I processi di elaborazione di esperienze ‘indicibili’ – parte 1°

di Giovanna Bosco

In questo articolo parto dalla constatazione che l’esistenza e l’importanza delle esperienze emotive “indicibili”, e l’accumularsi di nuove conoscenze provenienti dalle scienze neurologiche e dalla Infant Research, oltre che dalle esperienze cliniche, impongono  una revisione rispetto alla tradizionale visione gerarchica del rapporto tra verbale e non verbale, tanto che anche all’interno della stessa Psicoanalisi la concezione del processo terapeutico come “talking cure” (cura attraverso la parola) è ormai oggetto di interrogativi e ripensamenti.
In questa prima parte, dopo aver esaminato il contributo di Wilma Bucci  alla comprensione del rapporto tra verbale e non verbale, si mette in luce come sia importante non solo riconoscere la complessa rete di comunicazioni non verbali che, indipendentemente dalla tecnica e dai codici comunicativi  adottati, passano, in modo spesso non intenzionale e inconsapevole, tra terapeuta e paziente o tra i membri di un gruppo, ma anche distanziarsi dall’idea che “elaborazione” e “verbalizzazione” vadano di pari passo. Evitando sia la sopravvalutazione della parola, poco adatta a comunicare le emozioni, sia una visione “mistica” ed autosufficiente del non verbale, il lavoro terapeutico porta a cimentarsi con la co-invenzione, con ogni paziente o gruppo,  di un “particolare” linguaggio che connetta i diversi sistemi comunicativi, che consenta di includere ed elaborare le esperienze “indicibili”, e che sia abbastanza flessibile da modificarsi nel corso del tempo. Quest'ultimo punto verrà ripreso e sviluppato nella seconda parte, in corso di preparazione.


Rileggendo gli articoli con i quali ho contribuito al Circolo on-line ed i Commenti che hanno suscitato, mi sono sentita nuovamente sollecitata a riflettere su ciò che scriveva un anno fa Luisa Salvietti a proposito del mio scritto su Corpo e Voce nell’esperienza psicoanalitica.  Con molto garbo la collega mi faceva notare che il mio scritto aveva suscitato in lei ammirazione per “la semplicità sapiente” che traspariva dalle mie parole, in particolare dai casi clinici, ma che lo sentiva carente sul piano esplicativo. Sempre con garbo mi rimproverava una certa “aristocratica spontaneità” e si rammaricava del fatto che il  testo non offrisse ai “comuni mortali” un contributo adeguato, ossia  strumenti teorici e tecnici che consentissero di lavorare sempre meglio.  Parlava infatti della sensazione  di essere “come nel caso delle opere d’arte, di fronte a qualcosa che ha a che fare con la genialità dell’autore piuttosto che con la padronanza di una teoria e di una tecnica”.  Faceva poi un confronto con un articolo di altro autore riguardante uno 'Studio psicoanalitico sulla voce' in cui numerosi erano i riferimenti teorici a lei familiari (relazioni oggettuali, schema corporeo, ecc.) ed i concetti esplicativi (“si spiega qual è la funzione della voce nei meccanismi di proiezione e introiezione, di come la voce può essere al servizio della tendenza alla fusione") e della sensazione di sollievo provata inizialmente (“mi è parso di tornare con i piedi per terra”), cui aveva fatto seguito, procedendo nella lettura, il disagio di sentire la testa “piena di teorie, di concetti a scapito della possibilità di ‘sentire’ qualcosa”.  Concludeva  auspicando un "via di mezzo”, tale da consentire di “restare agganciati alla propria formazione senza perdere la possibilità di sentire emozioni e di capire le emozioni dei nostri pazienti”.

