Non ci sono due alberi uguali nella foresta: note per un approccio relazionale alle artiterapie

di Giovanna Bosco

Chi cercasse ‘libretti di istruzioni’ per elaborare progetti di arteterapia per una determinata categoria di persone o un certo contesto, basate su una sequenza di attività da proporre, o parole oracolari che mettano in grado di sapere a priori come affrontare i problemi che si possono presentare in un gruppo di arteterapia, non troverà qui indicazioni di questa natura.    Le esperienze maturate nel corso del tempo, sia lavorando come psicoanalista (e in alcuni casi inserendo nel percorso analitico modalità di comunicazione diverse dalla parola), sia conducendo gruppi di arteterapia, sia svolgendo attività di supervisione a colleghi che lavoravano a livello espressivo in molti diversi campi (dalla psichiatria alla formazione dei volontari, dai servizi per l’infanzia ai contesti educativi), mi hanno resa sempre più consapevole che se qualcosa ha funzionato con un gruppo o con un paziente, non vuol dire che vada bene anche con il successivo, anche se la situazione sembra analoga. L’importante, quando si inizia un percorso, individuale o di gruppo, è porsi in ascolto, e riuscire non solo a guardare ma a vedere, in modo da accogliere ciò che viene espresso, talvolta in forme ancora incoerenti o sommesse, e da riconoscere quali lacci frenino l’espressività e blocchino la creatività.

E’ molto importante tenere a bada l’aspettativa che si possa ripetere ciò che è avvenuto durante le esperienza personali fatte nel corso della propria formazione, oppure in altri gruppi o con altri pazienti con cui abbiamo lavorato.Così come non funziona imitare i Maestri, non va bene neppure imitare noi stessi, in primo luogo perché gli altri si accorgono quando proponiamo loro qualcosa di inautentico, e poi perché una proposta che viene accolta con piacere da un soggetto o un gruppo può suscitare disagio, a volte anche angoscia in un altro.

Ricordo ancora oggi con piacere il benessere provato tanti anni fa, durante uno Stage di arteterapia tenuto in un contesto internazionale, dove potei esprimermi danzando al suono della musica che andava improvvisando il conduttore del gruppo. Premetto che le mie esperienze di danza si limitavano fino ad allora a qualche esercizio di ginnastica ritmica fatto da bambina e a qualche giro di ballo nelle balere estive. Mi era più congeniale la musica, avendo fatto studi di pianoforte per vari anni. Mi iscrissi allo Stage di arte-terapia mentre stavo concludendo la mia formazione come gruppoanalista in una Scuola che avevo scelto per l’importanza data nel suo modello teorico all’autenticità e ai processi creativi, anche se con il passare del tempo mi ero resa conto di un certo clima di ‘intellettualizzazione’ che avvolgeva molti raffinati discorsi sulla poiesis. Ero perciò curiosa di conoscere altri modi di accostarsi alla creatività.

