Una stanza tutta per lei
di Teresa Mutalipassi
Presentazione
Caso emblematico quello di Nina, con una storia traumatica fatta di maltrattamenti, abusi, rifiuti fin dalla più tenera età, inviata alla collega Teresa Mutalipassi per una “valutazione delle capacità genitoriali”. Adolescente nell’aspetto nonostante i suoi 25 anni, Nina riversa sull’interlocutrice un fiume di parole spezzate e accavallate, spesso incomprensibili, tanto che per cercare di capire il “groviglio spaventoso di spaventi ed abbandoni” bisogna “ascoltare e guardare anche altro” : il suo corpo minuto, cresciuto a stento, cui sembra affidare il compito di parlare per lei attraverso i tatuaggi infantili, i colori sgargianti dei capelli, le tensioni ed i dolori, quel suo muoversi continuamente sulla sedia che evoca il “corpicino di un neonato lasciato in uno spazio vuoto, esposto e non contenuto”, e così via. “Lasciare spazio alle immagini, ai suoni e alle emozioni associate a questi è stato l’unico modo per capire qualcosa di lei e del suo mondo” ci dice Teresa. E dopo aver segnalato che non vede per Nina la possibilità di una terapia “canonica”, si pone e pone al lettore molte importanti domande. Si tratta dunque di uno scritto fortemente interlocutorio, che ben si presta, partendo da un’esperienza vissuta e fortemente “sentita”, a favorire l’immedesimazione e la circolazione di sensazioni, immagini, riflessioni. Ci auguriamo dunque che i lettori siano stimolati a contribuire, attraverso i loro commenti sul caso di Nina, allo sviluppo della riflessione sull’”indicibile” che da tempo ci vede impegnati come Associazione.
Giovanna Bosco
UNA STANZA TUTTA PER LEI
di Teresa Mutalipassi
Nel seminario del 15 ottobre 2016, dedicato alle Immagini, durante la presentazione del tema e i diversi contributi che sono venuti dai partecipanti, nella mia mente e di fronte ai miei occhi continuava ad insistere un’immagine, quella di una giovane donna che ho incontrato e rivisto per un percorso di valutazione delle capacità genitoriali. Non era un ambito terapeutico, non avevo il compito né la possibilità di avviare una relazione di cura con lei, ma i nostri incontri sono stati molto intensi e emotivamente impegnativi. Con lei mi sono sentita spesso disorientata e talvolta “sprovvista di mezzi” nel comprendere e comunicare, quando le sue parole si facevano incomprensibili e vuote e invece di spiegare mi confondevano.
Nina ha 25 anni ed è madre di un bimbo di poco più di un anno. Nina è una ragazzina, non una giovane donna anche madre. E’ piccola, minuta e il suo look è quello di un’adolescente. I capelli rasati, con un grande ciuffo che le scende sugli occhi, ogni settimana cambiano colore ma prevale il rosa, i piercing sul viso e i tatuaggi lungo il corpo, colorati e ispirati ai più classici personaggi dei film di Disney.
Nina ha avuto un’infanzia terribile, fatta di maltrattamenti anche fisici, soprattutto da parte della madre, fatta di rifiuti, di spostamenti fra la casa del padre e quella della madre, perché ingombrante, non voluta. Una bambina bistrattata e svalorizzata, a quanto pare anche oggetto di abusi sessuali in tenera età. Nina è cresciuta lo stesso, difendendosi come ha potuto da tanta sopraffazione, facendosi forza sulle sole sue forze e risorse.
Ma Nina non sa parlare. Non che non ne abbia facoltà, anzi, lei parla, anche tanto a volte, ma il suo linguaggio talvolta è incomprensibile, un fiume di parole che si spezzano e che si accavallano l’una sull’altra, fatto di espressioni gergali da adolescente e di improvvise accelerazioni seguite da sospensioni del discorso. Nina parla e allo stesso tempo si mangia le parole, spesso non si riesce a seguire il filo dei racconti, non c’è tempo e soprattutto non c’è filo, bisognerebbe continuamente fermarla per chiedere di chi sta parlando in quel momento, quando è successa quella cosa, dove era… L’ho fatto sistematicamente, per cercare di raccapezzarmi in quella folla di parole smozzicate, poi ho capito che non era sufficiente la mia attenzione minuziosa per comprendere il senso del suo parlare, avevo bisogno di ascoltare e guardare anche altro, nella trama delle parole, nelle immagini e nei sentimenti che si affollavano davanti ai miei occhi e nella mente.
