Come è difficile pensare nel tempo della pandemia

di Giovanna Bosco

Pochi mesi fa Lancet, una delle più autorevoli riviste scientifiche in ambito medico,  sollecitava la collaborazione della psicoanalisi per aiutare chi si occupa di salute pubblica (dagli operatori sanitari ai funzionari pubblici) a comprendere i motivi del diffuso rifiuto ad accogliere le raccomandazioni che provengono dalla medicina e dalla scienza  e a migliorare la propria capacità di trattare il fenomeno della negazione di massa, mandando messaggi più adeguati.  Questo appello nasceva dalla considerazione che oggi la popolazione ha molte più informazioni  di tipo medico rispetto al passato ma contemporaneamente rifiuta le conclusioni cui perviene la scienza.  E considerava questo un caso unico nella storia moderna: “Mai, prima d’ora, così tanti cittadini hanno avuto un accesso così ampio all’informazione e, allo stesso tempo, hanno protestato contro le raccomandazioni di salute pubblica, negando con tanta veemenza i fatti medici”.

Effettivamente il dramma collettivo dovuto alla diffusione del Coronavirus sembra aver sospeso, oltre alla  capacità di comprendere le sofferenze degli altri, anche la capacità di pensiero. Da un lato siamo continuamente esposti ad avere pensieri frammentati: non si riesce a connettere l’oggi con la previsione di ciò che potrà succedere, come conseguenza delle nostre azioni,  domani; né a tenere insieme le ragioni della tutela della salute  e quelle dell’economia, i gravi rischi cui sono esposti gli anziani  e  il disagio degli adolescenti privati di una adeguata rete di relazioni extrafamiliari.  D’altro lato assistiamo con senso di impotenza al ricorso a livello di massa a varie forme di negazione: da quelle più radicali di chi nega la stessa esistenza della pandemia, a quelle più attenuate di chi ne minimizza la pericolosità sostenendo che sono piuttosto le misure di protezione e contenimento ad essere dannose.

La parola “negazione”, è ormai entrata nell’uso comune quando si fa riferimento ad un insieme di affermazioni che tendono a rifiutare ciò che è sotto gli occhi di tutti (“il virus non esiste e comunque non è diverso da una comune influenza”) o ancora la portata affettiva o le conseguenze di quanto accade (“muoiono più persone di infarto o tumore che di Covid”). E’ tuttavia opportuno fare un poco di chiarezza sul significato di questo termine.  La Negazione, traduzione dal tedesco Verneinung  fu considerata da Freud un meccanismo di difesa che opera sui contenuti dell’inconscio, sottraendoli alla possibilità di divenire coscienti.  Quando invece c’è il rifiuto di riconoscere le informazioni provenienti dalla realtà, solitamente una realtà che ci disturba riconoscere perchè troppo ansiogena o dolorosa, ad essere rigorosi si dovrebbe parlare di Diniego. Ricorre a questo meccanismo di difesa, ad esempio, chi rifiuta di riconoscere la morte di una persona cara.

Un meccanismo di difesa più blando è quello della Banalizzazione, che, pur senza negare del tutto la realtà, porta a disconoscerne la gravità. Così ad esempio quando parlando di Coronavirus qualcuno dice che in fondo “tutti debbono morire”  molto spesso questa affermazione non dipende da un’accettazione serena della propria finitezza, ma piuttosto dal fatto che la morte è “quella degli altri”, dei vecchi che sarebbero comunque “arrivati al capolinea” anche senza il Coronavirus.  Allo stesso modo, quando si parla dei problemi psichici degli adolescenti, dovuti alla perdita di relazioni sociali, c’è sempre chi afferma “quante storie, pensiamo a chi era giovane in tempi di guerra, ben altri sono i veri problemi”.

In questo articolo, tuttavia, il termine “negazione” verrà usato nella sua accezione più ampia, conformemente all’impiego corrente che ne viene fatto.

Tornando all’appello della rivista Lancet, mi pare che esso nasca dal fatto che la stessa scienza si sente messa in scacco  dal rifiuto di riconoscere le conoscenze che da essa derivano. I meccanismi di difesa che rientrano nella categoria della negazione spesso si accompagnano a pensieri persecutori, a volte francamente complottisti: “il virus non  è pericoloso come ci fanno credere, è tutto un imbroglio orchestrato da qualcuno che sta in alto e che ci vuol far vivere nel terrore per poterci meglio dominare”.  Anche medici e scienziati vengono così delegittimati e considerati complici della “dittatura sanitaria”.