Durante il primo incontro, dopo un breve spazio di comunicazione verbale che ci aveva permesso di stabilire un primo contatto con il gruppo, seduti in circolo ai bordi di un telo colorato, il conduttore ci aveva invitati a muoverci per la stanza finchè in ognuno di noi fosse emersa un’immagine, poi ad esprimerla con il nostro corpo ed i nostri movimenti. Mentre ci muovevamo per la stanza, ogni tanto la sua voce, intervallata da ampi silenzi, ci sosteneva e ci incoraggiava, con poche essenziali parole, a non respingere qualsiasi immagine ci venisse incontro, anche se bizzarra o trasgressiva.  L’immagine che prese forma in me fu quella di un vecchio albero contorto. Poi il conduttore ci chiese di diventare noi stessi quell’immagine e iniziò a suonare il flauto. Aveva il raro dono di saper improvvisare entrando in risonanza con quello che accadeva nel gruppo. Mi ero messa a terra, in una posizione chiusa, sentendo intorno al mio corpo la vecchia e spessa corteccia che lo imprigionava. La musica che si espandeva per la stanza accoglieva la mia pena e insieme mi risvegliava con le sue vibrazioni.  Poco alla volta le dolci note del flauto entrarono nel mio corpo e nel mio spirito. Ora sentivo la corteccia staccarsi e cadere, pezzo dopo pezzo, il mio corpo si scioglieva con movimenti lenti, giovane alberello che si innalzava dal terreno, che beveva la rugiada, che assorbiva il sole e lo trasformava in gemme e in tenero verde che ondeggiava al vento della musica.  Ero viva, il mio corpo era vivo, io ero la musica e la musica era la mia danza.  Fu un’esperienza profondamente rigeneratrice, vissuta a livello Protomentale (quello stato primigenio in cui ci si sente tutt’uno con il mondo).
Tuttavia quando iniziai a condurre io stessa dei gruppi esperienziali, nell’ambito della formazione di arteterapeuti o di psicologi che volevano accostarsi al mondo ‘oltre la parola’, mi resi conto che non sempre un approccio del genere poteva funzionare, perché non per tutti è facile esprimersi attraverso il corpo e il movimento. Quando noi chiediamo ad un gruppo di sospendere la parola per esprimersi attraverso il movimento, questo mette spesso in luce ciò che si è impresso nei corpi nelle primissime esperienze, quelle che sono radicate nella corporeità. Ridare piena espressività al corpo può favorire sensazioni di intenso benessere ma può talvolta far emergere forti angosce, soprattutto in quei soggetti che hanno tenuto a bada sensazioni di non integrazione o angosce di frammentazione mediante una scissione tra versante corporeo e versante mentale. E questo può accadere non solo con quei pazienti che di solito si definiscono ‘gravi’, ma anche con soggetti ‘normali’, che a volte hanno già completato un percorso analitico, e che solo nel momento in cui la loro espressività viene incanalata sul versante corporeo, togliendo loro la parola, manifestano tale difficoltà.