Nina è il corpo che parla, un corpo che vive a fatica, diventato grande a stento, che ti rimanda un senso di fragilità e preoccupazione, che ti fa sentire sull’orlo di un baratro e ti fa pronunciare parole silenzios: come fa? come si regge in piedi, come la sua mente non è trascinata nella follia? Durante i colloqui si muove continuamente sulla sedia, si stira, si contrae, con smorfie di dolore che a volte cela dietro un sorriso falsamente divertito. Ha tanti dolori Nina, la schiena le fa male, il collo è duro, le braccia non trovano una posizione comoda, tutto si muove, come il corpicino di un neonato lasciato in uno spazio vuoto, esposto e non contenuto, incapace, da solo, di ricomporre se stesso e le sue membra e così una tensione a volte molto forte, lo pervade. Io vedo questo nella ragazza seduta di fronte a me. Non a caso, sentirei il bisogno di abbracciarla, di raccoglierla, come protezione e per darle calore. Un cucciolo impaurito, come uno dei cagnolini tatuati sulla gamba. Nina effettivamente ha problemi fisici, tanti dolori ossei, si ammala facilmente e soffre di crisi definite epilettiche, anche se mai è stata diagnosticata davvero questa patologia.
Lei racconta a modo suo un dramma di vita, dove la mancanza di uno spazio di relazione affettivo e protettivo non ha permesso di sperimentare l’incontro con l’altro come vitale ed evolutivo. Nina non riesce facilmente a comunicare con le parole perché i suoi vissuti esperienziali sono un groviglio doloroso di spaventi ed abbandoni. Come si fa a parlare di questo? La traduzione in parole rischia di rendere tutto ancora più orrendo e rinnova, presentifica quello che è stato e i sentimenti correlati. E poi, come si fa a fidarsi, a lasciarsi andare nelle braccia di un altro, quando dalle braccia dell’altro mille volte si è caduti?
Nina gioca con gli sguardi, seducenti e imbronciati, chiede aiuto e allo stesso tempo mostra di non avere bisogno di niente. Non lo dice, lo vedo. Come il giorno che arriva all’appuntamento sotto una pioggia scrosciante, senza ombrello, con il cappuccio della felpa sugli occhi, grondante di acqua. Quando apro, il suo sguardo mi dice che lei non vale neanche la precauzione di prendere un ombrello per ripararsi, che manca qualcuno che si prenda cura di lei, che pensi a cosa è meglio per lei, che anticipi i bisogni e i rischi della vita, aiutandola a conoscerli per poi gestirli da sola. Ma per Nina non è mai stato così.
Ogni tanto racconta qualche episodio delle violenze subite, come quella volta che la madre le ha spaccato un vaso in testa. Il racconto allora diventa minuzioso, ricco di particolari che colpiscono chi ascolta, ti senti sgomento e vergognoso per quella violenza di aduli incapaci e malati. Ma nei discorsi di Nina, posso per lo più ascoltare, non c’è intenzione di dialogo, né porte aperte sui sentimenti. Il racconto avviene tutto di un fiato, non c’è possibilità di inserirsi e io sento che è un copione consolidato, probabilmente già raccontato a molti altri prima di me. Non è falso ciò che racconta, però è come se l’avesse emotivamente ingabbiato in una sequenza, sempre la stessa, delle stesse parole. In questo modo può domare il dolore, aprire e velocemente chiudere una finestra sul baratro, lasciandoti impotente.
Mi sono chiesta ripetutamente quale spazio ci può essere per una relazione autentica con Nina, quale è il piano in cui può esserci un eventuale incontro con lei che possa, forse, lenire e riparare qualche ferita e aprire una possibilità “rigenerativa”, a partire proprio dal suo corpo dolente. Qui le parole dicono e non dicono, a volte vanno prese come suoni e trasmettitori di segnali più che per il loro significato letterale
Lasciare spazio alle immagini, ai suoni e alle emozioni associate a questi è stato l’unico modo per capire qualcosa di lei e del suo mondo. Io per Nina non vedo la possibilità di una terapia, per il significato canonico che diamo a questo termine. Io immagino o forse sarebbe meglio dire che sogno “una stanza dei giochi tutta per lei”, uso il termine sognare perché non è facile trovare un contesto terapeutico di questo tipo, si tratterebbe di attivare una funzione di “holding” come Winnicott l’ha indicata, una funzione materna di contenitore e sostegno, attraverso cui provare a ri-avvicinare e accarezzare il corpo sofferente (con cautela!), tradurre quei tatuaggi in fantasia, utilizzare quei colori sgargianti che indossa per ri-provare a disegnare la sua persona.
Chi è stato così profondamente violato, spaventato e deluso nella relazione con l’altro, dove non ha trovato parole che dessero senso all’esperienza e riconoscimento alla sua persona quanto e come è avvicinabile, quanto e come potrà provare ad affidarsi per accedere alla dimensione dell’affetto e della speranza?
Per me la stanza dei giochi è prima di tutto un contenitore, uno spazio relazionale tutto da inventare. E quindi, come lo si potrebbe caratterizzare questo spazio e in quale posizione e con quale ruolo si troverebbe un terapeuta? Cosa può diventare setting che protegge e aiuta a riconoscere e quali i linguaggi e gli strumenti per avvicinare e comunicare? Certo c’è molto su cui immaginare…..
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