Seminario 12 marzo – Elaborare l’indicibile: I MATERIALI
Pubblichiamo, a cura dell’Associazione E-spèira, i materiali del Seminario del 12 marzo 2016, dal titolo: “Elaborare l’indicibile”. In questo testo il lettore potrà trovare:
-la sintesi della relazione introduttiva di Giovanna Bosco e degli interventi di Velia Ranci e Pierluigi Sommaruga
– la sintesi della discussione e delle comunicazioni che sono circolate ‘nel’ Seminario, e dei contributi scritti nati ‘dal’ Seminario e messi a disposizione da alcuni tra i partecipanti: Christian Colautti, Vera De Luca, Chiara Marazzini, Luciana Monzi, Teresa Mutalipassi.
– proposte e desideri di approfondimento
Lanciando uno sguardo verso il futuro, pensiamo di continuare la riflessione, organizzando un secondo incontro sullo stesso tema dopo l’estate. La pubblicazione di questi materiali ha anche lo scopo di permettere a chi fosse interessato ad approfondire la questione dell’ “indicibile”, di potersi inserire in questo percorso di ricerca, e di partecipare al prossimo incontro.
Sintesi della relazione introduttiva di Giovanna Bosco
La relatrice introduce il tema del seminario segnalando due immagini – tratte dalla propria esperienza clinica, dall’attività di supervisione e dalla letteratura, che rappresentano un disagio riguardante la relazione terapeuta-paziente o il clima gruppale.
I libri del terapeuta: questa immagine, pur con diverse varianti, esprime simbolicamente la sensazione che il terapeuta sia più interessato ai suoi libri che al paziente. In una evocativa variante, descritta da un collega in una sua pubblicazione, una paziente sogna che l’analista è privo delle “solite antenne” e le lancia addosso i suoi libri. Accanto a momenti felici in cui abbiamo le ‘antenne sensibili’ – commenta Giovanna Bosco – ce ne sono altri più opachi, in cui tendiamo a ricorrere ad interpretazioni ‘preconfezionate’, per supplire alla nostra difficoltà a sintonizzarci con l’Altro, ad essere empatici e creativi.
L’occhio scrutatore: si tratta di solito di un unico occhio, scrutatore oppure predatore. Questa immagine compare soprattutto nelle espressioni grafiche di pazienti che non hanno goduto di sufficiente accoglienza nella loro storia; ma porta anche tutti noi – analisti, psicoterapeuti, conduttori di gruppo, arteterapeuti – ad interrogarci sul ‘nostro’ sguardo.
Una cosa è sentirsi osservati, altra cosa è sentirsi accolti dallo sguardo dell’altro.
Dopo aver constatato che anche nella psicoanalisi e nella gruppoanalisi contemporanea c’è accordo sull’importanza delle comunicazioni corporee, Giovanna Bosco sottolinea che vi è una sostanziale differenza tra:
– osservare le posture, la mimica, e l’insieme delle comunicazioni non verbali per tradurle quanto prima in parole, o comunque per derivarne un sapere sull’altro
– riconoscere che anche noi siamo parte di un fitto dialogo che passa per il tono della voce e tutta la comunicazione corporea, e avviene per lo più in modo non intenzionale.
Anche in contesti dove l’idea tradizionale della neutralità dell’analista è stata da tempo abbandonata, quanto si tratta di comunicazione non verbale, soprattutto corporea, sopravvive la tendenza a “chiamarsi fuori”, ponendosi come osservatori delle espressioni dell’Altro. Forse perché la comunicazione non verbale è molto meno controllabile di quella verbale, e questo ci fa sentire più “nudi”.
La relatrice riconosce che ci sono settori della Psicoanalisi, anche nell’ambito della SPI, dove è in corso un profondo e coraggioso ripensamento su queste questioni. Cita Antonio Imbasciati, il quale sottolinea che le forme contemporanee di disagio psichico aprono nuovi scenari, dove ciò che conta non sono le interpretazioni verbali ma quell’insieme di comunicazioni emotive che passano per il tono della voce, gli sguardi, le espressioni del viso, tanto da chiedersi se la psicoanalisi possa ancora definirsi talking cure (cura attraverso la parola). Imbasciati segnala inoltre come aspetto problematico la formazione degli analisti, in cui non trova adeguata considerazione la comunicazione che avviene, nei due sensi, a livello non verbale, e propone di introdurre nelle supervisioni l’osservazione di sedute registrate. A questo proposito Giovanna Bosco commenta che, pur essendoci unanimità sul fatto che non si può diventare analisti senza aver fatto un’adeguata esperienza personale, quando si tratta della comunicazione non verbale e in particolare della corporeità si esita a percorrere la strada esperienziale, anche se questa è, in base alla sua pluriennale esperienza in campo formativo, la modalità più feconda per affinare la sensibilità nei confronti di tutto ciò che passa nella relazione al di là delle parole.