Avevo risposto pochi giorni dopo, mossa da un sentimento di comprensione e condivisione del desiderio di poter sperimentare, nella vita e nel lavoro, esperienze significative dal punto di vista emozionale  e di accostarci a nuovi punti di vista  senza smarrire totalmente le connessioni con quanto ci è familiare.  Avevo poi segnalato, come nodo problematico, che la maggior parte dei concetti teorici sviluppati dalla Psicoanalisi, che suonano familiari a chi ha avuto una formazione in questo ambito, sono nati principalmente per spiegare ciò che viene espresso con le parole, ma non aiutano a porci in ascolto dell’indicibile. Mi ero poi soffermata brevemente su alcuni contributi che, pur venendo dal campo  psicoanalitico,  spingono in avanti lo sguardo,  offrendo dei pensieri teorici che aiutano a passare dal vertice della spiegazione all’ascolto: da autori classici come Bion e Winnicott, che si occupano soprattutto della 'qualità dell’ascolto', ad autori contemporanei  che si riferiscono all’analisi come ad un processo di 'invenzione a due'. Avevo anche segnalato che ci sono molti punti di contatto tra i processi creativi dell’artista e dell’analista, e che questo punto di vista può apparire aristocratico solo se vediamo il processo artistico come appannaggio di pochi esseri eccezionali, 'nati artisti', mentre la creatività, come ci dice Winnicott in Gioco e Realtà, è presente anche “nel vivere momento per momento di un bambino ritardato che è felice di respirare, come lo è nell’ispirazione di un architetto che improvvisamente sa cosa è che egli desidera costruire” (…). Mi auguravo che queste immagini permettessero alla mia lettrice di “rimanere connessa con il mondo in cui si era formata, senza sentirsi legata da una corda così corta da soffocare la sua espressività e creatività”.

Ritornando a distanza di tempo su questo dialogo, ho la sensazione di aver dato per scontato, sia nell’articolo scritto a suo tempo, sia nella mia risposta al Commento della lettrice, che ci sia una condivisione del concetto di 'indicibile', e di tutte e sue implicazioni, con il rischio che esso venga percepito come avvolto da un alone 'mistico'. Il rischio di scivolare sul piano inclinato di una visione mistica del non verbale  è presente in alcuni sviluppi recenti della Psicoanalisi nordamericana, oltre che nelle artiterapie, un campo composito, di cui conosco le grandi potenzialità ed insieme i nodi irrisolti, sia sotto il profilo della concettualizzazione che della prassi.  


Nel linguaggio comune indicibile è qualcosa, solitamente un’emozione,  che non si può esprimere con le parole (“una pena indicibile, “un’indicibile dolcezza”).  In qualche modo, diventa sinonimo di “immenso”, e già questo ci fa pensare che il linguaggio verbale sia poco adatto a comunicare ciò che ci accade quando siamo pervasi da un’emozione. Una bella sfida per la psicoanalisi, che da un lato ha sviluppato una crescente attenzione verso gli scambi emotivi (non solo nel rapporto madre-bambino, ma anche nella relazione analitica), dall’altro è nata come talking cure (cura fondata sulla parola), e a questa caratteristica identitaria resta tuttora ancorata, anche se qualche interrogativo al riguardo incomincia a farsi strada.

Imbasciati (2010) segnala che è ormai consapevolezza diffusa all’interno dei centri della SPI che alcune categorie di pazienti, pur rispondendo apparentemente bene al lavoro psicananalitico  centrato sull’interpretazione, non dimostrano corrispondenti mutamenti interni.  Dopo aver preso in esame gli sviluppi dell’Infant Research,  i recenti riscontri delle neuroscienze e la teoria del Codice Multiplo di Wilma Bucci, che convergono nel confermare il valore strutturante della comunicazione non verbale, segnala che anche nella psicoanalisi degli adulti  questa consapevolezza ha promosso l’adozione del setting vis a vis, che consente il rispecchiamento attraverso i canali non verbali (posture, sguardi, mimica, intonazione della voce).  Ritiene che l’interazione non verbale sia fondamentale soprattutto con i pazienti definiti 'difficili', con disfunzionalità dei livelli psichici più ‘primitivi’.  Avanza poi alcuni interrogativi, connessi con il fatto che l’interazione non verbale avviene comunque all’insaputa del soggetto e che  “la capacità di usarla e il modo in cui comunque la si usa dipendono dalla struttura inconscia di base (memoria implicita, cervello emotivo) della singola persona”, piuttosto che dall’intenzionalità cosciente.  “ (…) se c’è empatia col suo bimbo l’inconscio della madre sembra poter modulare la di lei comunicazione non verbale (…) in modo da rispondere adeguatamente ai messaggi del bimbo e così organizzare e promuovere il suo sviluppo psichico”. Ciò è vero, osserva Imbasciati, non solo per la madre nella relazione con il suo bambino, ma anche per l’analista.  Si chiede allora se l’inconscio dell’analista è sufficientemente sensibile  e adeguatamente attrezzato per un uso terapeutico della comunicazione non verbale e segnala come punto critico il fatto che  il training dell’analista, così come è attualmente praticato, si focalizza sull’interpretazione verbale, trascurando tutta la sfera della comunicazione che avviene a livello non verbale.  Si chiede ancora come può l’intenzione terapeutica dell’analista, che è qualcosa di cosciente, riuscire a modulare quei contenuti inconsci irrappresentabili e non verbalizzabili,  allo stesso modo in cui modula la comunicazione verbale affinchè sia terapeutica (Imbasciati, 2010).

