L’incontro con il trauma: riflessioni su “Una stanza tutta per lei”

di Giovanna Bosco

Premessa
Dopo uno dei seminari tenuti presso la nostra sede sul tema dell’ “indicibile”,  in cui era emersa la potenza comunicativa delle immagini mentali, particolarmente quando la relazione si fa emotivamente impegnativa, Teresa Mutalipassi ci ha inviato un interessante scritto, pubblicato all’inizio di settembre,  in cui torna con il ricordo al caso di Nina, una giovane donna con una storia di abusi e maltrattamenti alle spalle, inviata a lei per una valutazione delle sue capacità genitoriali.  Lo scritto, coinvolgente, interlocutorio e generoso nel rivelare sensazioni, difficoltà, immagini, desideri, pensieri suscitati da quell’incontro, aveva stimolato due brevi ma significativi Commenti da parte di  Luciana Monzi e Vera De Luca.
Rileggendo quello scritto a distanza di un po’ di tempo insieme ai Commenti, son stata sollecitata a riflettere su varie questioni, in particolare:

- le difficoltà emotive e relazionali cui siamo esposti quando ci viene richiesta una valutazione delle capacità genitoriali rispetto a soggetti che, prima di diventare genitori,  sono stati bambini  maltrattati o abusati e che quindi arrivano a noi con un carico di sofferenze indicibili ma inscritte nel corpo, se sappiamo ascoltarlo. Chi vediamo di fronte a noi?  Una madre inadeguata? O che va sostenuta e aiutata a svolgere le funzioni materne?  O una ragazzina mal-trattata da proteggere?  Con chi ci identifichiamo e con chi empatizziamo?  Con il figlio? Con la madre? Con la bambina segnata da mille spaventi, abbandoni e abusi che è in lei?

-  le problematiche relative al setting e all’approccio terapeutico da adottare con chi ha alle spalle una lunga storia di traumi ed abusi:  bisogna limitarsi a offrire ascolto empatico, sostegno, holding o è possibile e opportuna una qualche forma di elaborazione del trauma?  Quando ci rendiamo conto che una terapia “canonica” non è praticabile, e pensiamo ad un setting ludico-espressivo in cui ci sia spazio anche per la comunicazione non verbale,  che posto dare al nostro desiderio di offrire le carezze e gli abbracci che all’altro sono mancati? 
Ringrazio Teresa Mutalipassi, come pure  Luciana Monzi e  Vera De Luca per avermi dato l’opportunità di sviluppare qualche pensiero su queste questioni. Offro queste note a chi legge, senza alcuna pretesa di trattare in modo organico argomenti così complessi, con l’auspicio che contribuiscano a rilanciare la messa in comune di esperienze e riflessioni su questi temi.

Non è facile, quando l’incontro con l’Altro avviene in un contesto diverso dalla “cura”, in particolare quando  ci viene chiesta una “diagnosi”  oppure, come nel caso presentato da Teresa Mutalipassi, una “valutazione delle capacità genitoriali”, sviluppare un ascolto empatico. Durante i colloqui, infatti, siamo, almeno parzialmente, occupati dalle finalità valutative  assegnate,  e questo comporta tutto un lavorio di acquisizione di informazioni, formulazione di ipotesi, ricerca di conferme a queste ipotesi o loro modifica in base a ciò che man mano emerge. Questi pensieri riducono, anche in chi ha grandi doti di sensibilità e empatia,  quello spazio  interiore che è indispensabile per sviluppare pienamente un ascolto empatico.  “Ascolto” non solo del discorso verbale dell’Altro, ma anche  delle “sensazioni” che ci trasmette attraverso il ritmo e le vibrazioni della sua voce (lo sfondo sonoro  su cui scorre il fiume talvolta tumultuoso delle parole), e ogni altra forma di espressione del corpo. 

In una relazione di “cura” un ascolto libero da intenti valutativi  permette di risuonare con l’Altro e di sentire, sia pure in modo più attenuato, ciò che l’altra persona prova,  anche se non è in grado di esprimerlo attraverso le parole. E se non siamo occupati da un eccesso di echi derivanti da problemi nostri non risolti, c’è lo spazio perché da queste radici corporee nascano delle immagini che aprono alla scoperta di un senso emotivo e relazionale.  

