‘L’incontro con la diversita’: introduzione al workshop del sett. 2019 e discussione di gruppo
INTRODUZIONE
di Giovanna Bosco
Poiché si sostiene spesso che le ragioni della sicurezza rendono necessaria l’esclusione della diversità, vorrei iniziare proponendovi un pensiero sviluppato già anni fa da Diego Napolitani, fondatore della Società Gruppoanalitica Italiana.
Nel saggio “Identità, alterità, culture” (pubblicato sulla Rivista on-line Comprendere, n. 19, 2009) segnalava che sicuro “viene dal latino se-curum dove il se- indica privazione e cura significa ‘interessamento solerte e premuroso per un oggetto, che impegna sia il nostro animo che la nostra attività’ (Vocabolario Treccani)”. Chi vuol essere totalmente al sicuro vuole dunque essere esonerato da ogni interessamento per l’Altro. “La tutela della propria identità, non solo individuale ma anche collettiva – aggiungeva D. Napolitani – può arrivare al punto che la semplice apparizione del ‘diverso’ provochi una reazione d’allarme che scatena una violenza distruttiva (…)”. Il diverso va così “eliminato” perché il suo stesso esistere è sentito come minaccia per la propria visione del mondo, assunta come irriducibile verità.
Solo quando la diversità mobilita interesse e stupore, solo quando il senso di estraneità è sentito come possibilità di superare i confini del proprio mondo abituale e, attraverso l’Altro, di conoscenza più profonda di noi stessi, si apre uno spazio di Terzietà. Una cosa non facile né stabile, perché siamo continuamente esposti al richiamo identitario. Ma se la salvaguardia della propria identità non concede spazi all’incontro con l’Altro, non tollera aperture – conclude Diego Napolitani – non si può dire di aver vissuto davvero.
Abbiamo già iniziato a trattare il tema del rapporto con la diversità in un precedente workshop. L’attenzione si era allora concentrata sul rapporto con la diversità rappresentata da intere categorie, come i migranti, perché pesantissimo era il clima di paura, odio, discriminazione violenta nei loro confronti. Non che oggi quel clima sia sparito, ma non c’è più la massiccia legittimazione istituzionale di tutto ciò.
Oggi vorremmo collocare queste vicende relazionali nel contesto più generale del rapporto con l’Altro, che è una questione fondante nel percorso di vita di tutti noi. E questo non per accantonare la questione del rapporto con i migranti, ma per darle maggiore dignità e spessore. Certo, quando ci occupiamo dei vissuti di allarme nei confronti di intere categorie di persone, percepite come diverse per motivi etnici, di provenienza geografica, abilità (o dis-abilità) e così via, dobbiamo fare i conti anche con questioni specifiche, proprie delle relazioni tra grandi gruppi, come la “de-individualizzazione”: un fenomeno psichico che porta a cancellare le differenze individuali tra i tanti che appartengono al gruppo percepito come ‘diverso’, attribuendo a tutti certe caratteristiche o comportamenti sentiti come pericolosi : “gli ebrei sono tutti….” “gli arabi si comportano tutti…”, ecc. Gli individui che appartengono a quella categoria divengono così un tutto indistinto, fonte di minaccia per la nostra ‘sicurezza’.
Mi sono resa conto un anno fa che in molti contesti professionali quando si invitavano i colleghi a condividere una riflessione sui linguaggi d’odio, sui giudizi sprezzanti nei confronti di chi cercava di mantenere vivo il senso di umanità, molti tendevano a ritrarsi: “è una questione politica… non ci riguarda a livello professionale… uno psicoterapeuta, oppure un educatore o un insegnante nell’esercizio delle sue funzioni non deve occuparsi di queste cose…” Eppure se un nostro paziente ci porta i suoi vissuti persecutori rispetto al vicino di casa, che vive in modo patologico come una minaccia alla sua esistenza, noi ce ne occupiamo, cerchiamo di capirne il senso, non facciamo finta di nulla. Così un insegnante o un educatore quando si rende conto che un bambino ha comportamenti prevaricatori nei confronti degli altri se ne occupa, cerca di capire il perché. E dunque anche i vissuti di forte allarme e i comportamenti discriminatori rispetto a migranti, rom, malati di mente, disabili ci riguardano.
Pertanto é proprio per inserire queste questioni a pieno titolo in una riflessione su qualcosa che è fondante per la vita di tutti noi, che vorrei offrire degli spunti per sentire e pensare insieme cosa ci accade nell’incontro con l’Altro.
Ogni persona che incontriamo è diversa da noi. “Altro” è anche chi è prossimo a noi: fratello o sorella, vicino di casa, collega. Non solo il migrante, il malato di mente, il diversamente abile.