Nel campo Gruppoanalitico, le dispozisione in cerchio adottata fin dalle origini, che permette ai membri del gruppo, compreso il conduttore, di vedersi tra loro, sono tali da far emergere in modo più evidente che nel setting psicoanalitico tradizionale (con l’analista resta fuori dalla vista del paziente) la fitta rete di comunicazioni non verbali che circola nel  gruppo insieme alle comunicazioni verbali. Questo ha portato sempre più all’attenzione ciò che comunicano  i pazienti con la loro postura, la loro espressione, il loro abbigliamento, il tono della voce, tanto che in alcune Scuole di formazione per gruppoanalisti questo è diventato oggetto  di specifiche lezioni (si veda ad esempio G. Baldoni, 2000/2001).  Se è ormai ampiamente  condiviso che tutto ciò è rilevante, il punto critico riguarda l’elaborazione del linguaggio corporeo. Anche all’interno del mondo Gruppoanalitico  persiste talvolta, anche se non in modo esclusivo, l’idea sottesa, mutuata dalla Psicoanalisi, che elaborazione e verbalizzazione siano processi quasi inscindibili. 

In generale, si può dire che, pur essendoci ovviamente una concordanza sull’importanza di cogliere la comunicazione non verbale, le strade divergono quando si affronta la questione del suo rapporto con il 'verbale'. Come segnala anche Luigi Solano (2009), si riscontrano due posizioni opposte, con una serie di sfumature intermedie: alcuni ritengono che i terapeuta sia parte di un fitto dialogo non verbale, spesso inconsapevole,  che passa per forme di espressione diverse dalla parola e che un vero cambiamento in analisi può avvenire solo se c’è un cambiamento a livello della memoria implicita, quindi sul piano non verbale; altri, al contrario, restando più ancorati alla tradizione analitica, non negano che l’espressione non verbale vada tenuta in debita considerazione, ma principalmente allo scopo di tradurla quanto prima in forma verbale.  Ricordo una discussione che seguii alcuni anni fa in cui i fautori della necessità di tradurre il linguaggio del corpo in forma verbale  argomentavano, tra l’altro, che la psicoanalisi nasce come cura attraverso la parola e ricordavano che proprio il linguaggio verbale è ciò che distingue gli essere umani, sul piano evolutivo, dalle altre specie. 


Può allora essere utile, per approfondire  la comprensione  del concetto di indicibile  richiamare gli aspetti salienti della Teoria del Codice Multiplo di Wilma Bucci, una psicoanalista che ha sviluppato un percorso di ricerca tendente ad ampliare gli orizzonti della psicanalisi, attraverso una contaminazione con le più recenti conoscenze provenienti dalle neuroscienze e dalle scienze cognitive.

Premetto che tutte le volte che, nel corso degli ultimi anni, mi sono accostata ai lavori di questa ricercatrice, ho provato sensazioni contrastanti.  Da un lato soddisfazione nel veder riconoscere status e dignità, attraverso il dispiegarsi di concetti ben organizzati all’interno di un modello esplicativo con solidi agganci con i dati empirici delle neuroscienze, a ciò che molti di noi hanno dapprima intuito, poi iniziato a concettualizzare, sulla base delle esperienze cliniche e formative: l’importanza dei processi intuitivi, che hanno radici profonde nell’esperienza corporea, e che ci consentono di immettere nella relazione terapeutica elementi formativi (rispetto alla costituzione del Sé), o trasformativi, di natura non verbale.  D’altro lato una certa difficoltà a digerire un linguaggio che in alcuni passaggi suona 'straniero', avendo una delle sue radici nella psicologia cognitiva, per cui a volte sembra accostare le emozioni in termini di processualità para-cibernetica di stimoli e  informazioni.  Riflettendo su queste contradditorie sensazioni  ho infine intuito che spesso si può sentire il bisogno, per potersi muovere con agilità in quel mondo irrazionale e indicibile, che non riguarda solo la patologia ed i pazienti ma la stessa relazione terapeuta-paziente, mantenere un ancoraggio di sicurezza alla solida roccia dei Modelli dove tutto o quasi tutto, anche l’irrazionale, trova una sua collocazione logica, per tenere a bada il rischio di precipitare nell’abisso della perdita di senso. Un po’ come accadde a Bion, che quanto più si addentrava nel linguaggio psicotico  e nell’irrazionale, tanto più inseriva nei suoi scritti formule matematiche.

