo con le differenze tra neri e bianchi , ma c’è anche, all’interno dei neri, tra diverse etnie, così come c’è tra i bianchi (anche gli italiani ne hanno patito quando erano migranti).
Nell’incontro con la diversità, possiamo sentirci minacciati non solo nella nostra identità personale ma anche in quella collettiva, di grande gruppo, fondata su affinità non solo somatiche ma anche culturali, linguistiche e su una storia comune. Un esempio di differenze culturali che portano a fraintendimenti viene dall’esperienza di un’operatrice di un centro di accoglienza che aveva interpretato come un segno di evitamento o di non voler esser-ci il fatto che alcuni ospiti, durante i colloqui con lei, non la guardavano mai negli occhi, mentre aveva poi scoperto che nel loro paese di origine, il Senegal, il non guardare negli occhi è segno di rispetto. Si evidenzia come anche l’interpretazione della comunicazione non verbale possa essere segnata culturalmente.
INTRODUZIONE – parte 2°
Giovanna Bosco
Vorrei ora portare l’attenzione su come si va accentuando in senso negativo la percezione collettiva dei gruppi che sono portatori di una differenza etnica o religiosa, come migranti, rom, musulmani, ebrei; oppure di una diversità di genere o di orientamento sessuale; o ancora di una fragilità, come malati psichici o portatori di handicap.
Ci sono meccanismi ricorrenti che promuovono la percezione negativa di tali gruppi:
– il Gruppo portatore di una diversità viene presentato come un grave pericolo, e c’è un bombardamento modo massiccio di notizie false o deformate.
-viene dato rilievo enorme alle condotte devianti o ai reati commessi da qualche membro del gruppo che si vuole colpire ( l’omicida non è più un determinato individuo, ma tutti i membri del gruppo cui il soggetto appartiene diventano “pericolosi delinquenti”) . E’ questo il fenomeno della de-individualizzazione, messo in luce da chi studia le psicodinamiche dei grandi gruppi.
Di fronte ad una minaccia (non importa che sia reale oppure immaginaria, o creata ad arte) c’è una regressione collettiva in senso narcisistico e paranoico. Si ricercano dei capri espiatori verso cui si indirizza la paura, trasformata in rabbia, deviandola dalle vere cause di ansia e insicurezza, che sono molteplici. Una fonte di insicurezza ha che fare con le rapide trasformazioni avvenute negli ultimi decenni a livello sociale ed economico. E’ diffusa la paura di non poter mantenere quello status sociale che si considerava parte della propria identità, e prova delle proprie capacità, si teme di perdere il lavoro e le tutele sociali, e che le cose siano sia ancor più difficili per i propri figli. C’è difficoltà a fare qualsiasi previsione per il futuro, in una società globalizzata e “liquida” in cui tutto cambia con grande rapidità, e diventa quasi impossibile individuare dove e con chi far sentire le proprie ragioni a livello collettivo. Altra fonte di incertezza sono i processi complessi e contradditori di passaggio ad un’identità sovranazionale come avviene in Europa.
Tutto questo, che è reale, può intersecarsi con difficoltà di tipo personale a reggere le frustrazioni, l’insicurezza, l’ansia.
Questo insieme di fattori interni ed esterni concorre a creare un senso generalizzato di precarietà e angosciosa insicurezza. Di qui i fenomeni regressivi, e la tendenza a stringersi intorno ad un capo da cui ci si aspetta la salvezza. Quando i capi hanno tratti narcisistici o paranoici è probabile che tendano a deviare l’attenzione dai problemi sociali complessi, di non facile né rapida soluzione, dirottando la rabbia verso dei capri espiatori: è un modo per ricercare o mantenere il consenso. Si crea così una specie di circolo vizioso che porta a pensare in termini di aut aut (o la nostra salvezza o la loro, non c’è posto per entrambi, quindi chi vuol essere buono nel migliore dei casi è un babbeo, nel peggiore è anch’esso un pericolo perché ci impedisce di salvarci). E’ la de-umanizzazione dell’Altro, che diventa cosa, numero, per cui non c’è più compassione, capacità di aiutare, perfino di soccorrere quando è in gioco la vita. Ma in questo modo anche chi si illude di salvarsi non si salva perchè perde la propria essenza umana.
La questione dei migranti è la più vistosa, anche se non è l’unica, espressione di questa deriva di civiltà in cui rischiamo di precipitare. Negli articoli del cosiddetto Decreto Sicurezza che riguardano il trattamento dei migranti è già in atto qualcosa che con altri gruppi potrebbe verificarsi domani.