Tuttavia anche in un colloquio con finalità valutative – qui sta il paradosso con cui siam chiamati a misurarci -  quando ci troviamo di fronte ad un “fiume di parole che si spezzano e si accavallano l’una sull’altra”, quando non c’è “filo” del racconto, come nel caso esposto, e neppure serve ascoltare con “attenzione minuziosa” e chiedere chiarimenti, solo un ascolto di tipo empatico può  permetterci di andare oltre la frustrante sensazione che nulla abbia senso e che noi stessi siamo incapaci di trovare un senso.

E’ dunque comprensibile  il disorientamento che prova Teresa Mutalipassi, il suo sentirsi “sprovvista di mezzi” quando si trova di fronte a parole incomprensibili e vuote che, anzichè “spiegare”, la confondono.  Finchè rinuncia a cercare chiarimenti e spiegazioni e si dispone ad ascoltare e vedere anche “altro”.  Scopre così che Nina, questa giovane dall’aspetto minuto di adolescente, con una lunga storia di svalutazione, rifiuti, abbandoni e violenze, è “corpo che parla, un corpo che vive a fatica, diventato grande a stento, che ti rimanda un senso di fragilità e preoccupazione, che ti fa sentire sull’orlo di un baratro e ti fa pronunciare parole silenziose: come fa? Come si regge in piedi, come la sua mente non è trascinata dalla follia?”  E nascono in lei molte immagini vivide: vede Nina come “un cucciolo impaurito”, proprio come uno dei cagnolini che ha tatuati sulla gamba.  Comprende che Nina non riesce facilmente a comunicare con le parole perché la sua storia è un groviglio doloroso di spaventi ed abbandoni e “come si fa a parlare di questo?” Si rende conto che la  “traduzione in parole” rischia di rendere tutto ancora più insostenibile. “E poi come si fa a fidarsi,  a lasciarsi andare nelle braccia di un altro, quando dalle braccia dell’Altro mille volte si è caduti?”.   La sua posizione  ora è cambiata, ha messo in stand by (o abbandonato?) le finalità valutative,  e questo le ha permesso di entrare intimamente nel mondo di Nina. Questa nuova disposizione empatica la porta a sentire ciò che Nina esprime con il suo corpo ma di cui non è ancora  consapevole, e prendono forma in lei  molte immagini vivide.  E’ ora in grado di dare  senso dentro di sé a molte comunicazioni non verbali di Nina, come ad esempio quando arriva all’appuntamento grondante di pioggia e  “il suo sguardo mi dice che lei non vale neanche la precauzione di prendere un ombrello per ripararsi”. 

Il racconto di Teresa Mutalipassi è emozionante e coinvolgente, del resto si sente che lei stessa è stata fortemente coinvolta, sul piano affettivo, dall’incontro con Nina.  L’immedesimazione empatica con Nina fa nascere in lei il desiderio di abbracciarla, accoglierla, darle calore, la porta a sognare di predisporre “una stanza dei giochi tutta per lei”,  a chiedersi quale approccio terapeutico sia indicato per Nina. Pensa ad una funzione di holding, e ad un setting in cui sia possibile, con cautela,” accarezzare il  corpo sofferente”, utilizzare i colori sgargianti che lei indossa e porta sui capelli per “provare a ri-disegnare la sua persona”.  E al tempo stesso si chiede e ci chiede quanto sia avvicinabile, quanto potrà fidarsi “chi è stato così profondamente violato, spaventato e deluso nella relazione con l’altro”. 

Prima di seguirla su questa strada, vorrei riportare l’attenzione sul contesto in cui nascono gli incontri con Nina, inviata alla collega per una valutazione sulle sue capacità genitoriali.  Un contesto che strada facendo sembra scolorire per lasciare posto al desiderio di offrire alla stessa Nina una relazione affettiva e protettiva che ripari le ferite e offra quel contenitore emotivo “materno” che le è mancato per l’inadeguatezza delle figure genitoriali che le sono toccate in sorte. Un desiderio così sentito da mettere fuori scena la relazione tra Nina e il suo bimbo di poco più di un anno.  Questo mi fa riflettere sulla difficoltà, quando si è chiamati a svolgere compiti come quello assegnato alla collega, a mettere in stand by le finalità valutative – che, quando sono una presenza troppo ingombrante,  rischiano di metterci nell’impossibilità di capire davvero quello su cui dovremmo dare un parere -  senza tuttavia escluderle completamente dal nostro orizzonte. Se è vero che valutazione e responsabilizzazione appartengono alla sfera del “paterno”, mentre l’accettazione incondizionata e la sintonizzazione empatica sono funzioni proprie del “materno”, come far coesistere dentro di noi queste polarità?  