La relatrice dice poi di aver dedicato ampio spazio, nel suo articolo “I processi di elaborazione delle esperienze indicibili”, pubblicato in due parti su questo stesso sito, alla Teoria del Codice Multiplo di Wilma Bucci, perché questo lavoro teorico, pur essendo di grande interesse per chi si occupa dell’ ‘indicibile’, è poco conosciuto in Italia. Invita tuttavia a non assumerlo come un ‘libro sacro’, ma come uno stimolo a ripensare senza pregiudizi il rapporto tra mondo della parola e mondo non verbale. Segnala come aspetto critico il fatto che talvolta, soprattutto nelle prime concettualizzazioni di questa ricercatrice, resta in ombra il fatto che i processi di elaborazione non sono puramente processi interni ad un individuo ma si sviluppano in quanto siamo compartecipi di relazioni, risonanze, rispecchiamenti tra noi e chi ci è accanto (cosa che in altri passaggi degli scritti di W. Bucci emerge invece con chiarezza). Richiama poi sinteticamente i punti fondamentali delle elaborazioni di questa autrice, rimandando per maggiori informazioni al suo articolo già citato e aggiungendo alcune considerazioni e riflessioni personali.
Wilma Bucci supera la tradizionale concezione di tipo gerarchico che associa il mondo non verbale agli ‘agiti’ ed a tutto ciò che è infantile o regredito e considera il mondo della parola superiore, più evoluto. Propone una visione più complessa, basata su tre modalità di funzionamento psichico e di elaborazione, cui viene riconosciuta pari importanza e dignità: sistema subsimbolico, sistema simbolico non verbale ed infine simbolico verbale.
Di particolare interesse per chi si occupa di ‘indicibile’- dice Giovanna Bosco – è la prima delle tre modalità, quella “subsimbolica”, in cui non ci sono parole, né rappresentazioni, ma un flusso continuo di sensazioni e informazioni che provengono dai nostri sensi, dai visceri e dal movimento. L’elaborazione di questa enorme quantità di informazioni è rapidissima, per lo più non intenzionale, inconsapevole. E tuttavia proprio questi processi di elaborazione, oltre a consentirci di svolgere adeguatamente attività motorie complesse e di sintonizzarci con il partner in una danza, sono fondamentali, secondo W. Bucci, nel lavoro creativo di tipo scientifico, nonché nella comunicazione emotiva. L’elaborazione subsimbolica corrisponde, secondo questa ricercatrice, a ciò che chiamiamo intuizione o “sapere del corpo”. Giovanna Bosco segnala che, nella sua esperienza, proprio l’intuizione ci permette spesso, durante una seduta, di introdurre un elemento di svolta in una situazione ripetitiva e bloccata.
Altro aspetto significativo della teorizzazione di W. Bucci sta nell’affermazione che non si può passare direttamente dal “subsimbolico non verbale” al “sistema simbolico verbale” (ovvero “tradurre in parola” ciò che “parola non ha”).
Allargando lo sguardo anche ad altri autori che si sono occupati di questa questione, nonchè attingendo alla propria esperienza, Giovanna Bosco segnala che spesso i pazienti sentono la “traduzione in parole” di ciò che hanno espresso a livello corporeo come qualcosa di artificioso o addirittura come una violenza, perché c’è una radicale differenza tra quel mondo di sensazioni che attraversano il nostro corpo e le parole (codici astratti, logici, convenzionali, che hanno perduto il rapporto con l’esperienza sensibile e con la cosa che vogliono significare). Solo la parola poetica – fatta di ritmo e musicalità, ricca di immagini, evocativa anziché assertiva – sfugge a questo limite. L’acquisizione del linguaggio verbale, che ci consente di essere accolti a pieno titolo nella vita sociale, di distinguere tra passato/ presente/ futuro, e molte altre cose ancora, implica però anche il controllo su ciò che è lecito o non lecito provare ed esprimere. E proprio nel passaggio dal mondo delle esperienze ‘indicibili’ al linguaggio verbale può nascere la perdita di contatto con parti di Sé e con i propri vissuti più autentici.
Altro elemento significativo della concettualizzazione della Bucci è il ruolo assegnato alle immagini, che si formano attraverso l’elaborazione a livello “simbolico non verbale”. Non si riferisce solo alle immagini visive, ma anche a quelle tattili, oppure sonore (ad esempio un insieme di suoni provenienti da una voce dal timbro familiare, che costituiscono un’esperienza ricorrente, e che creano un clima rassicurante). E sono le immagini a fare da ponte tra l’esperienza corporea non verbalizzabile e non rappresentabile ('subsimbolica') e il mondo della parola (il 'simbolico verbale').
Wilma Bucci non ritiene peraltro che le parole siano qualcosa di superfluo. Giovanna Bosco esprime il suo accordo su questo punto, pur segnalando che talvolta, a seconda dei pazienti e delle circostanze, bisogna accettare di arrivarci dopo un percorso in cui si ricorre ad altre modalità prevalenti di espressione e comunicazione, come nel caso di Margherita, che esporrà più avanti. Sottolinea inoltre che questo quadro teorico evita sia la sopravvalutazione della parola (un rischio soprattutto per chi ha una formazione psicoanalitica o gruppoanalitica) sia una visione idealizzata e autosufficiente del non-verbale (un rischio che riguarda soprattutto gli arteterapeuti).
Altro punto significativo del pensiero di Wilma Bucci: è importante che le sensazioni corporee, le immagini e le parole siano tra loro connesse, dando vita a “schemi emozionali” integrati. Un serio problema sorge quando, a seguito di esperienze traumatiche, c’è una dissociazione degli elementi dello schema emozionale, ossia quando quel ‘ponte’ di cui si parlava prima non viene costruito oppure crolla.