La teoria elaborata da Wilma Bucci presuppone l’esistenza di due sistemi di funzionamento psichico:

1) Sistema subsimbolico, in cui l’elaborazione è continua e analogica, non passa attraverso la parola ma coinvolge tutte le modalità sensoriali, come pure gli aspetti motori e viscerali.

2) Sistema simbolico, a sua volta diviso in:

  • Simbolico non verbale, riguardante l’attività immaginativa, che nella maggior parte delle persone è di tipo visivo, ma che può essere anche di tipo uditivo, tattile, olfattivo.
  • Simbolico verbale

Si tratta in effetti di una visione fondata su tre modalità di funzionamento psichico (e di elaborazione) – subsimbolico, simbolico non verbale, simbolico verbale – che scompongono il nostro abituale modo di pensare per coppie di contrari  (processo primario/processo secondario, logico/analogico, verbale/non verbale, ecc.) e lo ricompongono in una visione più complessa, in cui non c’è gerarchia di valori tra i diversi sistemi.

E’ ormai ampiamente riconosciuto che la bipartizione tra processo primario (comprendente tutto ciò che è inconscio, non verbale, infantile o regredito, patologico) e processo secondario, in cui il pensiero sarebbe conscio, verbale, maturo, razionale e orientato alla realtà, è difficilmente proponibile oggi. Alla luce dell’insieme delle conoscenze contemporanee, il pensiero e la memoria risultano organizzati in modo più complesso di come postulato cent’anni fa da Freud. Così ad esempio il pensiero inconscio, o implicito, può essere sia verbale che non verbale; inoltre ci può essere un pensiero non verbale, ed esso può includere concetti complessi, persino di tipo scientifico (l’abbiamo sperimentato nella fase fondativa dell’Associazione E-spèira quando l’immagine della spirale emerse precedendo e sintetizzando una nuova e specifica visione dei processi terapeutici e formativi, che proprio partendo da quell’immagine potè poi tradursi in un una serie di enunciati verbali).
Secondo il modello della Bucci, nel mondo non verbale avvengono due tipi di elaborazione:
 elaborazione sub-simbolica
• elaborazione simbolica non verbale

L’elaborazione sub-simbolica, che corrisponde a ciò che chiamiamo intuizione, coinvolge tutte le modalità sensoriali e riguarda un’enorme quantità di dati. Avviene simultaneamente e molto rapidamente lungo tanti canali che viaggiano in parallelo, ma con la possibilità di connettersi tra loro. Questo primo livello di elaborazione non verbale non codifica l’esperienza in categorie (rosso/blu, morbido/ruvido) perché ogni qualità varia lungo un continuum. Non si tratta di processi razionali ma intuitivi, globali e analogici, che avvengono per lo più senza attenzione e al di fuori del controllo intenzionale. Per questo motivo sono detti anche di elaborazione implicita. Tali processi di elaborazione subsimbolica nella sfera non verbale, oltre ad essere essenziali per colpire efficacemente una palla da tennis, distinguere il sapore di un vino da un altro, svolgere attività come la musica o la danza, hanno un ruolo centrale anche nel lavoro creativo di tipo scientifico e matematico, e sono fondamentali nella comunicazione emotiva. Anche le informazioni emotive, infatti, dipendono da questi processi che passano lungo una molteplicità di canali sensoriali, viscerali ed emotivi, a livello sub-simbolico (Bucci, 1997).