Alcuni pensieri contenuti nei Commenti  ci aiutano ad aprire uno spazio di terzietà, in cui sia possibile  pensare, insieme al benessere di Nina, anche al benessere del suo piccolo bimbo.  “Cosa cucina d buono al suo bambino?” si chiede Luciana Monzi. E Vera De Luca si domanda come sia diventata lei stessa madre, in che modo riesce ad essere fonte di cura e nutrimento, e “se lo sa il suo corpo e la sua mente”.  E poi ancora osserva che forse ciò che può indurre Nina ad accettare “una buona holding” può nascere proprio dal desiderio di crescere questo figlio.

Vorrei ora tornare ai pensieri di Teresa Mutalipassi  su un setting e un approccio terapeutico  da predisporre su misura per Nina.  Anche se non sarà lei a poter accompagnare Nina in un percorso terapeutico, sogna una “stanza dei giochi tutta per lei”, e prova ad immaginare come dovrebbe essere. Pensa ad un contesto di contenimento e sostegno, in cui poter sviluppare anche attività ludico-espressive, e poter “ri-maneggiare  e accarezzare con cautela” il corpo violato e sofferente di Nina. E al contempo si chiede e ci chiede quanto sia avvicinabile e quanto potrà affidarsi chi ha una storia personale così traumatica, e quanto potrà accedere alla dimensione del “pensiero parlato”, oltre che dell’ “affetto” e della speranza.

Raccogliendo le sue sollecitazioni, mi limiterò a dire qualcosa, tenendo presenti anche i commenti già citati.

Il racconto di Teresa Mutalipassi ci dice che Nina ha subito trami e violenze fisiche, che solitamente danneggiano profondamente il proprio senso di sicurezza e integrità fisica, e traumi per cosi dire minori (come l’essere sballottata da un genitore all’altro e bistrattata) che tuttavia, quando sono  ripetuti nel tempo, hanno un peso negativo sul senso di integrità emotiva e sul vissuto che si ha di sé stessi e del mondo. 
Con il passar del tempo e il supporto di un nuovo ambiente che offra sicurezza e accettazione, che sia accogliente, amorevole e valorizzante, le ferite si possono riparare, e si può costruire o ricostituire quel senso di integrità che non si era sviluppato o si era spezzato, come segnala nel suo Commento Luciana Monzi attraverso il racconto di una storia a lieto fine “che sembra una fiaba ma è una storia vera”.

Nel mondo della psicoterapia c’è ampia concordanza sul fatto che con le persone che hanno subito ripetuti traumi è fondamentale che lo psicoterapeuta offra ascolto empatico, holding, sostegno, sicurezza, mantenendosi sul piano del ‘qui ed ora”.  Solo quando il senso di integrità, sicurezza e fiducia sarà consolidato, si potrà tornare a visitare, senza esserne travolti, i luoghi del passato,  così come la protagonista della storia raccontata da Luciana Monzi, una donna brasiliana che si è rifatta una vita in Italia, solo dopo vent’anni può pensare di tornare a incontrare persone e luoghi della sua infanzia nel Brasile dove è stata prima bambina abusata, poi ‘nina de rue’. Fuor di metafora, solo dopo  una lunga fase in cui il terapeuta si limita ad accompagnare ed offrire comprensione empatica si potranno riattraversare le esperienza passate, attenuandone la carica di angoscia, rabbia, paura, e sviluppare qualche forma di insight.

