Perché l’eco della guerra distrugge le relazioni dialogiche?

di Giovanna Bosco

Non appena il discorso cade sulle guerre in corso, facciamo continuamente esperienza della enorme difficoltà a mantenere una relazione dialogica, in cui anche una parziale differenza di punti di vista non sia immediatamente percepita come qualcosa di intollerabile e riprovevole. Persino tra persone che hanno per lungo tempo condiviso aspetti importanti della vita (affetti, amicizia, stima, visioni del mondo e imprese comuni) può accadere di trovarsi in men che non si dica schierati in campi avversi, come se ci si scoprisse arruolati, volenti o nolenti, in eserciti contrapposti.  Questo avviene soprattutto quando le guerre e i conflitti sono percepiti come “vicini”, anche se non li viviamo in prima persona.

Parlando di vicinanza non mi riferisco solamente a un dato geografico ma penso soprattutto a quel vissuto di prossimità derivante da fattori culturali, identitari, emotivi.  Così, fino a un paio di anni fa le notizie delle guerre che si svolgevano non solo in aree lontane del mondo ma anche in luoghi geograficamente vicini a noi, come il Libano, la Libia, la Siria, lasciavano alcuni indifferenti, colpivano e turbavano altri, ma in ogni caso ben pochi si sentivano profondamente coinvolti, sia perché le popolazioni straziate dalla guerra erano percepite come appartenenti a mondi molto diversi dal nostro sia perché le notizie e le immagini della guerra non ci invadevano ad ogni ora attraverso i giornali, lo schermo della TV, i social media.  Si pensava che a noi non potesse toccare. Ci rassicurava l’idea di vivere in un continente che, dopo due devastanti guerre nel secolo scorso, sembrava aver trovato la ricetta per una risoluzione non distruttiva dei propri conflitti. L’esperienza della guerra sembrava confinata nel campo dell’intrattenimento. Attraverso i videogame o i giochi di ruolo, si poteva ferire, uccidere o morire senza che nessuno si facesse realmente male, e senza un significativo coinvolgimento emotivo.

Questa idea che le guerre vere, con il loro terribile carico di atrocità, di distruzione, di morte, fossero confinate in un lontano passato è stata spazzata via nel giro di due anni, prima dalla guerra russo-ucraina, poi dall’esplodere del conflitto israelo-palestinese. Due conflitti vicini a noi, sia dal punto di vista geografico che identitario. Due incendi che purtroppo il mondo circostante sembra propenso ad alimentare e a estendere più che a circoscrivere e spegnere.

Incomincia a vacillare anche la convinzione, nata durante la “guerra fredda”, che la disponibilità di armi atomiche da parte dei vari schieramenti, determinando una sorta di “equilibrio del terrore”, mettesse al riparo dal ricorso alle armi più letali. Oggi la consapevolezza che premere il famoso “bottone rosso” significherebbe in poche ore la totale distruzione reciproca sembra in parte oscurata dall’ossessione di “vincere” e dall’idea fallace che la propria sicurezza richieda la completa sconfitta e umiliazione dell’avversario, se non addirittura la sua estinzione.

Perché si è arrivati a ciò che fino a poco tempo fa era impensabile?  Senza sottovalutare le responsabilità dei decisori e di quanti hanno il potere di influenzare  le opinioni pubbliche, le ambizioni dei leader politici e di coloro che vedono nelle guerre un’opportunità economica, chi si occupa della salute psichica e delle relazioni umane ha anzitutto il compito di  provare a comprendere e a rendere comprensibile il significato più profondo della follia collettiva  rappresentata dalla guerra, che determina una fortissima polarizzazione anche in chi non la sta vivendo in prima persona. Questa polarizzazione sull’asse amico-nemico fa sì che anche nel mondo circostante le persone si sentano obbligate a schierarsi, e a stabilire in modo sommario, fin dalle prime espressioni, se le persone che incontrano appartengono al proprio campo oppure vanno collocate nel campo avversario.

Comprendere il senso di questi processi psichici e di questi blocchi nella sfera relazionale è fondamentale per tenere aperti o per ricostruire quegli spazi di dialogo che sono indispensabili per poter arrivare ad una ricomposizione dei conflitti.

