Il lavoro nelle Istituzioni – contributo di F. Merlini al Seminario del febbraio 2018
Pubblichiamo qui di seguito il contributo di Franco Merlini al Seminario organizzato dall'Associazione E-spèira il 23 febbraio 2018, dal titolo IL LAVORO NELLE ISTITUZIONI: PARLIAMONE
Introduzione
Vi propongo una domanda: “Il bravo operatore è colui che si è ben formato, o colui che è abbastanza guarito?”
Sappiamo che curare e prendersi cura di sé, non è mai un’operazione dissociabile, soprattutto nel nostro mestiere (questa scelta infatti permette a qualcuno di continuare a curarsi e a qualcuno di non farlo mai). Non possiamo dimenticare che il nostro è un mestiere fondato sulla complessità e sulla soggettività, che per definizione non comportano tecniche d’intervento certe e ripetibili; e questo già introduce nel nostro lavoro di tutti i giorni una dimensione di incertezza.
Nella pratica clinica, la differenza la fa, la diversa capacità con cui l’operatore riesce a stare col paziente senza manipolare la relazione: espediente universale per non sostare con l’altro sull’incerto. Tant’è che la formazione, nel nostro ambito, dovrebbe aiutare a tollerare i dubbi piuttosto che illudere di eliminarli.
Che cosa distingue un operatore con una certa esperienza da un giovane che ha appena incominciato questo lavoro? Un sapere in più, l’acquisizione di un maggior numero di tecniche? Sì, forse, ma soprattutto direi la sua maggior resistenza a sopportare di non sapere.
A proposito di certi approcci teoretici nell’area della salute mentale, dice Pier Francesco Galli: “Certe verità dottrinali sono spesso una maniglia del tram attaccata al nulla: ritieni che sia il tuo sostegno e ti accorgi che la tieni sollevata tu” (P.F.Galli “Psicoanalisi in trincea” F. Angeli 2012)
La pratica clinica, lo sostiene una certa psichiatria di indirizzo fenomenologico, non meno che la psicoanalisi e la psicologia umanistica, si “appoggia”, in ultima analisi, su dimensioni etico-esistenziali dell’esperienza umana e in fondo ciò che la identifica come relazione d’aiuto è il particolare e specifico setting (ruoli compresi) nel quale avviene l’incontro col paziente.
In psicoanalisi, ad esempio, con la rinuncia a certe pretese di verità sull’inconscio del paziente, con il superamento del mito dell’analista-specchio, con la revisione di talune “archeologie” e “idrauliche”, e soprattutto dovendoci occupare di pazienti gravi, si è già di fatto introdotto nella pratica clinica un nuovo e più coerente paradigma etico-esistenziale che concepisce la cura come un’interazione continua e reciproca tra analista e paziente, in una logica in cui osservatore e osservato si influenzano reciprocamente.
Veniamo alle nostre istituzioni
“La risposta è la disgrazia della domanda” …, recita un simpatico poster appeso sul muro dello studio di un caro collega al CPS! E’ un frase di un certo Maurice Blanchot, filosofo e critico letterario, nato nel 1907 e morto nel 2003. E già questa affermazione farebbe preoccupare tanti nostri amministratori: ma come può essere che una risposta sia la disgrazia di una domanda?
Nel contesto dei Servizi e nell’area della Salute Mentale, forse Wilfred Bion ci può aiutare. L’affermazione “Senza memoria e senza desiderio” è piuttosto nota; Bion ci consiglia di ascoltare il paziente nella maniera più libera possibile da condizionamenti interni ed esterni. Non è soltanto una indicazione per noi psicoanalisti, essa propone un principio che può ritenersi valido per qualsiasi relazione di cura che abbia a che fare con la soggettività dell’altro. In particolare l’operatore viene sollecitato a non trovarsi con delle “intenzioni” a priori nei confronti del paziente. Addirittura, dice Bion, occorrerebbe riuscire a dimenticare ogni altra informazione relativa al paziente, biografia, storia clinica, diagnosi ecc.
Anche se è un invito a scegliere di “accecarci”, questo non vuol dire affatto “non vedere” il paziente, anzi! tutt’altro come ben sappiamo. Semplicemente, un certo “materiale”, non dovrebbe servire all’operatore per orientarsi nella relazione col paziente e per trovare spiegazioni al suo comportamento. Questo cosa significa? Cercare di cogliere “l’attimo presente” nel qui e ora della relazione e cercare di proporsi come contenitore della mente del paziente.
È ovvio che bisogna quindi saper tollerare l’incertezza, il vuoto, l’insaturo; Bion sa quanto è difficile raggiungere questa posizione, ma sa anche quanto le nostre menti sovraccariche di dati e condizionate da essi, distorcono ciò che si osserva.