“Che fare in questi casi?” chiedono spesso le persone in formazione, sperando in una ricetta che permetta di riconoscere a priori, magari attraverso una ‘diagnosi arteterapeutica’, chi potrebbe avere tali difficoltà, oppure quale comportamento adottare quando un problema di questo tipo emerge nel gruppo.  Come ho già detto, non ci sono ricette. Molto dipende dal nostro essere liberi da qualsiasi genere di aspettativa quando iniziamo a lavorare con un gruppo e pronti ad accogliere ciò che accadrà (e che non possiamo sapere a priori), e dalla capacità nostra, e – quando il percorso è già abbastanza sviluppato – del gruppo nel suo insieme, di accogliere e reggere la difficoltà o  l’angoscia dell’altro. Io preferisco parlare di espressione attraverso il movimento anziché di danza (o danzaterapia) per limitare le ansie da prestazione, e quando propongo per la prima volta questo tipo di espressività in un gruppo segnalo che ci si può esprimere anche stando fermi e lasciando che la musica entri dentro di noi, oppure seguendo il ritmo della musica anche solo con un dito, con un movimento del capo o del piede. Non essendo in grado di accompagnare io stessa il gruppo attraverso l’improvvisazione musicale, scelgo inizialmente musiche accoglienti, a tratti dolcemente stimolanti, che evochino un’atmosfera di gioco. Oppure, la scelta dipende da quello che sento al momento entrando in contatto con il gruppo, all’inizio invito semplicemente ad esplorare la stanza, e scelgo come accompagnamento un brano musicale appropriato, che evochi un clima di curiosità.
Nessun accorgimento tecnico, tuttavia, può garantire che tutto vada liscio.  
A volte accade che al primo approccio la maggior parte del gruppo si muova con piacere e una certa scioltezza al suono della musica e che invece qualcuno resti fermo contro una parete. Può allora accadere che un altro membro del gruppo si avvicini e inviti delicatamente con i suoi gesti ed il suo movimento la persona che si trova in difficoltà ad unirsi al gruppo, favorendo un clima di rispecchiamento, per sciogliere il disagio iniziale. Altre volte, tuttavia,  questi inviti aumentano il disagio della persona che fa fatica a prendere contatto con la propria dimensione corporea.
Ripensando ai vari gruppi esperienziali che ho condotto nell’ambito della Scuola di formazione di E-spèira, mi viene in mente una giovane donna, che chiamerò Anna. Già durante il rilassamento iniziale (un’esperienza che io preferisco chiamare di ‘abbandono’ e che è condotta in modo da favorire l’allontanamento delle parti ‘esigenti’ e ‘giudicanti’, eliminando gli aspetti più direttivi che caratterizzano solitamente le metodiche di rilassamento), Anna si era messa a ridosso della porta di ingresso come per garantirsi una via di fuga. E lì rimase tutto il tempo, anche quando il resto del gruppo iniziò a muoversi e ad esplorare la stanza. Nello spazio di verbalizzazione successivo, con un tono vagamente accusatorio nei miei confronti, disse che aveva provato ‘angosce di frammentazione’. “Per questo te ne sei stata vicino alla porta, pronta a scappare” le fece notare con simpatia un membro del gruppo, strappando ad Anna un cenno di assenso. Da un lato la capacità di Anna di dare parola ai suoi vissuti facilitava la comprensione del suo disagio. Ma allo stesso tempo l’uso di una terminologia così tecnica (era una psicoterapeuta e si comportava a volte come se fosse il mio ‘supervisore’ nel gruppo, il che mi suscitava un certo fastidio) mi aiutava a capire che quel linguaggio specialistico le serviva da ‘autocontenimento’ e da controllo nei confronti del mondo esterno. Nel momento in cui ne veniva privata si sentiva perciò a rischio di “andare in pezzi”. Anche per questo proposi subito dopo di passare al segno e colore, in modo da dare al gruppo la possibilità di mettere in forma (una forma visibile e stabile che potesse essere ri-guardata e condivisa) attraverso una modalità non verbale e non razionalizzante, le sensazioni, le emozioni, i vissuti appena sperimentati,  Il disegno di Anna rappresentava una giovane donna al volante di un’automobile. Quando tutti i disegni furono terminati, il gruppo commentò l’espressione grafica di Anna in un’atmosfera empatica, che fu di aiuto anche a me  (a volte accade che l’empatia del gruppo vada oltre le possibilità di empatia dello stesso conduttore, ed è anche per questo che un gruppo può essere una grande risorsa). Qualcuno fece notare, in modo giocoso, che l’automobile serviva ad Anna per scappare, qualcuno altro che aveva i capelli al vento (un particolare che io non avevo notato) e qualcun altro ancora commentò “si vede che avevi proprio fretta di andartene”. C’era un clima disteso, che favorì l’apertura reciproca. Anna era ora molto più rilassata e sorrideva, partecipando al clima giocoso e abbandonando il suo abituale linguaggio tecnicistico.
In seguito, durante gli spazi di espressione corporea, si sarebbe allontanata gradualmente dallo spazio vicino alla porta per mescolarsi al gruppo e per muoversi al ritmo della musica, anche se non sarebbe mai diventata una ‘ballerina’ (si esprimeva in modo più libero attraverso il segno e colore).
In un altro gruppo, accadde che un’altra persona cercasse davvero di lasciare la stanza durante uno spazio di espressione corporea, ‘agendo’ quello che Anna aveva comunicato con le sue parole. Usciva e rientrava, poi usciva di nuovo con la scusa ora di prendere un fazzoletto, ora di andare a bere. Al suo secondo rientro mi misi davanti a lei e cercai di dare inizio ad un gioco di rispecchiamento, riproducendo dapprima la sua staticità in modo giocoso,  poi iniziando a muovere un dito, poi il capo (una cosa che in altre situazioni aveva funzionano). Ma non fu così con  S. che, rompendo un’altra regola del setting (la sospensione della parola), disse: “Io qui non ci voglio più stare”. Il gruppo sembrava non curarsi di lei, come se ritenesse che se qualcuno si sentiva in difficoltà, questo era affare del conduttore. Allora, con un’improvvisa intuizione, affrontai la situazione prendendola sottobraccio e dicendole “e allora noi andiamocene!”, e insieme facemmo un giro lungo il perimetro della stanza, rimanendo a una certa distanza dalla danza del gruppo. Avevo sentito a livello empatico ciò che sentiva S., avevo accentato di condividere con lei una trasgressione (l’uso della parola) trasformando in espressione corporea, all’interno del setting, la sua spinta irrefrenabile a fuggire da quel luogo da lei vissuto come pericoloso,  che la portava ad abbandonare il setting stesso.
Potrei continuare con altri esempi, in cui, partendo da problemi imprevisti, e che si manifestavano con modalità solo apparentemente simili, le strade per elaborare il problema e per aprire nuovi spazi furono ancora diverse.