Giovanna Bosco segnala poi altri due significativi contributi: la scoperta dei neuroni specchio e la Infant Research, precisando che si limiterà a pochi cenni, trattandosi di argomenti sui cui vi è una maggiore conoscenza.
Rizzolatti e altri hanno scoperto che i neuroni specchio entrano in funzione anche alla semplice vista dei movimenti compiuti da altri, come se il soggetto stesse facendo la stessa azione che vede compiere. Ciò permette di prevedere le azioni e le intenzioni altrui. Lo stesso gruppo di ricercatori afferma che i neuroni specchio hanno anche un ruolo fondamentale nell’empatia, poiché si attivano anche alla vista degli stati emotivi della persona che abbiamo di fronte (che si manifestano attraverso le modifiche posturali, la mimica visiva, il tono della voce, e così via) La riproduzione all’interno del nostro corpo di quei cambiamenti permette, secondo Gallese, di sentire ciò che sente l’altro.
Questa scoperta, osserva la relatrice, fa emergere una corrispondenza tra fenomeni biologici e fenomeni rilevati dalla psicologia, dalla psicoanalisi, dalla gruppoanalisi, come il rispecchiamento, la risonanza, l’empatia, che, insieme all’intuizione, sono fattori terapeutici importanti, anche se ‘nascosti’.
La Infant Research considera la scoperta dei neuroni specchio una conferma delle sue teorie sullo sviluppo infantile, in particolare del ruolo del rispecchiamento empatico madre-bambino, che dà luogo a fitti dialoghi fatti di scambi vocali, sorrisi, ritmi e movimenti del corpo.
Dopo questo excursus, Giovanna Bosco problematizza l’uso, a suo avviso troppo riduttivo, che si fa spesso dei concetti di emozione e empatia. Si tende infatti a parlare di ‘emozioni’ anche quando si tratta di sensazioni o emozioni ancora embrionali, poco differenziate (benessere/malessere, apertura/chiusura, ecc.). A suo avviso l’emozione è un costrutto che richiede, per emergere in forma piena, processi di elaborazione complessi (utilizzando le categorie della Bucci, un collegamento tra “subsimbolico” e “simbolico non verbale”), e ripetute esperienze di rispecchiamento empatico.
Avanza poi una seconda domanda: l’empatia è puramente “sentire ciò che sente l’altro”? o è qualcosa di più complesso? Il rispecchiamento empatico è considerato un fattore strutturante nelle prime relazioni madre-bambino, tuttavia se la madre si limitasse a rispecchiare il pianto del bambino mettendosi anche lei a piangere, il contagio reciproco porterebbe ad una spirale di angoscia crescente. La relatrice ipotizza che l’empatia sia provare ciò che prova l’altro, ma all’interno di una cornice che mantiene la differenziazione tra sé e l’altro. A suo avviso è questo paradosso che consente, nel nostro lavoro, di contenere le emozioni che condividiamo con l’altro, contribuendo alla capacità di tollerarle, modularle, elaborarle.
Cita a questo proposito Bion, dove parla di una madre che restituisce ciò che le arriva dal bambino rielaborato (pur segnalando che il limite di Bion è quello di confinare nella “mente” tali processi) e Stern, che abbandona il pregiudizio sul corpo e, introducendo il concetto di sintonizzazione transmodale, parla di una madre che riproduce il movimento del bambino in un’altra modalità sensoriale, attraverso la voce, e quindi immette elementi trasformativi e strutturanti. Invita i presenti ad esprimere, nella successiva discussione, il loro pensiero su questi ultimi interrogativi.
Da tutti questi contributi teorici, che si intersecano con molte esperienze cliniche, emerge l’esistenza di aree dell’esperienza ‘indicibili’. Anche nella vita adulta “normale” le parole mal si prestano a comunicare con sé stessi e con gli altri su ciò che sentiamo e a trasformare le sensazioni in emozioni.
Quanto al lavoro terapeutico, Giovanna Bosco, rifacendosi alla propria esperienza clinica, segnala che ci sono aree dell’esperienza non integrate nel senso di sé, esiliate in isole di non senso, che restano depositate nella memoria corporea e sono associate ad un unico canale sensoriale. Queste esperienze indicibili non emergono neppure attraverso il sogno. Per ciascun paziente la via d’accesso all’indicibile passa inizialmente per uno specifico canale sensoriale: visivo, uditivo, oppure tattile.