Si tratta quindi di imparare a sopportare nel rapporto col paziente una determinata “assenza” (di giudizio, di conoscenza, di risposte), che però, in quanto espressione di autentico interesse verso l’altro, risulta essere il fondamento di ciò che possiamo chiamare autenticamente “presenza”. Bion a questo proposito fa riferimento a una sorta di “capacità negativa” come presupposto a questo tipo di accoglimento. Il termine non a caso viene ripreso dal poeta John Keats che cogliendo nel dramma Shakespiriano, l’elemento distintivo degli uomini “saggi e illuminati di stare nella incertezza della vita, nei misteri, nei dubbi, senza cercare fatti e ragioni”, ne decreta e ne esalta la rara capacità.
Questa prerogativa sembra dunque consentire di tollerare il non-sapere permettendo così di rivolgere la nostra attenzione ad aspetti dell’incontro col paziente che altrimenti verrebbero trascurati. E infatti, diamo più attenzione a ciò che viene taciuto o liquidato troppo in fretta piuttosto che a ciò che viene raccontato con chiarezza e ordinatamente.
Accogliere la mancanza
Medard Boss, psichiatra e psicoanalista di Zurigo, vissuto ai tempi di Freud, raccomandava di iniziare l’analisi con questa consegna al paziente: “Si manifesti!”.
Per Freud, addirittura, l’analisi cominciava con l’ingresso del paziente in casa propria, cioè ancora prima di entrare in studio. Ai miei studenti, oggi, mi capita di far loro osservare che la terapia inizia dal cellulare con cui talvolta il paziente chiama il terapeuta …!
Qual è lo scopo di tali raccomandazioni? Ovviamente invitare l’operatore ad osservare fin dall’inizio come il paziente si pone, cosa dice spontaneamente e per prima cosa, e vedere cosa fa, quasi ancor prima di entrare in relazione con noi: insomma che si manifesti come vuole, come può. Non è eccesso di buonismo ma un modo molto diretto e facile per far sentire al paziente che è lui che viene da noi ed è lui che chiede qualcosa e ne è responsabile! Più elegantemente potrei dire che in tal modo si cerca di affermare il principio dell'asimmetria della relazione e la differenza dei ruoli.
Già da subito la nostra accoglienza risulterà quindi un po’ scomoda, inusuale ma anche il paziente coglierà la nostra massima disponibilità ad accettarlo così com’è. Lui grazie al nostro invito a "semplicemente essere" verrà stimolato a prendersi una piccola quota di responsabilità, e forse ad esporsi. Non ci dovrebbe interessare di raccogliere un’anamnesi o inquadrare immediatamente il paziente in una diagnosi, ci dovrebbe interessare di far emergere da subito la sua soggettività, meglio, la sua mancanza.
Chi si rivolge ai Servizi, oggi, non pensa più che la sua sofferenza, i suoi sintomi, siano causati da qualcosa che non va nel cervello, le nuove sofferenze psichiche, nel vissuto degli utenti hanno origine (e qui si vede quanto la cultura dell’omologazione rinforzi certe difese) da condizioni socio-economiche disagiate e da eventi relazionali stressanti: è come se dicessero "so che c’è qualche cosa che non va, ma non è dentro…è fuori!” Ovviamente sappiamo che non è così ma l’utente quando arriva, supponiamo per un disturbo d'ansia, per un disturbo ossessivo compulsivo, una depressione, è perché ciò gli causa una sorta di perdita di performance sociale che deve essere subito riacquisita. Verrà da noi come potrebbe andare da un personal trainer aspettandosi che in breve tempo lo si riporterà alla forma mentale-sociale desiderata, senza scombinarlo troppo.
Oggi la psicoterapia, ha decisamente superato quell’immaginario che la relegava in un ambito di utenza borghese e un po’chic quali erano le pazienti del primo novecento che si rivolgevano a Freud, Bleur, Jung ecc., ma contemporaneamente rischia di diventare un po’ un oggetto di consumo a cui ricorrere in caso di "necessità".
Per certi utenti che si rivolgono ai Servizi di salute mentale (pazienti borderline, narcisisti, autistici ad alto funzionamento …che sono poi quasi la maggioranza dei pazienti) la terapia psicologica rientra in una sorta di prestazione a cui si ha diritto, è pretesa più che domandata. Pretesa, che qualche volta è inconsapevolmente rinforzata da un invio psichiatrico di tipo procedurale (la classica prescrizione farmacologica + ciclo di sedute di terapia cognitiva-comportamentale).
Il diritto alla psicoterapia è anche poi rinforzato da una politica sanitaria che considera l’utente, prima che un ammalato, uno stakeholder, cioè un “portatore di interesse”, quindi un soggetto politico che può esigere quanto gli spetta.
Il malato psichiatrico e la risposta delle istituzioni
Il malato psichico, soprattutto se psichiatrico, oggi, può far conto su una cultura della tolleranza che prima di Basaglia era certamente ignorata, in compenso oggi è portatore di un ideale di conformismo e di desiderio di normalità, immaginata come salute, spesso altrettanto patogene.