Vorrei ora portare un’altra esperienza personale. Tre o quattro anni fa scoprii che, a pochi passi da casa mia, veniva proposta un’attività di danzaterapia. Pur non amando questa definizione (come ho già detto, preferisco parlare di espressione corporea, per allontanare qualsiasi problematica legata alla ‘prestazione’) pensai che sarebbe stato molto piacevole, per una volta, tornare a vivere un’esperienza personale in cui potermi affidare, e sentirmi libera di esprimermi attraverso il movimento, senza le responsabilità proprie di un conduttore di gruppo.
La conduttrice era una giovane danzatrice che aveva appena terminato la sua formazione in una Scuola di danzaterapia, ed era piena di entusiasmo: pensai che l’esperienza non sarebbe forse stata molto profonda, ma mi aspettavo che fosse lieve, ludica, gradevole. Mi accorsi presto che le cose stavano diversamente.
All’inizio si facevano spesso ‘esercizi di riscaldamento’, che erano veri e propri esercizi ginnici preparatori alla danza. Ricordo la sensazione di fastidio che provai in uno dei primi incontri quando, per correggere una mia posizione, la giovane conduttrice venne verso di me, che avevo frainteso le istruzioni, e cercò di forzare una mia gamba piegata a stendersi. Dopo questa prima parentesi didattica si passò all’espressività e ci venne chiesto di costruire la nostra casa muovendoci al suono della musica registrata. Poiché la musica era piacevole e vivace, mi lasciai permeare da quel ritmo sudamericano, dimenticai il fastidio provato prima e tutto ciò che c’era intorno e mi godetti la possibilità di tracciare con il movimento il perimetro della mia casa, e poi di innalzare i muri di un edificio che immaginavo colorato, con un bel porticato davanti. Tuttavia nel successivo spazio di verbalizzazione diversi membri del gruppo espressero disagio: una donna  disse che si era trovata a guardare continuamente l’orologio, e per tutta risposta la conduttrice la invitò a toglierselo negli incontri successivi. Un’altra disse che le aveva dato fastidio essere esposta allo sguardo degli altri, ed ebbe anch’essa una risposta di tipo direttivo. Il loro disagio ora risuonava entro di me e compresi che era difficile costruirsi una casa in un clima che ricordava piuttosto la scuola. Lo dissi e la conduttrice mi rispose che questo era un problema mio. In un incontro successivo ci fu chiesto di prendere una seggiola, di pensare alla seggiola come ad una persona, di entrare pian piano in contatto con questa persona. Mentre danzavo intorno alla seggiola, mi venne in mente mia nonna, che stava seduta con il suo corpo grande, quieto, accogliente nell’aia di una casa colonica del Monferrato. Io giocavo nel terreno circostante, facevo le mie esplorazioni, ma sapevo che lei era lì e ogni tanto potevo tornare da lei e arrampicarmi sulle sue ginocchia. Con questo ricordo vivo nella mente mi sedetti sulla seggiola, come sulle ginocchia di mia nonna, ma presto la mia beatitudine fu interrotta dalla voce della conduttrice:  “Non ci si siede su qualcuno che si è appena conosciuto!”.  Quando si è pieni di schemi e di libretti di istruzioni, questo diventa un diaframma che impedisce di accogliere quello che accade vicino a noi. Solo sospendendo quanto più possibile  le pre-concezioni si può com-prendere (nel senso etimologico di ‘prendere con sé’).
In questo tipo di lavoro è importante avere chiarezza su una questione fondamentale: o si fa un corso di danza, sia pure secondo metodi propri della danza moderna, che favoriscono la libera ricerca espressiva di ciascuno, oppure, se si usa la parola terapia (sia pure in associazione con l’arte e nell’accezione del ‘prendersi cura’ piuttosto che della cura’ in senso medicale) allora è necessario abbandonare gli intenti didattici e direttivi per porsi in una posizione di ascolto e di risonanza empatica.
Lo stesso si può dire per tutte le altre forme espressive, dalla pittura, alla musica al teatro.