Rimandando per un’esposizione più ampia al suo articolo pubblicato su questo sito, ricorda pazienti particolarmente sensibili alla voce, o a certi suoni che casualmente irrompevano dall’esterno. Cita poi altri casi in cui si è rivelato fondamentale, in alcuni passaggi, il contatto corporeo. Ricorda i primi due incontri avuti con una paziente che, dopo aver avanzato una ‘richiesta’ di terapia, si poneva come una manager che si riservava di decidere se assumerla oppure no. Tutto faceva ritenere che non ci fossero i presupposti per iniziare un percorso terapeutico, finchè, con un’improvvisa intuizione
“mi sporsi in avanti dal mio sedile e le presi le mani tra le mie. Ci fu un movimento sintonizzato dei nostri corpi, i nostri sguardi si incontrarono, sentii un profondo cambiamento, un ammorbidirsi della rigidità corporea, il suo affidarsi fiducioso. Così compresi che potevamo iniziare un cammino comune. Per molto tempo quando entrava e quando stava per uscire sentivo che per un istante era opportuno rinnovare il contatto corporeo. Poi piano piano questo divenne meno importante. Nascevano immagini espresse con parole, alla cui co-creazione anche lei partecipava con piacere. La parola, prima usata in senso razioide, divenne pian piano parola incarnata, emozionata. Questa analisi, durata diversi anni, si è conclusa felicemente, con grandi trasformazioni, nella relazione analitica e nella vita affettiva e relazionale di questa paziente, e con il riconoscimento dei copioni internalizzati. Ma se non avessi superato inizialmente il tabù dei contatti corporei, lasciandomi guidare dall’intuito, non sarebbe esistita questa storia analitica ricca e significativa anche per me”
La relatrice sottolinea poi che ogni percorso terapeutico è diverso da quelli che l’hanno preceduto: sarebbe un errore pensare che ciò che ha funzionato con alcuni pazienti, vada bene con tutti. Ricorda il cammino fatto con Margherita, una paziente con grave depressione e precedenti psicoterapie o terapie psichiatriche interrotte e vari TS. Un percorso particolare, al confine tra psicoanalisi e arteterapia. Dopo un primo periodo di analisi vis a vis che sembrava funzionare abbastanza bene, ci fu il totale ritiro di Margherita dalla relazione. Immobile come un blocco di pietra, il viso chiuso, evitava lo sguardo, non diceva una parola, e questo per molte sedute, tanto che la stessa terapeuta si sentiva a rischio di pietrificazione. Di qui la proposta di cambiare setting e di passare all’espressione attraverso il disegno o l’acquerello. M. accettò di buon grado, anche perché il padre le aveva trasmesso il gusto di esprimersi in questa forma, che rappresentava per lei anche un’opportunità di trasgressione rispetto al mondo materno rigido e svalutante. Proprio queste considerazioni, legate alla specifica storia della paziente, avevano suggerito la proposta di quella particolare forma espressiva.
“Per oltre un anno disegnammo l’una a fianco dell’altra, lasciando un breve spazio di parola all’inizio della seduta e uno alla fine. Non volevo essere l’ ‘occhio scrutatore’, ma condividere l’esperienza. Poi questa forma espressiva divenne meno importante: M. portava sogni, c‘era la possibilità di giocare comunicandoci le rispettive immagini mentali attraverso le parole. Decidemmo così di riservare al disegno solo una seduta settimanale su due. Un anno dopo ci accorgemmo che l’espressione grafica aveva perso la sua funzione, addirittura era diventata d’impaccio: M. arrivava ora con il desiderio di raccontare – ed erano racconti significativi ed impregnati di emozioni – incominciava a fare collegamenti tra presente e passato e qualche progetto rivolto al futuro. Tornammo così al setting tradizionale, vis a vis. Dopo altri due anni si arrivò alla conclusione condivisa del percorso comune”.
Giovanna Bosco sottolinea infine, con cenni ad altri casi clinici, l’importanza di stare anche con il corpo nella relazione, ponendosi in ascolto delle proprie sensazioni corporee e lasciando che si trasformino in immagini. Il comunicarle subito oppure il tenerle per sé (lasciando che riemergano al momento opportuno trasformate), è questione di timing e di intuizione.
La relazione termina con questi pensieri e domande:
1) Poiché la comunicazione orale non è mai fatta di sole parole, ma è intrecciata con comunicazioni inconsce e non intenzionali che vanno oltre la parola, è impossibile che ci sia sempre sintonia perfetta tra i due registri comunicativi. Quando ci rendiamo conto di questa discrepanza, come la viviamo e come la trattiamo?
2) Tutti noi – psicoanalisti, gruppoanalisti, arteterapeuti – siamo sollecitati a cimentarci con la co-invenzione, con ogni paziente o gruppo, di un particolare ‘linguaggio incarnato’ che permetta di esprimere ed elaborare le esperienze ‘indicibili’, che crei ponti tra mondo della parola e mondo non verbale e che sia abbastanza flessibile da modificarsi nel corso del tempo.
Quali sono le vostre esperienze al riguardo?
Sintesi dell’intervento di Velia Ranci
L’indicibile – osserva Velia Ranci – richiama alla mente momenti della vita dei gruppi terapeutici in cui il terapeuta sente una trasformazione nella relazione tra i membri e con il terapeuta, come un’uscita da una situazione di stallo.
Si “sente” al momento. Si pensa, dopo.
A questo proposito espone due esempi:
Gruppo di bambini di 8/9 anni
Dopo l’ingresso di una bambina nuova disegnano, ognuno per conto proprio, mettono in scena la vita di classe, il maestro che dà le note. E’ uno scenario tipico dei giochi di latenza.
Ma ad un certo punto i bambini, a turno, correndo, scrivono una nota alla lavagna e completano il cerchio attorno alla stanza, in un vortice di risa e di eccitazione gioiosa. E’ qualcosa di inaspettato, che il terapeuta accoglie con sollievo come una nascita, la nascita del gruppo.