Nessuna prova contraria sembra scuotere questi convincimenti, poiché viene filtrata  e riorganizzata alla luce di un’irriducibile idea di fondo: tutti coloro che hanno una posizione di responsabilità sono mossi da cattive intenzioni.  Ogni informazione che contrasta con questi pensieri viene reinterpretata in modo da poter essere ricondotta all’interno di una visione del mondo di tipo persecutorio: tutto ciò che avviene è costruito da qualcuno per uno scopo ben preciso, e questo scopo non è certo benevolo.  E anche se nel mondo migliaia di medici e scienziati sottolineano che il Coronavirus è molto contagioso e pericoloso per la salute collettiva, si dà credito a quell’unica voce discordante che minimizza la serietà del problema.

Si ascolta solo chi ci dice ciò che desideriamo sentirci dire, e si rilanciano con ogni mezzo le dichiarazioni di quei pochi “esperti” che piegano i risultati delle osservazioni scientifiche a loro piacimento oppure attribuiscono valore universale ad osservazioni del tutto parziali pur di conquistarsi il loro scampolo di visibilità mediatica. Le loro parole diventano le uniche “vere”. E coloro che danno credito alla “scienza” vengono considerati dei creduloni o dei pavidi.  In realtà è proprio il diniego ad essere strettamente imparentato con la paura, e precisamente con la paura di non riuscire a reggere emotivamente l’angoscia che il riconoscimento della gravità di questa emergenza sanitaria susciterebbe nei soggetti che la negano.

I  pensieri persecutori possono perfino apparire verosimili, proprio perché organizzati con coerenza all’interno di quel particolare schema di pensiero: gli altri, in particolare le figure d’autorità, sono mossi da intenzioni maligne, o quanto meno sospette.

Sappiamo bene che una certa dose, piccola o grande, di persecutorietà è potenzialmente presente in tutti gli esseri umani, e può emergere in ciascuno di noi in situazioni emotivamente impegnative. Non è facile accettare il lato oscuro, l’imperfezione, il difetto che sono presenti,  in ognuno di noi, e riconoscere che tutti possiamo talvolta  provare emozioni non “esemplari” come l’invidia, la rabbia, l’aggressività.  E allora il male e il bene vengono scissi e  la colpa,  il difetto sono proiettati sugli  altri.  Quando questa diventa la modalità prevalente di funzionamento di una persona, in tutti gli aspetti della sua vita e delle sue relazioni, la psichiatria parla di “disturbo paranoide della personalità”.

Sarebbe tuttavia sbagliato applicare categorie diagnostiche nate con l’intento di classificare le difficoltà psichiche dei singoli, isolandoli dal contesto sociale, a fenomeni di massa in cui è una parte consistente della società ad adottare schemi di pensiero basati sulla scissione tra “bene” e “male”  e sull’attribuzione agli altri del Male.  Come sottolinea Cosimo Schinaia (“La psicoanalisi al tempo del Coronavirus, 10 marzo 2020, Spiweb ) “risulta impossibile parlare di un immaginario individuale senza considerare quello collettivo, che lo sottende e, anzi lo impregna, in un rapporto di codeterminazione reciproca”.

Se consideriamo le rappresentazioni socialmente condivise ci accorgiamo che il confine tra bene e male è  relativamente mobile. Così quel confine collocato un tempo da un certo immaginario a sud della pianura Padana, a separare i laboriosi abitanti del Nord da “Roma ladrona” e da un Sud rappresentato come parassitario, si è spostato nel volgere di breve tempo: anche gli abitanti del Mezzogiorno vengono oggi ricompresi nella categoria dei “buoni” italiani, mentre il confine tra il Bene e il Male è stato trasferito nel Mediterraneo, da cui arriverebbero untori, parassiti, pericolosi criminali.  L’importante è che quel confine assolva la funzione di tener ben separati il bene rappresentato dal Noi e il Male costituito dagli Altri.