Non è facile orientarsi nel mondo delle arti-terapie, altrettanto, e forse ancor più, eclettico del mondo della psicoterapia, dove la diversità di presupposti teorici, modelli di riferimento e ambiti d'intervento ha dato origine a una pluralità di ‘psicoterapie’.. Anche nelle arti-terapie si fa riferimento a modelli molto diversi tra loro (comportamentisti, psicoanalitici, gestaltici, pedagogici, e altro ancora) anche se questo aspetto resta un po’ in ombra, perché spesso si preferisce portare in primo piano, sotto la luce dei riflettori, un altro elemento più evidente, ossia la forma artistica di riferimento, tanto che spesso si parla di danzamovimentoterapia, di musicoterapia, di teatroterapia, ecc., restringendo l’impiego del termine ‘arteterapia’ a quelle attività in cui si ricorre alle forme espressive proprie delle arti visive: disegno, pittura, scultura. Ci sono persino definizioni di terapia fondate su forme espressive molto specifiche come arazzoterapia, clowning, sand-therapy, e così via.
Ci sono tuttavia autori, soprattuto all’estero, che hanno una visione meno settoriale. Così Warren (1993) pur riconoscendo di avere una personale inclinazione per il teatro, afferma che “con arteterapia si intende l’uso delle arti (pittura, scultura, musica, danza, teatro, marionette, costruzione e narrazione di storie/racconti e così via) e di altri processi creativi per promuovere la salute e favorire la guarigione”. Anche se i suoi presupposti teorici e metologici sono diversi dai miei, sono in pieno accordo con questo approccio multiespressivo, come pure con la sua affermazione che un conduttore di gruppo dovrebbe essere guidato dalla seguente domanda: “quale attività artistica (poesia, musica, ecc.) può essere di aiuto (…) in un particolare momento?”  Attraverso le supervisioni, che mi hanno dato l'opportunità di accompagnare molti colleghi,. ho constatato più volte il valore di questo approccio. Ovviamente è giusto avere consapevolezza delle proprie possibilità e dei propri limiti. Se ci sentiamo a disagio in una determinata forma espressiva, non è il caso di proporla ad un gruppo. Tuttavia ritengo che erigere steccati tra le varie forme di espressione sia limitante, e soddisfi soprattutto il bisogno del singolo operatore della relazione d’aiuto di avere una piena padronanza di una determinata forma artistica, degli schemi operativi da adottare, a volte persino del significato da attribuire ciò che viene espresso.
In realtà non è necessario essere molto bravi in una certa forma di espressione artistica, anzi a volte questo può essere d’intralcio. Durante una psicoterapia individuale con una paziente che, dopo alcuni mesi in cui tutto sembrava procedere per il meglio, si era chiusa nel mutismo e si era ritirata dalla relazione, introdussi, d’accordo con lei, una modifica del setting, passando dalla comunicazione verbale all’espressione attraverso il disegno o gli acquerelli. Disegnavamo l’una accanto all’altra e poi, alla fine della seduta, commentavamo insieme i rispettivi lavori. La paziente, figlia di un pittore, era molto più abile di me nell’uso di queste forme artistiche, ma sarebbe stato un guaio se fosse stato il contrario, avendo lei un profondo vissuto di svalutazione. Le esperienze che avevo fatto in alcuni stages di arteterapia mi avevano permesso di familiarizzarmi con pastelli, tempere, acquerelli quel tanto che mi permetteva di dare forma e colore a ciò che io sentivo stando al suo fianco. Solitamente cercavo di accogliere quello che lei mi comunicava con i suoi disegni, molto sapienti dal punto di vista della tecnica e fortemente espressivi (ricordo un volto dai cui occhi schizzavano lacrime rosse come sangue e appuntite come frecce) e di restituirglielo parzialmente rielaborato. Giocavo con i colori, creando soprattutto forme astratte o solo parzialmente definite (come avviene quando si usa l’acquerello su carta bagnata) sia perché la mia limitata capacità tecnica non mi permetteva altro, sia perché le forme astratte sono insature, aperte a diverse interpretazioni e quindi permettono più facilmente di proiettare stati d’animo o parti di sé nell’immagine e di riprenderle dentro di sé in una forma un po’ più tollerabile o più evoluta. Il disegno in cui dagli occhi schizzavano rosse lacrime appuntite come freccie rappresentava un bel cambiamento, considerando che solitamente M. volgeva l'ostilità contro sè stessa, ma mi permetteva, al contempo, di comprendere   la sua difficoltà a esprimere la sua pena, subito convertita in rabbia. Presi una carta per acquerelli, la bagnai leggermente sulla superficie (così facendo, il colore si espande, dando luogo a immagini soffuse, 'ambigue', come di sogno). E come in un sogno. con il pennello accennai un volto dai cui occhi rotolavano lacrime azzurre, formando alla base un laghetto, dal quale si innalzavano, all'altra estremità del foglio, due onde… forse due forme umane molto vicine? "Sembra che questa figura tenga il braccio intorno alle spalle dell'altra… mi fa uno strano effetto", commentò M.  E' 'strano' scoprire che si può piangere ed essere capiti e confortati, se non si ha dentro di sè questa esperienza.