Non ci sono state parole, ma dopo alcuni incontri vorticosi, quando, ad un certo punto, il terapeuta sente un eccesso di eccitazione nel gruppo, viene riproposta la modalità psicodrammatica già utilizzata in precedenza. La proposta viene accettata. Mettendo in scena dei cani in attesa di un padrone che li riporti a casa, si possono così esprimere i desideri e le emozioni del gruppo. Il gruppo ha ripreso il cammino.
Gruppo di bambini di 6/7 anni
Dopo alcune sedute di esplorazione dello spazio, di attenzione ai suoni della stanza e dell’esterno, di rari scambi verbali, lo stridio di un pennarello sulla lavagna induce il terapeuta ad imitarne il suono, e il “verso” (la comunicazione non verbale del terapeuta che risuona con il gruppo) apre all’espressione verbale di un’emozione e di un bisogno: un bambino dice: “piange” e un altro: “ha fame”.
Anche in questo caso la sensazione è di avvio, di sblocco, di sollievo, di “sgravio”. Una nascita.
Velia Ranci osserva che nelle due situazioni da parte del terapeuta c’è un aderire, quasi un far parte del gruppo nel movimento (primo esempio) o nel suono (secondo caso), in uno stato un po’ onirico, di attesa partecipe.
Sottolinea inoltre che in questo stato mentale c’è una maggiore permeabilità del sé a quello che Kaes chiama il sé gruppale, che fa agire in risonanza, e dà l’avvio ad una elaborazione successiva da parte del gruppo.
Sintesi dell’intervento di Pierluigi Sommaruga
Sommaruga espone un’esperienza clinica con interessanti implicazioni. Un paziente al secondo colloquio racconta di aver avuto il giorno prima un attacco di panico e di esser caduto a terra. A questo punto si interrompe e comincia ad ansimare, si contrae e urla: “ dottore … il mio cuore … sto morendo … chiami un’ambulanza..”. Il terapeuta con una mano lo tocca sulla fronte, con l’altra gli prende il polso (tachicardia!) e con voce calma e autorevole gli dice che è il suo cervello che manda segnali di paura al suo cuore e che questo sta benissimo. Il ragazzo si calma e riprende a parlare.
Per dare un senso a questo episodio che potrebbe apparire un semplice effetto di suggestione, Sommaruga ci dice che è necessario riflettere sulla teoria polivagale, in questi ultimi anni rielaborata da Porges.
Il primo punto riguarda le modalità con cui viene gestita una situazione di stress ed è legato all’efficienza con cui opera il circuito difensivo di sopravvivenza, come lo chiama LeDoux . I dati raccolti dal cervello verranno elaborati dal sistema amigdaloideo e passati al sistema nervoso autonomo. Questo è composto da tre sistemi: il simpatico, eccitatorio, e il vago, regolatorio, a sua volta distinto in un sistema dorsale arcaico e in uno ventrale mielinizzato, che si sviluppa più tardi. Un elemento importante è il collegamento di quest’ultimo, via nucleo ambiguo, con tutti i nervi facciali che gestiscono le interazioni sociali ( mimica, modulazione del linguaggio, ecc.). Quindi il sistema vagale mielinizzato regola non solo il ritmo cardiaco ma anche le emozioni e i sistemi di comunicazione interpersonali. Il vago dorsale ha anch’esso un ruolo di regolazione degli stimoli eccitatori ma con modalità più rigide, per esempio attuando processi di immobilizzazione. Sommaruga sottolinea che questa è esattamente la modalità con cui il suo paziente tenta di gestire il trauma.
A causa di un difetto genetico della retina trasmesso per via materna il ragazzo di cui si parla sta perdendo gradualmente la vista e non riceve più adeguate informazioni sulle espressioni del volto di chi gli sta vicino e non è quasi più in grado di capire se chi gli sta di fronte è amichevole o ostile. Si determina quindi in lui un eterno stato di allarme che il suo sistema vagale non è più in grado di modulare. Il trauma è quindi continuo e ad esso egli reagisce con prevalenti reazioni di immobilizzazione.
Ma più pesante è il problema della notte, racconta Sommaruga: si sveglia di soprassalto al minimo rumore e gli sembra di vedere forme minacciose, forse mostruose che incombono su di lui e si blocca come paralizzato. Può quindi prendere sonno solo con la luce accesa e se in casa ci sono i genitori, altrimenti l’angoscia è insopportabile. La sua vita è ridotta ad andare al lavoro protetto di telefonista e poi rifugiarsi a casa in attesa della notte. Ma ora che la sua vista si riduce sempre più la sua vita si sta trasformando in un’eterna notte. “Forse è perché da piccolo i miei fratelli (molto più anziani di lui) mi facevano di notte dispetti per farmi paura” dice “ ma forse non c’entra niente”. Forse si trattava di un vero bullismo, ma ciò che lui ha provato allora resta indicibile, diventa cronaca raccontata con voce piatta e senza convinzione.
Ma altri traumi sono stati vissuti quando era bambino, un paio di paurosi incidenti stradali in cui lui era rimasto illeso ma i famigliari feriti, e in un'altra occasione egli era stato travolto da un autocarro riportando serie lesioni. Questi avvenimenti possono giustificare la comparsa in lui di un’angoscia ossessiva di morte improvvisa dei genitori, che l’ha obbligato fin da piccino ad effettuare ogni sera rituali ossessivi per evitare che questa morte avvenisse. “ E’ successo così” dice con voce piatta “Ma forse non c’entra con le mie paure”. Ma anche qui il ricordo è mera cronaca, priva di ogni emozione.