Bisogna tuttavia anche tener presente che solitamente ci si difende dall’evento traumatico confinando in una parte scollegata dall’esperienza di Sé sensazioni, emozioni, immagini che lo hanno accompagnato. Del trauma restano solo frammenti di memoria implicita, confinati in isole di non senso. Sensazioni ed immagini restano così congelate e indicibili (come il tatuaggio del cagnolino spaurito sul corpo di Nina, frammento arenato di un naufragio emotivo che Nina non può ricordare e tanto meno raccontare come esperienza vissuta), ma pronte a riattivarsi nel presente con la loro carica di svalutazione di sé, di senso di pericolo, di impossibilità a fidarsi del mondo, in modo imprevedibile e senza un apparente perché, e senza possibilità di ricondurli né all’evento traumatico passato, né a vicende attuali coerenti con tali vissuti. A volte le vicende traumatiche prendono la via della somatizzazione, e anche questo accade a Nina, e i mali del corpo diventato un sostituto del dolore psichico che potrebbe essere insostenibile, che potrebbe far impazzire. Altra volte ancora i soggetti che hanno subito traumi hanno adottato, per proteggersi, meccanismi di estraniamento rispetto a tutto ciò che li circonda, che impediscono loro di provare vere emozioni ed affetti, per cui vengono percepiti come indifferenti o inautentici.

Chi sente il desiderio di dare le carezze, il calore e l’affetto che sono mancati alla paziente spesso scopre  che la mano che si muove per accarezzare delicatamente può essere percepita, da chi ha subito maltrattamenti e abusi fisici, come qualcosa di pericoloso e minaccioso. Tuttavia il desiderio di accarezzare o tenere tra le braccia non va considerato come qualcosa di sbagliato. Se noi siamo in sintonia con l’altro prenderà diverse vie di espressione, si trasformerà in forme accettabili dal paziente. Potrà ad esempio manifestarsi, se è qualcosa di autentico e profondamente sentito, attraverso la nostra voce, conferendole un timbro carezzevole e una temperatura calda, o per meglio dire improntata ad un delicato tepore. E sarà allora la nostra voce,  più delle parole che diciamo, o dei gesti che vorremmo fare, ad offrire quella “holding” che sappiamo così importante. Non perchè ci sforziamo di modulare la voce in un certo modo, ma perché c’è una autentica e profonda corrispondenza tra ciò che sentiamo e ciò che la nostra voce esprime.

Mi sembra appropriata l’idea che in casi come quello di Nina sia buona cosa allestire un setting in cui poter svolgere anche delle attività ludico-espressive. L’esperienza mi porta a ritenere che il dispositivo gruppale sia il più adatto, ove possibile, a favorire l’espressività e il gioco. Una importante funzione del conduttore consisterà allora nel favorire nel gruppo lo sviluppo di un clima accogliente e ludico, poiché questo rende più tollerabile esprimere ed elaborare quelle sensazioni, emozioni e immagini che erano rimaste congelate e confinate in isole di non senso.
Si potranno ad esempio elaborare situazioni di abbandono o di intenso pericolo animando i personaggi delle fiabe, se si tratta di bambini, oppure, nel caso di adulti, ricorrere a dispositivi di improvvisazione teatrale, in modo da favorire un’esperienza  autenticamente vissuta ma al tempo stesso alleggerita dal fatto che quei frammenti di un passato indicibile vengono maneggiati attraverso  il  gioco (play nella lingua inglese significa per l’appunto gioco ma anche messa in scena teatrale).  Oppure mettere a disposizione dei materiali per colorare, disegnare, dipingere o fare del collages (una modalità che può essere facilmente adottata anche in un setting duale).  E molto altro ancora…  L’importante è non farsi guidare da schemi  precostituiti, ma scegliere di volta in volta le proposte più adeguate  in base a ciò che va emergendo  nel vivo del processo.

Noi possiamo immaginare tante cose su come potrebbe essere il percorso, così come non solo i genitori ma anche i nonni e gli zii fanno tante fantasie su come sarà il nascituro e su quello che si potrà fare insieme. Ma poi, quando il bambino verrà alla luce, sarà fondamentale, per poter accompagnare il suo sviluppo emotivo, che tutti – genitori, nonni e zii – dimentichino i mille progetti che hanno fatto, e ciò che hanno immaginato, per potersi sintonizzare con lui a partire dalle sue espressioni e da ciò che fanno risuonare in noi.

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