Per quanto riguarda la relazione terapeutica, ci sono dei punti di contatto tra il concetto di elaborazione sub-simbolica della Bucci e alcune preesistenti osservazioni di Daniel Stern (1985).  Basandosi sull’osservazione della relazione madre-bambino,  Stern ha elaborato il concetto di attunement  per indicare il processo che consente alla madre di riprodurre in un’altra modalità sensoriale le espressioni del bambino, stabilendo una comunicazione sintonica e risonante.  Così ad esempio un comportamento di tipo motorio può essere rispecchiato transmodalmente attraverso corrispondenti espressioni vocali. Io stessa ho potuto, sia pure casualmente, osservare un processo ti questo tipo in azione durante una vacanza in Calabria in cui condividevo con un’altra famiglia un cortile alberato su cui si affacciavano diversi appartamenti:  un bimbo di due o tre anni continuava incessantemente a salire e scendere un gradino, e la nonna accompagnava questo suo movimento con un’alternarsi di due suoni, uno ascendende e uno discendente, seguendo il ritmo del movimento del piccolo. Poco alla volta, proprio mentre io che osservavo iniziavo a sentire il disagio della ripetitività senza fine, la  voce ha della nonna ha incominciato ad avere un’intonazione meno vivace ed a rallentare progressivamente il ritmo, e in parallelo anche il movimento del bambino ha iniziato a farsi più lento fino a concludersi.  In una buona relazione terapeutica processi di questo tipo, che consentono l’integrazione tra diversi canali sensoriali, sono pressochè indispensabili per la costituzione di un senso unitario del Sé. 

La consapevolezza dell’importanza dell’integrazione tra diversi canali espressivi, che richiede una relazione sintonica e risonante e la capacità da parte del caregiver, e similmente del terapeuta, di restituire transmodalmente  le espressioni altrui,  ha implicazioni tutt’altro che secondarie  anche per quanto riguarda il campo delle artiterapie. Proprio in quanto considero le esperienze fatte nel campo delle arti-terapie, soprattutto a livello internazionale, una componente significativa della mia formazione, senza la quale non avrei potuto addentrarmi nei territori 'oltre la parola' anche nel lavoro analitico (Bosco 2001), ritengo degna di riconsiderazione ed approfondimento  la visione che prevale oggi in Italia, tendente a mettere steccati tra le varie pratiche espressive e tra le varie figure professionali: arteterapeuta in senso stretto (che si occupa di espressione iconica), danzaterapeuta, musicoterapeuta, e così via. Mi limito per ora a questi cenni, per riprendere questa riflessione nella seconda parte dell’articolo.

Tornando alla teoria del Codice Multiplo della Bucci, il secondo sistema di elaborazione  è quello simbolico non verbale, che  porta al costituirsi di immagini mentali ( nonostante si pensi più facilmente alle immagini visive, con questo termine la Bucci intende anche le rappresentazioni non verbali di esperienze sonore, tattili, ecc.). Tali immagini sono entità ‘discrete’, nel senso che sono distinguibili l’una dall’altra (un volto sorridente è nettamente distinguibile da un viso corrucciato, una sensazione di freddo è distinguibile dalla sensazione di caldo). Questa elaborazione non verbale ma già di natura  simbolica  può essere sia implicita che  cosciente e intenzionale.

La modalità simbolica verbale è quella maggiormente soggetta al controllo intenzionale. Come ampiamente evidenziato dagli studi sulla comunicazione, il linguaggio verbale si basa su codici inventati dagli esseri umani, significanti che per convenzione sono connessi a determinati significati, ma che, a differenza delle immagini simboliche, hanno perso l’analogia con ciò che rappresentano. Tuttavia si tratta di codici fondamentali nella via sociale e di relazione, poiché solo il linguaggio verbale consente di fare generalizzazioni e distinzioni, di trasmettere la cultura, di sviluppare i concetti di passato e futuro, e quindi di ordinare gli eventi in sequenze temporali, di connettere le nostre esperienze presenti con quelle passate e di fare progetti, lanciando lo sguardo verso il futuro.

L’aspetto più innovativo della Teoria del Codice Multiplo è forse rappresentato dal 'sistema subsimbolico'. “Non siamo abituati a pensare a processi non passibili di essere verbalizzati e simbolizzati, come quelli percettivi, motori, viscerali, come a un pensiero sistematico e organizzato. (…) Questa modalità di elaborazione ci è nota come intuito, come saggezza del corpo o in una serie di altri modi. La comunicazione emotiva tra persone avviene prioritariamente all’interno di questa modalità” (Bucci, 2009)

Per quanto riguarda la questione dell’ indicibile la Teoria del Codice Multiplo porta  nuovi elementi a sostegno della tesi secondo cui la pura e semplice traduzione in parole delle emozioni è illusoria. La difficoltà viene fatta dipendere dall’impossibilità di tradurre in un codice logico e simbolico, a canale unico, privo di connessioni con l’esperienza sensibile, un insieme di informazioni di tipo sensoriale, motorio, viscerale, che passano per molteplici linee di esperienza analogica.  Ciò non significa che per la Bucci il linguaggio verbale giochi un ruolo di poca importanza. Semplicemente ritiene illusorio, e nel lavoro clinico in molti casi addirittura controproducente, pensare di poter 'tradurre in parole' quell’insieme di sensazioni corporee e viscerali che appartengono al sistema subsimbolico.