DISCUSSIONE DI GRUPPO
sintesi a cura di Giovanna Bosco e Vera De Luca
Alcune colleghe che lavorano in Centri per i migranti portano le forti difficoltà che stanno vivendo nei rispettivi servizi a seguito dell’entrata in vigore del cosiddetto “decreto Sicurezza”.
Il disinvestimento da parte delle Istituzioni rispetto ai progetti di integrazione dei migranti provoca come ricaduta sugli operatori un senso di fatica, di impotenza, di incertezza rispetto al futuro. C’è chi cerca di allontanare da sé il senso di colpa (“non è colpa mia, prenditela con chi ha fatto questa legge”); chi disinveste rispetto al proprio lavoro, evitando di condividere con i colleghi emozioni e pensieri rispetto alle difficoltà comuni che ci si trova a fronteggiare e preferendo “parlare d’altro”; chi “cerca di salvare il salvabile” e, attraverso incontri con Amministrazioni comunali, Prefetture, richieste di pareri legali e così via, va alla ricerca di vie d’uscita e spazi che permettano di mitigare gli effetti devastanti delle nuove norme; chi se ne va, e perfino, se il senso d’impotenza è vissuto come qualcosa di intollerabile, lascia la professione che svolge da anni per passare ad altri tipi di lavoro.
Si osserva che solo i minori sono ancora protetti, anche se il problema per loro è spostato al momento del passaggio alla maggiore età, quando dovranno misurarsi con il fatto che, nonostante le competenze acquisite ed i livelli di parziale integrazione sperimentati, si troveranno privati di prospettive per il futuro. Un’“assenza di prospettive” che si riverbera anche nel vissuto di molti che per professione sono tenuti ad avere una relazione di cura, aiuto, orientamento nei loro confronti.
Queste comunicazioni trovano ascolto e risonanza nel gruppo. Da parte di chi non ha esperienza diretta di lavoro con i migranti emerge il desiderio di comprendere meglio sia le conseguenze delle nuove norme riguardanti la gestione del fenomeno migratorio, sia il loro senso, che per alcuni aspetti sembra corrispondere ad un generico intento di porre ostacoli ad ogni passo che i migranti han bisogno di compiere, rendendo del tutto precaria, sospesa e senza sbocco la loro condizione, anche se questi non se ne rendono ancora pienamente conto.
C’è chi osserva che gli effetti devastanti delle nuove scelte politiche si vedranno “davvero” solo tra un po’ di tempo, e ci si interroga su quello che potrà accadere in futuro: conflitti sociali violenti oppure un aggravamento della violenza “invisibile” nei confronti dei migranti? Privati di qualsiasi documento che riconosca il loro esistere come esseri umani, cacciati nell’illegalità, il cosiddetto Decreto Sicurezza li costringerà, ancor più di quanto già oggi in parte accade, ad essere sfruttati come schiavi nelle campagne o a diventare manovalanza al servizio delle mafie e dei trafficanti di droga?
Viene ripreso, anche se da una prospettiva diversa, il tema delle “paure”, sollecitato dall’esperienza di un’operatrice che in passato lavorava in un centro di accoglienza in cui doveva occuparsi di un gran numero di migranti, tutti uomini. Tale centro era stato collocato, non si sa in base a quale progettualità, in un luogo isolato, nei pressi di un paese abitato prevalentemente da donne anziane. Si inizia a differenziare tra paure irrazionali, derivanti da angosce persecutorie e modalità inadeguate di gestione collettiva del fenomeno migratorio e la paura come segnale sano e vitale , che permette di prevedere pericoli reali e sollecita a trovare strategie per evitarli.
CONCLUSIONI
Giovanna Bosco
Nella prima parte del workshop abbiamo condiviso il racconto di esperienze in cui l’incontro con la diversità è stato motivo di turbamento, ed ha suscitato vissuti di disagio, rifiuto o paura. Partendo da incontri legati alla pratica professionale di alcuni di noi, in cui l’Altro si presenta con modalità relazionali che eccedono ciò che ci aspettiamo e sentiamo di poter tollerare, si è via via ristretto il focus dell’attenzione, dapprima alla categoria dei “migranti”, poi, tra questi, ai “neri”. Questi ultimi sono sembrati concentrare su di sé i più forti vissuti di pericolosità, e di minaccia al nostro senso di identità.
Partendo dall’Immaginario che vuole le donne e gli uomini dalla pelle nera “brutti” “sporchi” e “violenti”, abbiamo come gruppo individuato i vissuti più profondi che portano al rifiuto nei loro confronti: la paura che facciano emergere il “primitivo” che è in noi, anche per il loro diverso modo di vivere la corporeità; la paura della “povertà” che li ha spinti a lasciare il loro paese (e che fa parte della nostra storia collettiva), e, vorrei aggiungere, la paura di scoprirci “inermi” in balia di forze naturali, istituzioni e comunità di persone che si rapportano a noi senza uno sguardo umano.