Il vantaggio è fuori discussione e il concetto di disturbo psichico sembra essersi liberato dai suoi antagonisti naturali quali malattia, patologia, afflizione, ma forse anche come sostiene Ivan Illich “la ricerca della salute è diventata essa stessa un fattore patogeno prevalente [nella eziopatogenesi della malattia]”. (“Nemesi medica” Illich 1976).
Attenzione, non serve credere di essere “Napoleone” per rivolgersi ai Servizi, oggi, basta sentirsi “non come gli altri”; i giovani ovviamente sono i più esposti: i disturbi di personalità narcisistici, i disturbi alimentari, le nuove addiction, le dismorfofobie ma anche il salutismo, le diete esasperate, la palestra e la cura dell’immagine, lo testimoniano.
Se per per gli psicoanalisti il cosiddetto “mondo pulsionale” ha sempre dovuto fare i conti con il “disagio della civiltà”, da cui i pazienti di Freud si sentivano schiacciati e pagavano il conflitto con lo sviluppo di sintomi isterici; oggi sembra quasi che la dinamica si sia rovesciata: il soggetto sembra volersi liberare del proprio mondo interno per adattarsi meglio al mondo esterno, il prezzo che paga è il disturbo di personalità.
La psicopatologia (lo sappiamo) è per noi terapeuti, sostanzialmente “mancanza di soggettivazione”: ahimè, osservo che la cura proposta dai Servizi è spesso una risposta altrettanto desoggettivante. Nel senso che, l’istituzione, il sistema, oggi non risponde più in maniera custodialistica, come si diceva allora, ma per certi aspetti è ancora una risposta alienante perché risponde al sintomo ma non alla sofferenza (alla soggettività ferita): il sintomo quindi è certamente curato ma non interrogato.
In genere i Servizi rispondono prontamente ai bisogni dei pazienti, ai loro sintomi, alle loro necessità sociali; come si dice in gergo, vengono “presi in carico” subito ma, sintomi, bisogni, domande non vengono interrogate: in genere si dà ciò che viene chiesto.
In una logica di causalistica, questo è quello che “vogliono” i pazienti (e le loro famiglie) e questo è ciò che il "sistema" vuole.
Molti degli sforzi terapeutici che vengono profusi in psichiatria, ad esempio, vanno nella direzione di far accettare la diagnosi ma non la malattia, che è tutt’altra cosa!
Quest’ultima ovviamente ha a che fare con il desiderio, ma per l’appunto, questo è ingombrante e spesso disfunzionante per il Servizio. Prendersene cura, “aprire” sulla soggettività, sul desiderio dell’altro, mettere in gioco il proprio, è un peso talvolta troppo faticoso da sopportare, manca il tempo per farlo, non c’è il personale, e poi non è nemmeno remunerativo dal punto di vista dei processi di aziendalizzazione nel sistema Sanità.
Qualche volta il paziente, a modo suo, inconsapevolmente, cerca di resistere a certi meccanismi automatici (e alienanti) di risposta e allora si dice che non è collaborativo, non fa compliance (guarda caso è spesso anche famacoresistente); spesso inizia fra il Servizio e il paziente un sottile braccio di ferro perché si faccia curare, ovviamente non si ricorre più a pratiche violente, ma ugualmente è un vero peccato perché interrogare invece la resistenza ai trattamenti proposti, potrebbe essere un buon inizio per far emergere un vero desidero di cura.
Sia ben chiaro non sto affatto sostenendo che gli operatori trascurino i pazienti, se ne disinteressino, siano freddi o addirittura ostili, anzi, in genere ci “mettono l’anima”, si dedicano intensamente ai loro pazienti, talvolta li “inseguono”, e fin troppo nelle loro bizzarrie; molto spesso soffrono nel vedere che i loro sforzi non producono i risultati attesi, ma, la “logica” del rispondere alla domanda invece che sulla domanda, ovvero, intervenire su il paziente invece che incontrasi con il paziente, sembra dominare la scena di tante Istituzioni.
E’ ovvio che i pazienti, tutti i pazienti, vorrebbero che noi, in un modo o nell’altro, riparassimo quei torti, quelle disattenzioni, quelle mancanze patite, magari già a partire dalla primissima infanzia. Ma questo non lo possiamo fare. Come diceva Anna Freud: “Noi non possiamo riparare ciò che è stato fatto all’Io ma soltanto ciò che l’Io ha fatto a se stesso”.
Concludendo, al netto quindi della necessità di poter contare su maggiori risorse (personale, momenti di supervisione, luoghi idonei all’incontro); su una formazione che non sia quella barbaramente coincidente coi i crediti ECM; un atteggiamento professionale che incominciasse a mettere in questione mandati sociali e richieste politiche-amministrative, sarebbe certamente la ricetta per la cura delle istituzioni (e quindi dei pazienti); ma, ciò, occorre dirlo, risulterebbe assai impopolare e sicuramente all’inizio anche deludente.
La morale è che, come ben sappiamo, riconoscersi ammalati, è il primo passo verso la salute! Ma questo è proprio quello che il “sistema” (come si diceva nel 68) avversa.
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