Psicologi, psichiatri, psicoanalisti si sono applicati a cercare di comprendere i fenomeni di massa di negazione e di scissione tra Bene e Male, a partire da quella immensa ed inquietante catastrofe dell’umano che ha portato milioni di persone nella Germania nazista  a convincersi che gli Ebrei incarnavano il male, che ha indotto  molti a partecipare attivamente, in modo diretto o indiretto,  al loro sterminio e quasi tutti gli altri a rifugiarsi nell’indifferenza, a non voler “sapere” ciò che stava avvenendo.  Proprio per la vastità del fenomeno, ci si è resi conto che non si può pensare che così tante persone fossero affette da un “disturbo paranoide della personalità”.

La domanda da porsi è questa: come mai  anche oggi così tante persone  che in altri contesti (la vita familiare, il contesto di lavoro, i gruppi di amici) hanno un funzionamento psichico accettabile, possono prendere una deriva negazionista e complottista nei confronti di certi aspetti della realtà e della vita sociale?

Anzitutto consideriamo che tutti, in qualche misura, ricorriamo alla negazione di fronte ad aspetti dell’esistenza che intuiamo di non riuscire a sopportare. E’ lo stesso meccanismo di difesa che porta ad esempio ad evitare esami medici per il timore di ricevere notizie spiacevoli sulla nostra salute.  La negazione ci aiuta spesso a “tirare avanti” fino al momento in cui siamo in grado di prendere contatto con una realtà dolorosa senza rischiare di “andare in pezzi”. Non c’è dubbio che questa pandemia mette a dura prova la nostra tenuta emotiva per mille motivi. L’irruzione del Coronavirus nelle nostre vite ci ha costretti a misurarci con la vulnerabilità dell’essere umano. Vulnerabilità e fragilità erano a lungo state espulse dal nostro orizzonte esistenziale, considerandole un’eccezione che può riguardare solamente “gli altri”, i più sfortunati perché colpiti da  “disgrazie” fuori dal comune (tumori, incidenti, difetti genetici), oppure confinandole altrove, nei migranti, negli homeless e negli emarginati in genere.   Il Coronavirus ha fatto cadere l’illusione di essere invulnerabili rispetto alle malattie infettive (un tempo flagello dell’umanità)  grazie ai progressi della medicina e della tecnologia.

Tanti sono i motivi di angoscia.  C’è la paura della malattia e della morte (cui alcuni sono più esposti, ma da cui nessuno è al riparo)  e il terrore che suscita  la  prospettiva di essere totalmente soli nell’affrontare tutto questo nell’ambiente spersonalizzante di un reparto ospedaliero ad alto “isolamento”. Un’altra fonte di forte disagio psichico è il senso di continua e prolungata incertezza con cui la pandemia ci obbliga a convivere, anche perché si tratta di un fenomeno nuovo di cui sappiamo ancora poco.  Ed è un fenomeno che ci costringe a ripensare il rapporto tra libertà e responsabilità, tra libertà e pietas, i confini  tra pubblico e privato, il modo di vivere gli affetti, la sessualità, le relazioni sociali, i rapporti tra diverse generazioni, e molto altro ancora.

Siamo costretti a vivere in un clima di continua precarietà.  Alle limitazioni che il mondo contemporaneo, esaltando un’idea di libertà disgiunta dalla responsabilità, ci ha poco attrezzati a tollerare, si aggiunge così l’incertezza estesa a tanti aspetti della nostra vita.  Oltre ai rischi per la salute e la vita, tante altre cose possono cambiare da un momento all’altro:  la programmazione scolastica appena realizzata con non poca fatica, i progetti su come organizzare la vita familiare tra lavoro e cura dei figli che non possono più andare a scuola, la possibilità di svolgere quelle attività economiche da cui dipende il tenore di vita (modesto, al limite della sopravvivenza, oppure più elevato) su cui si contava, la nostra appartenenza ad una comunità professionale o di lavoro su cui si fonda la parte sociale del nostro senso di identità, e così via.