Quando abbiamo scoperto che si tende a volte ad attribuire ad un particolare gruppo etnico dei comportamenti censurabili, come se fossero una loro specificità, cancellando dalla nostra mente il fatto che comportamenti analoghi esistono anche tra italiani, è stato per me come vedere in atto qui tra noi un concetto sviluppato da Vamik Volkan, che si è a lungo occupato dei Grandi Gruppi (etnici, religiosi, ecc.) e dei loro conflitti identitari. Mi riferisco al fatto che secondo questo Autore in determinate condizioni ci si sente obbligati a mantenere il “Principio della diseguaglianza” e ciò ci porta a “cancellare” dalla nostra mente tutto ciò che contrasta con il senso di radicale differenza tra “noi” e “loro”. Questo ci consente di poter continuare a pensare che siamo perfetti mentre il Male è tutto dalla “loro” parte.
Nella seconda parte del nostro incontro il nostro sguardo, prima rivolto a ciò che si muove dentro di noi, si è allargato al rapporto tra la nostra soggettività e la società di cui facciamo parte, in cui si sta accentuando in senso negativo la percezione collettiva di tutti i gruppi sociali portatori di una differenza (etnica o religiosa, di genere o di orientamento sessuale, e così via). Abbiamo considerato alcuni meccanismi che sono alla base di questa percezione negativa, come ad esempio: il bombardamento continuo di messaggi dalla forte carica emotiva e di informazioni spesso deformate; la de-individualizzazione che porta, tra l’altro, ad estendere ad un intero gruppo o etnia le condotte devianti di qualche suo membro, di modo che il gruppo cui appartiene è visto come un unicum indifferenziato in cui tutti diventano “pericolosi delinquenti”. Si è visto che quando un determinato gruppo etnico o religioso è vissuto come una minaccia – non importa se reale o immaginaria – c’è una regressione collettiva in senso narcisistico e paranoico, che porta a stringersi intorno ad un capo da cui ci si aspetta la salvezza e a ricercare dei capri espiatori verso cui indirizzare i vissuti angosciosi, trasformati in rabbia, deviandoli dalle vere cause di ansia e insicurezza: l’impossibilità di fare previsioni e progetti per il futuro proprio e dei propri figli e il timore di perdere il proprio status sociale, in una società globalizzata e “liquida” in cui tutto cambia con grande rapidità; oppure difficoltà di tipo personale a reggere frustrazioni e insicurezza; o ancora una combinazione di fattori interni ed esterni. Quando anche i leader concorrono a deviare l’attenzione da problemi sociali complessi, indirizzando il senso di angosciosa insicurezza, trasformato in ostilità, verso dei capri espiatori, nasce un pensiero basato sull’ aut aut (o noi o loro). E’ questo il presupposto per la de-umanizzazione dell’altro, che può così essere trattato con assoluta indifferenza cosa se fosse una “cosa” anziché un essere umano.
Abbiamo visto come tutti questi processi siano particolarmente evidenti rispetto ai migranti, e come le nuove norme che li riguardano mettano in atto ciò che anche con altri gruppi potrebbe verificarsi domani.
Ascoltando le testimonianze delle colleghe che lavorano nei Centri per i migranti abbiamo condiviso il senso di disagio e difficoltà che stanno vivendo gli operatori: il disinvestimento da parte delle Istituzioni rispetto ai progetti di integrazione e l’introduzione di nuove norme vessatorie nei confronti dei migranti provoca negli operatori un senso di fatica, di impotenza, di incertezza rispetto al futuro, e in taluni disinvestimento rispetto al proprio lavoro. Si osserva che oggi si cerca di “salvare il salvabile”, e tuttavia gli effetti devastanti delle nuove norme si riveleranno pienamente nel futuro, gettando nell’illegalità i migranti, diventati invisibili sans papier.
Condividendo i vissuti delle operatrici che lavorano a stretto contatto con i migranti, abbiamo potuto comprendere meglio la sofferenza dei migranti stessi, che dopo aver affrontato pericoli di ogni genere alla ricerca di un nuovo inizio, si trovano in una situazione di penosa incertezza rispetto al proprio futuro, e in prospettiva a trovare sbarrata ogni strada che non sia quella della marginalità e illegalità.
Penso che sia importante non lasciare soli colleghi e colleghe che sono costretti a misurarsi ogni giorno con l’alterità, vivendo la situazione paradossale di chi è chiamato a svolgere una professione di cura e di aiuto proprio mentre socialmente il prendersi cura e l’aiutare è svalutato e ostacolato il nome del pregiudizio che chi aiuta i migranti “toglie agli Italiani”.
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