Già Freud, nel suo carteggio con Einstein, avvenuto nel 1931, si interrogava su ciò che spinge gli esseri umani alla guerra. Egli riteneva impossibile eliminare del tutto le tendenze aggressive e distruttive che provocano le guerre a causa della presenza in ogni essere umano, accanto alla pulsione di vita (Eros), della pulsione di morte (Thanatos). Aggiungeva però che era possibile trovare un antidoto alla guerra favorendo “tutto ciò che favorisce l’incivilimento” e in particolare la possibilità di identificarsi con l’Altro.

Nel secondo dopoguerra Franco Fornari cercò di avvicinarsi sempre più al mistero del Male, indagando l’origine della distruttività umana, per poter contribuire alla costruzione della pace. Le sue riflessioni furono rese pubbliche attraverso un testo pubblicato sulla Rivista di Psicoanalisi nel 1964, con il titolo Psicoanalisi della guerra, poi sottoposto a successive rielaborazioni ed arricchimenti.

Fornari considera la guerra come conseguenza dell’angoscia di morte.  Com’é possibile, vien da chiedersi, che per tenere a bada l’angoscia di morte si scelga la guerra, che espone proprio alla morte e alla distruzione?  Fornari parte dalla considerazione che il pensiero della inevitabilità della propria morte, naturale conclusione di ogni vita, è così angoscioso da indurci ad espellerlo in ogni modo. Come? Considerando la morte come qualcosa che tocca solamente agli altri, ossia negandola. Oppure pensando alla morte come a qualcosa che viene dall’esterno. E allora, per illudersi di mantenere la vita e di sconfiggere la morte, si cerca al di fuori di noi un colpevole da uccidere, un nemico da annientare.

La guerra è la condizione in cui una società, attraverso le sue istituzioni, fa cadere il tabù dell’omicidio. Così l’essere umano può uccidere senza riconoscere in sé stesso il desiderio di far morire e può trattare l’odio e la morte come se venissero esclusivamente da qualcun altro.

Questo è per Fornari il senso dello schema scisso Bene/Male, Amico/Nemico che sta alla base delle guerre. Tracciare mentalmente una linea netta non solo di separazione ma anche di contrapposizione, considerando tutti coloro che stanno al di là di quella linea dei nemici che ci vogliono distruggere, perpetua l’illusione che, uccidendo questi nemici, si sia in grado di sconfiggere la stessa Morte.

Alcune esperienze che ho avuto modo di fare negli ultimi tempi nella mia pratica psicoterapeutica, oltre che in gruppi esperienziali e in scambi comunicativi di varia natura, mi hanno indotta ad un’ulteriore riflessione.

Una mia paziente si era sentita profondamente traumatizzata dalla notizia di quanto  avvenuto il 7 ottobre. Pur non avendo lei particolari rapporti con Israele e gli israeliani e pur non essendo ebrea, viveva quei traumi come se fossero accaduti a lei, anche per una forma di contagio emotivo derivante dal rapporto con amiche ebree che presumibilmente avevano portato la sua attenzione in modo ripetuto sulle atrocità di cui erano stati vittime gli israeliani durante l’incursione di Hamas.  Proprio come chi ha vissuto in prima persona un grave trauma, la paziente, che chiamerò Anna, continuava a vivere in quel tempo passato. Era come se non ci fosse un presente e quindi non potesse prestare attenzione agli sviluppi successivi del conflitto e tanto meno avere pensieri rivolti al futuro.  Questa identificazione intrisa di angoscia con una delle parti, unita alla scissione tra Bene e Male (da una parte le vittime, dall’altra i carnefici che rappresentavano il Male assoluto) l’aveva indotta ad interrompere i rapporti con altre persone amiche, che pure le mancavano. Persone con cui “era impossibile parlare” in quanto, diversamente da lei, erano soprattutto centrate sul dramma e sulle ragioni dei Palestinesi. Lo scenario era quello  di una insanabile contrapposizione in cui non c’è alcuno spazio per ascoltare un punto di vista diverso dal proprio,  non ci si può più parlare, si possono solo alzare muri.