Si è detto che la relazione con l’Altro è fondante per la nostra vita, ma è anche qualcosa di complicato, non è sempre facile. Anche nella vita di coppia, quando si lacera il velo dell’innamoramento, si scopre che, anche se ci sono alcune o tante cose che condividiamo, di fronte a noi c’è un Altro, diverso da noi, e troviamo strane (quindi straniere) alcune cose che per l’altro sono ovvie, scontate, naturali, e viceversa. Il rapporto funziona se i protagonisti sono attratti anche dalle loro specifiche differenze. Ovviamente qui non mi riferisco all’altro “immaginario”, puro e semplice strumento per soddisfare i propri bisogni, o su cui proiettare aspetti di noi che ci disturba riconoscere, ma all’Altro che riconosciamo proprio in quanto diverso da noi.
Certo, prima di arrivare allo spazio creativo della Terzietà, a quel Noi che è qualcosa di diverso dall’Io e Tu, dobbiamo riconoscere che la diversità spesso disturba. Non c’è niente di scandaloso in questo. Ci disturba il vicino di casa che tiene il televisore troppo alto, il collega che tiene per sé delle informazioni che riteniamo essenziali per poter lavorare bene, gli extracomunitari che si ritrovano a sera all’angolo della via a bere birra e poi lasciano le bottiglie per terra, personalmente mi disturbano molto quelli che telefonano continuamente dai Call center per farmi “risparmiare” sulla luce e il gas. Se lavoriamo in un Centro per disabili, ci disturbano i genitori del bambino autistico che non sembrano dare valore al fatto che il loro figlio è felice quando trascorre un pomeriggio nel Centro a fare cose che lo interessano e invece protestano perché non fa i progressi sul piano prestazionale che loro si aspettano.
Il punto è: come usiamo queste sensazioni di disturbo? Come le trasformiamo in un’opportunità di conoscenza dell’Altro e, attraverso l’Altro, di noi stessi?
La volta scorsa si era cominciato a distinguere tra paure legate a pericoli reali, che rappresentano importanti segnali di allarme che ci permettono di evitare i pericoli, e paure o angosce che più che con l’Altro hanno a che fare con la nostra storia, oppure sono socialmente indotte. Ma anche queste ultime non sono da buttare via, si tratta se mai di capire da dove vengono, che senso hanno.
Vorrei ora mostravi un’immagine, che forse può contribuire a far emergere i nostri vissuti rispetto all’Altro:
LA DISCUSSIONE DI GRUPPO
(a cura di Vera De Luca e Giovanna Bosco)
All’inizio emerge una domanda sugli obiettivi dell’incontro di gruppo. Si sottolinea che come esseri umani tendiamo a conoscere, e che per poter conoscere è necessario avere fiducia. Si osserva inoltre che le motivazioni che hanno spinto a partecipare al workshop possono essere diverse, dunque possiamo riconoscere anche tra noi quella ‘diversità’ che può incutere disagio.
Come si può trasformare il disagio suscitato dalla scoperta della diversità?
Nasce un’immagine: vuotare il sacco. Vuotare il sacco per vedere cosa c’è dentro, anche se è doloroso.
Emerge un senso di allarme e compare una seconda immagine: quella dello tsunami. Qualcuno osserva che gli tsunami di paura non permettono né la fiducia né la conoscenza. Per questo il potere ha sempre usato la paura come strumento di dominio.
Compare poi il tema del ‘Diverso dentro di sé’: ognuno di noi ha dentro di sé parti differenti. Quando ‘non ci riconosciamo’ è perché dentro di noi emerge un ‘diverso’ che ci è sconosciuto. Si riprende il tema dell’importanza della conoscenza, quale messa in comune di cose diverse in noi e negli altri e aiuto nel riconoscerle.
Alcune comunicazioni hanno come elemento comune la difficoltà a costruire il Noi, soprattutto nel rapporto con persone che non ci offrono appigli per entrare in relazione. L’impossibilità di provare empatia può suscitare angoscia in chi lavora nel campo delle relazioni d’aiuto. Ciò che ci permette di sentirci in pace è l’esser-ci con l’altro, dimenticando le nostre aspettative.
Ci sono nel gruppo oscillazioni tra aperture e chiusure:
Il vissuto di solitudine. Se si parte sempre e solo da se stessi, si è sempre soli. Ma noi siamo fatti per essere in relazione, e ciò che ci può aiutare, oltre alla fiducia, e l’accettare che non si può conoscere tutto.
L’essere in divenire. Ognuno di noi si muove tra due polarità diverse: la tendenza identitaria – che porta a replicare sempre uguali modalità relazionali interiorizzate – e l’istanza creativa, che permette di riorganizzare le esperienze fatte, facendo i conti con aspetti identificatori interiorizzati che sono d’ostacolo all’incontro con l’Altro (come il desiderio di fuga) e tenendo con sé le parti più funzionali.
Nella parte finale si affaccia l’immagine dell’incontro con lo sguardo dell’Altro (che va oltre la risposta al bisogno) e permette il riconoscimento reciproco. Anche negli aspetti, nostri e dell’Altro, di fragilità. Questo è sentito come un, sia pur momentaneo, approdo.
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