I tre sistemi devono tuttavia essere interconnessi tra loro e questo avviene mediante quello che Wilma Bucci chiama processo referenziale.  In questo processo una funzione centrale è assegnata alle immagini (un termine che, in questo contesto, non si riferisce solo alle rappresentazioni visive ma anche a quelle sonore, tattili, ecc.). Le immagini sembrano costituire un veicolo preferenziale del processo referenziale perché farebbero da ponte tra le esperienze subsimboliche (di cui condividono alcuni aspetti, come il fatto di potersi formare al di fuori della coscienza, a livello procedurale o implicito, e di essere specifiche a seconda dei canali sensoriali coinvolti) e il  linguaggio verbale (con il quale condividono l’impiego di simboli e la capacità di generare nuovi significati). Il processo referenziale, che connette i tre livelli dell’esperienza, ha un ruolo fondamentale, secondo Wilma Bucci  nei processi creativi – nell’espressione artistica, poetica, nei lavori scientifici, nei sogni – come pure nei processi psicoanalitici (Bucci, 1997).

Tralascio le ulteriori elaborazioni di questa autrice sul modo in cui si formano gli schemi emozionali, sulle loro basi neurologiche, e sulla formazione di schemi dissociati in seguito ad esperienze carenziali o traumatiche, rimandando per un approfondimento ai testi citati  nella bibliografia. Possiamo tuttavia intuire cos’è uno  'schema dissociato' pensando a esperienze che spesso facciamo nel lavoro clinico: ci può accadere, nell’ascoltare il racconto, fatto con voce piatta e priva di emozione, di vicende in cui chi narra è stato offeso, oppure svalutato e umiliato, di sentirci arrabbiati, o ancora di sentirci tristi al punto di essere sull’orlo del pianto, provando l’emozione che l’altro non può provare. E come se la parte dissociata dello schema emotivo risuonasse nel terapeuta. Altre volte la dissociazione consiste nel fatto che il soggetto è dominato da uno stato generalizzato di ansia, o paura o rabbia, senza peraltro poter ricordare o riconoscere la fonte di tali emozioni.

Lo scopo del trattamento analitico sarebbe consentire una nuova connessione dell’esperienza sub-simbolica e simbolica all’interno degli schemi emozionali che sono stati dissociati e distorti.” (W.Bucci, 2009).  Le elaborazioni di questa autrice mettono inoltre in luce che nella relazione di cura un ruolo importante è assegnato all’intuizione, ossia all’elaborazione non intenzionale, che connette tra loro tutte quelle esperienze sensoriali, motorie, viscerali che costituiscono l’indicibile. E ancora, il modello elaborato da Wilma Bucci riconosce una parentela tra l’espressione artistica o poetica e il lavoro dell’analista, che del resto molti altri autori hanno messo in luce, a partire da Bion e Meltzer fino a contemporanei come A. Di Benedetto, L. Sommaruga, L. Pagliarani. Il linguaggio poetico è visto, nella prospettiva di W. Bucci, come un’espressione ad un livello molto alto del 'processo referenziale'.

Tutti possiamo fare esperienza del fatto che il linguaggio poetico comprende e riassume in sé quasi tutte le forme di comunicazione verbale e non verbale: evoca immagini, forme, colori, odori; è dotata di un ritmo come la musica, e anche questo ha a che fare con la corporeità… ritmo è anche cadenza del respiro e battito del cuore, come nell’esperienza primigenia che ogni essere umano ha vissuto. Pensiamo con il corpo e con la mente  la poesia di Ungaretti, scritta mentre era soldato al fronte:

Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie

Come il poeta anche l’analista è chiamato a cimentarsi con l’invenzione di un linguaggio evocativo, ricco di similitudini e metafore dalla forte carica espressiva, con radici nel corpo, che permetta per analogia di comprendere le emozioni connesse con determinate immagini. Quando il processo analitico funziona, si ha l’invenzione di un linguaggio condiviso. Mi riconosco nelle parole di Antonio Di Benedetto (2000):   “l’analisi in tali casi è invenzione a due, per costruire un senso prescindendo dai codici abituali e plasmando forme rappresentative che consentano di includere esperienze non dette  o impossibili da dire con la lingua corrente”

A volte, durante le sedute analitiche, o durante una sessione di gruppo, ho lasciato che ciò che sentivo a livello psicocorporeo si trasformasse in immagini, che immettevo nella relazione, descrivendole verbalmente. In certi casi si è trattato di immagini protettive, tali da offrire contenimento rispetto a passaggi che suscitavano angoscia  E’ quanto accaduto con Anna, una paziente con la quale l’analisi si è ormai conclusa felicemente da più di due anni.