Tutto questo favorisce l’indifferenza, la perdita della capacità di provare empatia.  Chi per età o condizioni di salute ritiene di non essere tra le categorie più a rischio può diventare indifferente rispetto alla sorte delle persone più anziane e più fragili, ricorrendo a meccanismi di razionalizzazione: “sono morti perché avevano già altre patologie… è la selezione naturale… non si può far morire di fame tanti per proteggere solo alcuni…”.  Sotto sotto è come se si dicesse: “non siamo più disposti a pagare un prezzo per proteggere le persone più anziane e fragili”. Il “prima gli Italiani” si trasforma in “prima l’economia”, “prima i giovani”, “prima quelli perfettamente sani”. Quanto agli altri, agli “scarti”, “che ci possiamo fare…”   E viceversa chi si sente più vulnerabile  per ragioni di età o salute tende a ignorare o minimizzare i problemi di chi rischia di dover chiudere la propria attività commerciale o il proprio studio professionale.  Il pensiero diventa così totalmente autoreferenziale: non si riconosce che tutti soffriamo per la pandemia, anche se i motivi di  sofferenza non sono gli stessi per tutti, o meglio lo sono solo per alcuni aspetti­­.

Tornando all’articolo della rivista Lancet, che chiede alla psicoanalisi di aiutare chi si occupa di salute pubblica a comprendere i motivi della diffusione a livello di massa del fenomeno della negazione, questa domanda mi sollecita varie considerazioni. Se è vero che la psicoanalisi è attrezzata ed ha una lunga esperienza nell’aiutare singolarmente le persone a diventare consapevoli delle difese cui ricorrono per proteggersi emotivamente da ciò che causa  un’ansia eccessiva, tuttavia quando si tratta di fenomeni di massa, essi vanno visti, per comprenderli pienamente, da più punti di vista, ricorrendo al contributo di più campi del sapere. Così la psicologia sociale ci aiuta a non dimenticare che noi esseri umani siamo esseri sociali, e che in situazioni di isolamento il bisogno insoddisfatto di relazioni porta facilmente  allo sviluppo di fantasie caratterizzate da pregiudizi  sganciati dalla realtà. Non può essere trascurato neppure il ruolo dei media, da quelli tradizionali ai social media, nella diffusione di rappresentazioni distorte della realtà stessa. Chi come Vlamic Volkan  ha studiato i fenomeni regressivi che si si verificano nei Grandi Gruppi, in particolare nelle popolazioni sottoposte a forti tensioni a causa di pericoli incombenti, reali o immaginari,  sottolinea, tra le altre cose, anche l’influenza della personalità dei leader politici nella diffusione di meccanismi di difesa come la negazione e la scissione tra il bene e il male.

Tornando al contributo che può offrire la psicoanalisi alla società,  è bene tener presente che non è possibile  trattare i meccanismi di difesa,  se ci si limita a ricercarne il senso sul piano razionale e non si prova una autentica,  umana e calda comprensione per il malessere, la fatica, le paure  che  portano  a negare la pericolosità del Coronavirus,  e se non si offre contemporaneamente un aiuto relazionale ed emotivo oltre che pratico,  in modo da mitigare l’angoscia,  rendere tollerabile ciò che fa paura,  permettere di intravvedere anche nelle difficoltà del presente un’opportunità.

E’ importante creare occasioni  in cui le persone possano sentirsi vicine e solidali nell’affrontare le paure e i disagi, pur nelle diversità.  In questo mi è stata di  grande aiuto la mia formazione al lavoro nei gruppi e con i gruppi. E’ sempre per me motivo di rinnovata meraviglia scoprire  durante  i gruppi esperienziali cui partecipo o che conduco, persino quando si incontrano periodicamente in remoto, come certe idee che sembravano irriducibilmente  contrapposte si ricompongano in un pensiero più complesso ed inclusivo delle differenze, fino ad arrivare alla consapevolezza condivisa che  “tutti soffriamo, anche se per motivi diversi”. E’ proprio  questa condivisione, non solo sul piano del pensiero, ma anche sul piano emotivo ed affettivo, che permette di comprendersi reciprocamente, diventando  il punto di partenza per un  rinnovato fervore creativo.  Vanno pensate nuove forme di mantenimento e creazione di legami sociali, di incontro tra diversità,  di contenimento del disagio, di conservazione della speranza.  Se non vogliamo che la frammentazione del pensiero diventi anche frammentazione del tessuto sociale  è fondamentale che la necessaria distanza fisica non diventi distanza emotiva, relazionale, sociale.