Anna aveva scoperto casualmente che io, a distanza di tre mesi dal feroce attacco di Hamas e da quelle violenze che pure in me avevano suscitato orrore, mi ero espressa pubblicamente in modo altrettanto critico a proposito della risposta israeliana e avevo auspicato che il mondo inducesse lo Stato di Israele a porre fine allo sterminio degli abitanti della striscia di Gaza. Anna ne era stata turbata al punto da pensare di non potersi più affidare ad una terapeuta che non stava “dalla sua parte”.  Mentre elaboravamo e scioglievamo insieme questi nodi, le avevo comunicato un mio pensiero sulla duplice natura dell’angoscia suscitata in ciascuno di noi dai conflitti armati: oltre alla paura di perdere la vita, o di subire atroci violenze, si teme che possano emergere lati nostri che ci è insopportabile riconoscere, aspetti distruttivi, violenti, che noi sentiremmo come riprovevoli.

Anna aveva immediatamente associato questa mia comunicazione al ricordo della madre, che tendeva a considerare nemici giurati coloro con cui c’erano stati piccoli screzi o incomprensioni, ingigantendo i motivi di contrasto e trasformando i dissapori in conflitti insanabili. Il riconoscimento di quella sua parte interiorizzata, che tendeva ad ingigantire i torti subiti per poter esprimere la propria aggressività e distruttività, aprì la strada, per Anna, a immagini in cui il conflitto cedeva il carattere distruttivo per diventare qualcosa di vivibile da entrambe le parti, di quasi giocoso, e a sogni di pacificazione.

Questa ed altre esperienze mi portano a pensare che ogni guerra ponga forzatamente ciascuna delle parti in causa nella condizione di essere sia vittima che carnefice. Di qui un doppio terrore: oltre alla paura di perdere la vita, al terrore di subire atroci violenze, c’è anche l’angoscia di scoprire che pure noi, o il pezzo di mondo cui apparteniamo, scivoliamo in una zona di buio in cui possono emergere lati nostri che ci è insopportabile riconoscere, aspetti distruttivi, violenti, forse addirittura malvagi…

E poiché questo è sentito come intollerabile, per sopravvivere psichicamente, per non andare in frantumi, si attribuiscono esclusivamente agli altri tutti quei comportamenti e quelle caratteristiche che ai nostri occhi rappresentano il Male. Così si preserva l’immagine di Sé (e della propria parte) e al contempo si giustifica qualsiasi atto, anche il più disumano, come qualcosa di inevitabile, di necessario per difendere sé stessi, la propria gente, il proprio paese.

Anche coloro che non sono direttamente parte in causa nella guerra sono indotti dalla continua esposizione alle notizie della guerra, con tutto il suo carico di atrocità, ad identificarsi con una delle due parti, che diventa ai propri occhi la parte del Bene e del Giusto, in cui ci sono esclusivamente vittime incolpevoli dell’altrui Malvagità.    Anche perché questo è lo schema adottato dalla maggior parte di coloro che forniscono le notizie e da molti dei cosiddetti “opinionisti” che le commentano.

Pur non essendo direttamente in guerra, si finisce così, sia per motivi interni che per le pressioni provenienti dall’esterno,  per adottare lo stesso meccanismo di scissione tra Bene e Male: attribuendo tutta la malvagità all’altra parte, possiamo continuare a coltivare la convinzione che i nostri moti dell’animo, i nostri pensieri, le nostre azioni sono irreprensibili, che noi siamo limpidi e puri, privi di zone grigie, opache, incapaci di fare qualcosa di male, anche qualora i venti della guerra arrivassero ad investirci.

* L’autrice: Giovanna Bosco, psicoterapeuta, socio ordinario GASi  (Group Analytic Society International), già responsabile della Scuola di Formazione E-spèira, autrice e curatrice di varie pubblicazioni tra cui “Oltre la parola: la relazione terapeutica e formativa tra psicoanalisi e arti-terapie”, Ed. Guerini, 2001

 

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