Un corpo privo di parola e una parola non incarnata
Nei primi tempi Anna metteva in scena una scissione tra una parte fragile, emotiva, bisognosa di accoglienza e rassicurazione ma impossibilitata ad esprimersi con le parole (un corpo privo di parola) e un’altra parte razioide, che si esprimeva con un linguaggio colto, ostentava una pseudo-autonomia e tendeva a dominare la relazione (una parola non incarnata). In tutta la prima parte del percorso analitico fu perciò fondamentale  l’invenzione di una modalità comunicativa e relazionale che includeva, riconnettendoli, aspetti di sensorialità  esperibili soprattutto a livello corporeo Successivamente il suo bisogno di fare esperienza della relazione anche attraverso il contatto corporeo (in particolare all’inizio  degli incontri e al  momento del congedo) diventò meno pressante e Anna incominciò a partecipare con gusto e creatività ad una comunicazione basata su immagini evocate verbalmente. In occasione della prima lunga separazione per le vacanze estive, fu un’immagine, che prese forma dapprima nella mia mente sulla base di ciò che avevo sentito empaticamente a livello corporeo e poi si sviluppò attraverso un gioco comune, a permetterle di sentirsi protetta dal rischio di andare in pezzi. Dopo aver sentito riecheggiare in me una sensazione di pericolo, vidi con gli occhi della mente un’immagine, che le comunicai: una grande bolla colorata/  trasparente/ leggera/ e insieme robusta. Questa immagine le piacque molto, mi chiese se poteva scegliere lei il colore. Fantasticammo insieme su questa bolla, che lei vedeva azzurrina. Sarebbe stata visibile solo a lei che avrebbe potuto, in caso di bisogno, entrarci sentendosi protetta. Ma al tempo stesso, essendo leggera, non l’avrebbe impacciata nei movimenti. Quando ci ritrovammo, due mesi dopo, mi disse che questa immagine l’aveva accompagnata durante la nostra separazione e l’aveva fatta sentire al sicuro, e la sua voce limpida corrispondeva alle sue parole.

Tuttavia ciò che emerge da questo caso clinico non è una 'ricetta' generalizzabile. Attraverso diverse esperienze mi sono resa conto che ogni paziente si è rivelato particolarmente sensibile, soprattutto all’inizio del nostro 'viaggio', ad un determinato canale sensoriale, che sembrava rappresentare la via d’accesso a sensazioni ed emozioni embrionali non ancora integrate nell’esperienza di Sé, e sollecitava una specifica forma di ascolto.  Inizialmente con Anna era stato essenziale  esperire la relazione anche attraverso momenti di contatto corporeo, all’inizio e alla fine delle sedute.  Con altri pazienti le immagini visive sono state importanti fin dall’inizio. Altri ancora si sono rivelati molto sensibili al tono della voce, che per loro era il principale canale di comunicazione affettiva, molto più importante di ciò che veniva detto con le parole. L’importante è rendersi conto che la chiave d’accesso all’inconscio (inteso non come luogo del rimosso ma, in senso Bioniano, come qualcosa che non ha ancora potuto emergere alla coscienza), va ‘trovato’ caso per caso in base a ciò che emerge nel campo relazionale, e che molto del successo di una terapia è questione di ‘intuito’ e di ‘timing’.

 

Bibliografia

- Baldoni Giorgio, “Comunicazione non verbale nella pratica gruppoanalitica”, lezioni tenute nel corso dell’anno accademico 2000/2001, presso la Scuola di Formazione in Psicoterapia Gruppoanalitica della sede S.G.A.I. di Roma.