Sommaruga narra della fatica di gestire una relazione in cui le consuete regole di rapporto interpersonale sono stravolte, in cui tutto è subordinato alla necessità di sopravvivere e ogni possibile legame affettivo è visto come un’esposizione pericolosa a un mondo che potrebbe essere ostile. Ha dovuto quindi uscire da ogni pretesa di neutralità per cercare di identificarsi con il paziente parlando del suo corpo, di come esso può apparire agli altri e di come tutelarlo in un mondo così ambiguo e incontrollabile. E così sono nate nuove idee su come gestirlo. Il ragazzo ha un po’ per volta intravista la possibilità di poter vivere nell’oscurità sviluppando nuove abilità relazionali ma soprattutto conquistando, come gli altri ciechi, la possibilità di usare altre vie sensoriali per poter vivere in un mondo non più completamente sconosciuto e potenzialmente mortale. E questo mondo ormai domestico condividerlo con qualcun altro, una donna.
Oggi la terapia è terminata e il paziente vive con la sua ragazza in un appartamento che si è comperato, ben attrezzato di domotica. “Dottore” è stato il suo saluto finale “So che sarò sempre un po’ ossessivo, ma ora vivo bene”.
La discussione nel seminario ed i contributi scritti nati dal seminario
A queste comunicazioni è seguita la discussione e la circolazione tra i partecipanti al seminario di pensieri, sensazioni, emozioni, cui hanno concorso tutti, disposti in un ampio circolo: sia coloro che hanno preso la parola, sia coloro che hanno contribuito al seminario con la loro presenza, la qualità del loro ‘ascolto’, il loro modo di esser-ci, gli sguardi e tutte le comunicazioni ‘oltre la parola’ che sono risuonate nel gruppo.
Sono stati messi in comune nuovi casi clinici ed esperienze personali, in un continuo rimando, nel dialogo tra i partecipanti, tra il racconto delle esperienze e l’emergere di nuovi elementi di riflessione sui casi presentati e sul tema del seminario. Ci si è chiesti cosa accade quando il terapeuta si mette in gioco anche con il suo corpo: il primo pensiero che si è affacciato è stato quello che, rinunciando alla protezione di un setting più rigido e tradizionale, siamo più esposti al rischio di comunicare cose “inadeguate”; è poi emersa la considerazione che c’è un’analoga possibilità di sbagliare sia quando ricorriamo a delle interpretazioni sia quando lasciamo intenzionalmente che siano il nostro corpo e il nostro viso a comunicare comprensione, oppure stupore, oppure assumiamo un’espressione interrogativa, e così via; e infine si è fatto riferimento a esperienze e casi clinici in cui proprio una nostra espressione non verbale non intenzionale, nata in un momento di sospensione del pensiero – o sfuggita al controllo di un pensiero che l’avrebbe considerata “inadeguata”- ha portato ad un incontro ad un livello più profondo con l’Altro.
Nella presentazione dei casi, parte integrante della comunicazione è stata la ‘temperatura’ e la modulazione della voce che, nella narrazione, accompagnava l’avvicendarsi di vissuti diversi, oppure il ritmo battuto con i piedi per terra (a riecheggiare un analogo suono e movimento ritmico da parte di un paziente fino a quel momento ipercontrollato e iperintellettualizzato), o ancora il ritmo sotterraneo, nascosto tra le pieghe del discorso, che ha potuto essere riconosciuto e rispecchiato, ricollegando versante mentale e versante corporeo. Tutto questo si è intrecciato con considerazioni di carattere teorico-clinico.
Non avendo a disposizione una registrazione completa della discussione, ma potendo attingere agli scritti che alcuni partecipanti hanno inviato subito dopo l’evento – per non disperdere le comunicazioni, i pensieri e le riflessioni nate nel seminario e successivamente dal seminario – abbiamo, sulla base di questi scritti, individuato alcuni temi ricorrenti:
1. Un primo tema riguarda la conoscenza che proviene dal corpo.
A questo proposito Christian Colautti mette in rapporto il concetto di intuizione, messo in luce nella relazione introduttiva da Giovanna Bosco, con quanto esposto da Velia Ranci a proposito di permeabilità. Fa un collegamento con l’ ‘intuizione esperta’, una sorta di comportamento appreso, divenuto implicito ed automatico, come nel caso del pompiere esperto che intuisce cosa fare in una situazione di emergenza. Ricorda poi la lettura della parola ‘intuere’ che proponeva Diego Napolitani, come “capacità di entrare nelle cose dell’altro” con immediatezza, senza troppa mediazione cognitiva. Collega a questo pensiero quanto esposto da Velia Ranci a proposito di ‘permeabilità’ dell’analista, considerandola una condizione che consente di stabilire un contatto con il paziente più diretto di ciò che il ragionamento, la coscienza e l’intenzionalità porterebbero a fare, “per cogliere con il corpo e dal corpo ciò che accade tra analista e paziente, oltre e al di là dei pensieri e delle parole”
A proposito del corpo e dei suoi ‘saperi’, durante il seminario era stato anche espresso il pensiero che il nostro corpo entra in risonanza con l’altro insieme a tutto ciò che siamo, compresi i nostri saperi e le nostre teorie che, anche se in quel momento ce ne dimentichiamo, sono già entrati nel corpo attraverso la via dell’inconscio.