La mia limitata padronanza del mezzo pittorico, che portava a risultati a volte casuali, si era rivelata una risorsa.
L’importante è che ci sentiamo abbastanza a nostro agio da per poter accompagnare un soggetto o un gruppo nell’accostarsi a determinati mezzi d’espressivi e nell’impiegarli senza il timore della prestazione e del giudizio. Penso di essere stata fortunata per aver potuto fare le mie prime esperienze di arteterapia con conduttori che mi hanno permesso di sperimentare un approccio facilitante anche nei confronti di forme di espressione artistica che non avevo mai praticato, in un contesto non esigente, accogliente, e di valorizzazione di ogni espressione.

 Anche quando non si disegna o dipinge materialmente, è spesso possibile 'pensare per immagini' insieme al paziente e questo facilita notevolmente l'accesso ad uno spazio di gioco comune e la possibilità di co-creare immagini, dando vita ad un processo non 'intellettualizzato'. Altre volte, con pazienti con problematiche di maggiore intensità, la possibilità di pensare per immagini nasce dopo una fase più o meno lunga in cui si è data forma materialmente, con pennelli, matite e colori, alle proprie sensazioni ed emozioni embrionali.

Giovanna.Bosco@libero.it


G. Bosco, Il corpo, i suoni, i colori, la scena in psicoanalisi e nelle artiterapie" in Oltre la parola: la relazione terapeutica e formativa tra psicoanalisi e artiterapie (a cura di G. Bosco), Ed. Guerini, 2001.  Il volume è reperibile attraverso i principali siti di editori on-line)

 

3 commenti a Non ci sono due alberi uguali nella foresta: note per un approccio relazionale alle artiterapie

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    Giovanna Valsecchi scrive:

    Anche a me è spesso capitato di assistere ad approcci che non mi piacciono e in cui non mi riconosco. Ho sempre taciuto la mia disapprovazione per rispetto, ma nel tempo mi sono formata un'idea  riguardo a quello che, secondo me, non va fatto… ad esempio, ricordo che molti anni fa, in una realtà diversa da quella in cui oggi sono inserita, una collega  era interventuta sul disegno elaborato da un paziente (io lavoro in psichiatria), con dei rimandi continui e univoci alla Realtà : "questa è la tua casa?.. è gialla la tua casa? e tu dove sei, nella casa?". In questi frangenti io sviluppo un forte senso di fastidio  che mi sale dentro e non so da dove fare uscire…  Innanzitutto perchè mi sembra che le domande anticipatorie valgano solo in situazioni di stallo prolungato e forse nemmeno lì..  poi perchè penso sia l'autore del disegno che, se vuole, può dire di sè o della casa in questione, magari a seguito di un invito delicato e non invasivo… poi perchè l'Immaginario è un mondo dove le case possono essere anche …un puntino sul foglio!!!  

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    Marta Spoldini scrive:

    Un probloema che abbiamo tutti, soprattutto se lavoriamo nelle istituzioni, è quello di come esprimere la diversità, a volte un vero e proprio dissenso, rispetto a modi di operare che sono molto diversi dai nostri. Tuttavia Giovanna Valsecchi non si chiede come, ma di dove far uscire ciò che disturba la sua sensibilità. Forse  teme che il suo fastidio, così forte, possa diventare distruttivo?

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    Rosaria Alberico scrive:

    Lo scritto di Giovanna Bosco ha risuonato molto in me, e a lungo, suscitando tante immagini e pensieri; tanti ricordi anche, ricordi di esperienze di gruppi a cui ho partecipato nella mia formazione, che ho condotto nel mio lavoro. Voglio fermarmi qui su una frase per me essenziale: "pronti ad accogliere ciò che accadrà". In tutte le relazioni, in fondo, saper accogliere, accettare l'altro, senza paure, e dall'altra parte sentirsi accettati e accolti è ciò che permette di esprimere se stessi, liberamente. Certo, bisogna poterselo permettere: ho scritto "senza paure", so quanti problemi sottendono queste due parole… Occorre uno sguardo attento sull'altro, uno sguardo libero da pre-occupazioni, maturo e consapevole, per accompagnare l'altro in difficoltà a fare un passo avanti nell'espressione di sé, comprese paure, rabbie, delusioni. Una scultura molto bella mi sembra possa essere una splendida metafora di questo processo.Si chiama "Freedom", è opera di Zenos Frudakis ed è a Philadelphia. Purtroppo ho visto solo una sua foto, in rete. Rappresenta una figura umana che progressivamente emerge dalla pietra che la imprigiona e alla fine corre via, piena di energia, di vita. Per me rappresenta la realizzazione del "vero Sé" e mi piace pensare di poter accompagnare qualcuno per tratti anche brevi di questo processo. Ora in particolare cerco di svolgere questa funzione per i bimbi della scuola dell'infanzia che coordino, guidando anche le insegnanti e il personale ausiliario a trovare lo sguardo attento e accogliente che permetta ai bambini di vedersi nei loro occhi, scoprirsi e riuscire ad esprimere le loro potenzialità.

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