-Bosco Giovanna, “Il corpo, i suoni, i colori, la scena in psicanalisi e nelle artiterapie” in Oltre la parola, (a cura di Giovanna Bosco), Ed. Guerini, 2001

- Bosco Giovanna, "Corpo e voce nell’esperienza psicoanalitica", pubblicato sul  Circolo on-line dell’Associazione E-speira, www.espeira.it, 2 aprile 2014

- Bucci Wilma, Psychoanalysis and cognitive science: a multiple code theory, Guilford Press, New York, 1997

- Bucci Wilma, “Lo spettro dei processi dissociativi. Implicazioni per la relazione terapeutica” in Psicoanalisi e neuroscienze (a cura di G. Moccia e L. Solano), Franco Angeli, 2009

- Di Benedetto Antonio, Prima della parola: l’ascolto psicoanalitico del non detto attraverso le forme dell’arte, Franco Angeli, 2000

- Imbasciati Antonio, “Qualche interrrogativo sulla talking cure” in Psichiatria e psicoterapia (2010) 29.4

- Solano Luigi, “Teoria del codice multiplo e psicosomatica di ispirazione psicoanalitica” in Psicoanalisi e neuroscienze (a cura di G. Moccia e L. Soano), Franco Angeli, 2009

- Sommaruga Pierluigi: Gruppi e gruppalità nella teoria e nell’esperienza, in Oltre la parola (Giovanna Bosco, a cura di), Guerini, 2001

3 commenti a I processi di elaborazione di esperienze ‘indicibili’ – parte 1°

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    Luisa Salvietti scrive:

    La ringrazio, dott.ssa Bosco, per l’attenzione che mi ha dedicato, prima con la sua risposta  al mio commento al precedente articolo su Corpo e Voce, e adesso prendendo lo spunto da  quello che avevo scritto allora per questo suo nuovo articolo sull’Indicibile. Le parole di Winnicott, che Lei cita, mi hanno colpita. Anche se conosco Winnicott fin dai tempi della mia formazione, mi sembra adesso di comprenderlo  un po’ di più. Quanto al presente articolo, trovo molto interessante la Teoria di Wilma Bucci, che non conoscevo. Anche se i concetti utilizzati dalla Bucci risultano un po’ostici,  mi propongo di rileggere con calma una seconda volta, per capire meglio. Mi sono sentita capita quando Lei parla del bisogno di rimanere connessi con il mondo in cui ci si è formati, ma senza  per questo rinunciare a conoscere cose nuove.  

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    Vera De Luca scrive:

    La pioggia di stamattina, finalmente, si è combinata con il desiderio sospeso di leggere questo scritto. E' importante per me ritornare su questa analisi e riflessione, teorica e clinica, che ha accompagnato la mia formazione  sostanziando la pratica professionale. In questo periodo mi interrogo sul senso delle scelte compiute. Una certa insoddisfazione o senso di perdita, di confuso smarrimento, mi induce a cercare freschi  germogli.  La lettura di oggi è stata come ritrovare il mio grande albero, ben radicato nel terreno   

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    Teresa Mutalipassi scrive:

    Ho trovato l'articolo della dottoressa Bosco molto stimolante, sia per l'argomento, "l'indicibile" sia per i contributi che ha proposto intorno al tema. Credo che di fronte a fenomeni complessi e l'"indicibile" lo è, servano approcci complessi, che possano riferirsi e comprendere anche  mondi e pensieri che affrontano tale fenomeno con paradigmi e strumenti diversi dai propri. E' sempre un'operazione difficile accogliere ciò che è diverso da noi e che ci restituisce talvolta, anche il senso del limite di ciò che siamo e il bisogno che comunque abbiamo di ciò che è altro da noi. Non conosco la teoria di Wilma Bucci (la dott.ssa Bosco mi ha fatto nascere la curiosità di saperne di più), immagino però, quanto possa essere complicato avventurarsi in un modello di pensiero e in un linguaggio così poco familiare. Ma si sa, ce lo insegna la psicoanalisi, per crescere, per costruire identità bisogna allontanarsi dal familiare….. Il pensiero gruppale poi e l'esperienza concreta di stare in un gruppo, ci mettono direttamente in contatto con l'altro/gli altri, sperimentando la necessità di fare continuamente operazioni di integrazione fra i nostri gruppi interni e l'esterno. l'esperienza dell'ascolto e dell'accoglienza dell'altro, così come i processi di integrazione fra ciò che si è e ciò con cui si viene in contatto, ritengo abbiano molto a che fare con l'"indicibile", in quanto esperienze che coinvolgono la persona su piani diversi. Attivano sensazioni, emozioni, stati mentali e pensieri che non sempre e necessariamente possono accedere alla consapevolezza. Questo non significa che non possano generare movimenti trasformativi. Insomma, la dottoressa Bosco ci ha portato su sentieri "indicibili" da esplorare.

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