Sempre nell’ambito di questo filone di riflessioni, Luciana Monzi, ripensando al caso presentato da Pierluigi Sommaruga, ritiene che siano entrati in gioco diversi aspetti: la conoscenza di alcune funzioni del sistema nervoso e la relativa consapevolezza di quanto stava accadendo sul piano neurobiologico; la profonda empatia, la grande umanità e il desiderio di aiutare il paziente in un momento di grave sofferenza, che l’ha indotto ad avvicinarsi a lui ed a entrare in contatto con il suo corpo come un “padre amorevole”; ed inoltre l’emersione dal profondo dell’analista dell’immagine o archetipo del guaritore che impone la mano sulla testa del malato.
Chiara Marazzini, che si definisce “uno degli orecchi silenti” del seminario, si chiede, a proposito di empatia e di risonanza, e di apparati come i neuroni specchio, se sia davvero possibile “sentire” ciò che sente l’altro, la “sua felicità” il “suo dolore” La sua risposta è che nel rispecchiamento i nostri neuroni specchio ci fanno ri-sentire ciò che “noi” abbiamo esperito come felicità oppure come dolore. “Non il suo, ma il nostro, attivato dal suo”. Afferma poi che la permeabilità umana è cosa positiva, ma non va confusa con la fusione: “essere all’unisono, sentire ognuno la stessa cosa, non equivale ad essere uguali”. Sottolinea inoltre le proprietà trasformative dell’incontro terapeutico, nel momento in cui esperiamo cose indicibili e ri-conosciamo l’altro in noi pur essendo diversi.
2. un altro tema che ha attraversato la discussione e che ritorna nei successivi scritti dei partecipanti riguarda il ritmo e la voce (sia dal punto di vista della prosodia della voce, sia dal punto di vista melodico).
La riflessione ha preso l’avvio da un caso portato durante la discussione da Vera De Luca, quello di M., un ragazzino dodicenne, arrivato in terapia per la sua rabbia incontrollabile connessa con un senso di sé profondamente svalutato. M. si presenta saldamente racchiuso nel suo giubbottino con le cerniere ben serrate. Intelligente e dotato di molte conoscenze scientifiche, parla senza sosta, tende ad avvolgere la terapeuta ed a costringerla in mondi iperintellettualizzati. Finchè “un giorno si siede davanti a me lasciando la testa all’indietro, sospira profondamente, come se potesse abbandonare il peso del suo corpo. Comincio a cogliere la possibilità di una comunicazione più autentica che non sia l’esibizione delle sue conoscenze”. I suoi piedi, muovendosi, cominciano a parlare dei suoi stati d’animo e di nuove esperienze che ha cominciato a fare a scuola. “Il mio sguardo, il mio corpo, i miei piedi, la mia voce, le mie parole sono con lui, con attenzione, delicatezza, curiosità per l’apertura della nostra relazione, che è nascente. Arriva il ritmo battuto con i piedi per terra e con le mani sul tavolo, a significare i ritmo delle nostre sedute e, con le pause, creare lo spazio dell’attesa” Quell’attesa che non è facile tollerare, che comporta anche l’angoscia dell’abbandono, della perdita.
Scrive Teresa Mutalipassi che è importante sentire il ritmo come fondamento vitale. Come lo è nell’esperienza prenatale fatta di suoni e ritmi, come il battito del cuore, e successivamente nell’alternarsi dei ritmi di sonno e veglia, fame e sazietà, presenza e assenza. A proposito del caso esposto da Vera De Luca osserva che si potrebbe anche considerare il battito dei piedi come qualcosa di “stonato” o “aggressivo”, ma che, se ci si fermasse a questo, nessun contatto sarebbe possibile. “il ritmo di quei piedi fa pensare anche ai ‘primi passi’ che ci portano a camminare quando i piedi cominciano a prendere un ritmo”. Accogliendo quel ritmo “potremo forse avere una via d’accesso alle emozioni ‘indicibili’ del ragazzino, (…) accompagnare quei passi incerti e rabbiosi verso una vera camminata”. Segnala inoltre il valore ‘strutturante’ del ritmo, sia per quanto riguarda le funzioni vitali, sia per quanto riguarda le relazioni primarie ed lo sviluppo del senso di sé.
Altri hanno osservato, durante il seminario, che il ritmo è misura, una misura senza la quale nessuna creazione melodica sarebbe possibile. Il paziente che batte i piedi ritmicamente sta forse anche cercando, attraverso il corpo, una misura, che gli consenta, nella relazione con l’altro, di esplorare le possibilità espressive ed inventive.