La pandemia ha inoltre riportato in primo piano i timori rispetto ai vaccini, in particolare rispetto all’attuale campagna vaccinale per la prevenzione del Covid. Si tratta di timori, incertezze, dubbi che non sempre vengono espressi apertamente per timore di essere stigmatizzati come “no-vax”,  ma che tuttavia rendono molte persone incerte rispetto alla scelta se vaccinarsi oppure no.

E’ importante riconoscere le motivazioni della diffidenza nei confronti dei vaccini, sia quelle dichiarate che quelle più profonde e inconsapevoli. I vaccini sollecitano infatti vissuti profondi, spesso inconsapevoli, che hanno a che fare con il modo in cui noi percepiamo il nostro corpo, la natura, la scienza, l’attività degli esseri umani tesa a modificare il corso “naturale” degli eventi. E sono proprio queste rappresentazioni mentali a far sì che basti la notizia di un numero estremamente esiguo di eventi avversi in una popolazione di milioni di vaccinati per scatenare il panico. La paura si accompagna a sfiducia nei confronti non solo delle case farmaceutiche ma anche dei medici, e ancora una volta della scienza.

Spesso le narrazioni sulla pericolosità dei vaccini finiscono per intrecciarsi con considerazioni sul rapporto distorto dell’uomo con la “natura”.  Non l’ambiente in cui viviamo e di cui facciamo parte, ma proprio la “natura”. Sembrerebbe emergere una rappresentazione idealizzata della “natura” in quanto governata da un ordine superiore che noi esseri umani siamo tenuti a rispettare senza modificarlo.  Ne consegue che è preferibile fare affidamento sulle risorse del nostro sistema immunitario e sulle nostre naturali capacità di autoregolazione  piuttosto che sull’immunità raggiunta attraverso l’intervento “artificiale” della scienza.

Ad una rappresentazione idealizzata della natura si aggiunge spesso l’idea di una presunta purezza e perfezione del corpo umano. Purezza e perfezione che verrebbero violate dall’introduzione di sostanze estranee e artificiali, come nel caso dei vaccini. Il loro utilizzo viene così fantasticato come qualcosa che corrompe il corpo e lo fa ammalare. Anche se non c’è alcuna base di realtà, ci si convince che i vaccini alterano il nostro corredo genetico. Sembrerebbe un caso di spostamento sui vaccini dello sconcerto e dei timori suscitati dagli esperimenti di ingegneria genetica, a partire dalla pecora Dolly.

Appare sempre più diffusa la diffidenza verso una scienza che prova a modificare gli eventi cosiddetti naturali.  Questa sfiducia porta a disconoscere secoli di progresso scientifico che hanno permesso all’umanità di non essere più falcidiata, come avveniva nel passato, dalle malattie infettive e dalle epidemie, di non morire di setticemia per una banale ferita, come succedeva prima della scoperta della penicillina, di aumentare enormemente l’aspettativa media di vita alla nascita.

Non che non ci sia un senso in questo voltare le spalle alla scienza in cui fino a qualche decennio fa si riponeva grande fiducia. Ci si rende conto che forse ci si sta spingendo troppo avanti, con il rischio di imboccare una strada senza ritorno, attraverso sperimentazioni sempre più ardite e inquietanti dal punto di vista etico (la clonazione, l’ingegneria genetica non regolamentata, le modificazioni genetiche del cibo stesso che mangiamo, e il diffondersi di coltivazioni agricole che fanno uso di sementi nate da incroci che appaiono “mostruosi”, e che tendono a prendere il sopravvento sulle sementi naturali esistenti sul pianeta). Tutto questo porta a diffidare della scienza in quanto tale, trascurando il fatto che la scienza non è né buona né cattiva in sé, ma piuttosto deve essere sottratta alle logiche del potere, e deve trovare un limite invalicabile nell’etica.

E’ dunque necessario, per favorire il passaggio dal pregiudizio alla riflessione, inoltrarsi sul terreno dell’inconscio collettivo con un autentico desiderio di comprendere. Il rigetto radicale e a-storico della scienza non può essere fermato dando dei “retrogradi” a coloro che esprimono queste posizioni, ma piuttosto promuovendo la nascita di contesti di gruppo in cui sia possibile, in un clima di ascolto tollerante, pensare insieme il rapporto tra scienza e potere,  scienza e profitto, scienza ed etica

 

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