Teresa Mutalipassi ha poi ricordato una propria lontana esperienza in cui il canto ha avuto inizialmente soprattutto una funzione lenitiva, di conforto, anzitutto per lei stessa, quando – era allora insegnante di sostegno – dovette occuparsi per alcune ore alla settimana nell’arco di sette mesi di un ragazzo con una grave forma di autismo. Lo spazio vuoto della grande palestra in cui si trovavano riecheggiava quello che definisce “lo spazio vuoto della relazione”. Il tempo insieme era “un tempo di silenzio, o di rumore dei suoi gridi e dei suoi movimenti spesso scomposti e talvolta lesivi di sé e di ciò che lo circondava”. Iniziò così a cantare e questo consentì ad entrambi di stare insieme dentro la musica della voce, di ‘sentire’ qualcosa insieme. Ricorda come esperienza emozionante, di riconoscimento della presenza dell’altro, il momento in cui, attraverso i suoni senza parole ripetuti a bassa voce dal ragazzino, affiorò una traccia dei ritornelli tante volte ascoltati, e si sofferma sulla sensazione di calore che, passando attraverso la musica della voce che culla, spezza il silenzio angosciante.
Una sensazione che ritorna nelle parole di Chiara Marazzini dove, a proposito di questo racconto, scrive che durante il seminario questa immagine, rimandando alla “piacevolezza delle cure madre-bambino”, ha riscaldato il gruppo “che era alla ricerca di un’immagine così semplice e completa”.
3. Gli “oggetti incarnati”: rileggendo questi pensieri, viene alla mente che forse il bisogno di trovare un’immagine che rievocasse esperienze primigenie di piacere e di calore ha a che fare anche con il fatto che durante il Seminario il gruppo si è soffermato a lungo anche su esperienze cliniche particolarmente impegnative, da cui emergevano non solo relazioni ed esperienze incarnate, indicibili, ma anche ‘oggetti incarnati’: sensazioni fisiche ed immagini di insetti entro il corpo, oppure che camminano sulla pelle.
Teresa Mutalipassi scrive che in questi casi la risonanza è potente, e passa attraverso sensazioni fisiche spesso accompagnate da un senso di ribrezzo ed orrore, ma anche da empatia da parte di chi ascolta. E collega quegli insetti che percorrono il corpo a qualcosa di indicibile che resta nelle sensazioni corporee. “I pensieri nella loro indicibilità restano sotto e sulla pelle come insetti che circolano. Questo ci rimanda all’importanza dell’attenzione al corpo, ai suoi umori e alle sue posture, quando si parla ma a maggior ragione quando si fa silenzio o sembra impossibile dire qualcosa”
Numerosi sono infine i temi rispetti ai quali sono emerse proposte e desideri di approfondimento, accompagnati da riflessioni sollecitate dalla partecipazione al seminario:
– su cosa si fonda il riconoscimento dell’esistenza di un gruppo? “Sentire che c’è un gruppo è il presupposto per poter comunicare con il gruppo. Ma questa conoscenza non coinvolge solo la ragione o l’affettività. Il gruppo si vede, si ascolta (il fondo sonoro), si odora. Anche di questo è fatto il riconoscimento della presenza dell’oggetto gruppo nella nostra mente. E’ elaborabile?” (Velia Ranci)
– intuizione e permeabilità
– self disclosure “Ho riflettuto sul fatto che una delle possibilità che abbiamo a disposizione come analisti per dialogare sul non verbale (mi si passi l’ossimoro) è quella di aprire con i dovuti modi, tempi e attenzioni la nostra emotività a quella del paziente, anche per facilitarne una reciprocità” (Christian Colautti)
– il processo attraverso cui emergono, nella sfera non verbale, le immagini.
– la questione del canale sensoriale privilegiato per l’accesso ad esperienze “non collegate alla parola”
– i recenti sviluppi nel campo delle neuroscienze, dalla teoria polivagale a quella riguardante i neuroni specchio. “Trovo affascinante scoprire dei punti di contatto tra certi meccanismi di funzionamento del sistema nervoso e concetti quali empatia, risonanza, identificazione, che appartengono storicamente allo studio delle relazioni. Si può ripensare così la centralità del verbale nella relazione, potendo contare su altri piani e altri punti di contatto che possono permettere di stare con la persona e non “oltrepassarla” (Teresa Mutalipassi).
Ci si interroga inoltre su:
-la possibilità/necessità di elaborare verbalmente le esperienze trasformative vissute a livello non verbale, introducendo così uno degli aspetti nodali e controversi che attraversano il mondo delle artiterapie e psicoterapie a mediazione artistica e corporea, e che meritano un approfondimento anche in campo psicoanalitico e gruppoanalitico.
– le forme attraverso cui affinare la nostra “sensitività” rispetto a tutto ciò che non passa dalle parole, come ad esempio dei laboratori esperienziali incentrati sull’esperienza corporea.
Uno sguardo al futuro
Tutto ciò testimonia di un percorso in cui non si è voluto prematuramente “chiudere” il discorso, ma si è soprattutto cercato di “aprire” a nuove “curiosità” e nuovi punti di vista, talvolta concordanti, talvolta diversi tra loro. Come diversi sono i colori in cui si scompone la luce del sole passando per le gocce d’acqua sospese dopo un temporale; o le facce di un prisma che, dopo aver mostrato l’indaco, il giallo, il blu e gli altri differenti colori che compongono un fascio di luce bianca, consentono anche di ricomporli dando vita a nuova chiarità.
E’ nostra intenzione proseguire la riflessione iniziata con il seminario del 12 marzo. Pubblichiamo questo resoconto anche per dare la possibilità a chi non avesse potuto partecipare allora, pur nutrendo interesse per gli argomenti trattati, di potersi inserire nel percorso di ricerca, partecipando alle prossime iniziative che avranno luogo dopo la pausa estiva.
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