La formazione delle immagini: introduzione al Seminario del 15 ottobre 2016

        di Giovanna Bosco

L’immagine è come un fiore che va trattato con delicatezza.
Darne un’interpretazione chiusa è come reciderlo dalla pianta,
per metterlo in un bicchiere dove avrà vita breve.
Soggettivare i vissuti che l’immagine suscita in ciascuno di noi
permette a nuovi fiori di sbocciare e nuovi frutti nascere,
dando inizio ad una storia aperta a nuovi sviluppi

 

 

Riporto in questo scritto la Relazione introduttiva da me tenuta il 15 ottobre 2017, integrata su alcuni punti da riflessioni successive stimolate dall’esperienza del Seminario. 

 

Una premessa
Poiché questo incontro di oggi  è la prosecuzione della riflessione comune iniziata con il Seminario del 15 marzo 2016 sui “Processi di elaborazione delle esperienze indicibili”, richiamerò brevemente, tra gli aspetti trattati nel precedente incontro, quelli che fanno da sfondo a quanto esporrò oggi, rinviando chi volesse approfondire agli scritti sull’argomento già pubblicati su questo stesso sito, e indicati in calce a questo testo:

 le immagini mentali sono il risultato di un’elaborazione non verbale e tuttavia già simbolica di molte informazioni che provengono o sono pervenute in passato dai vari canali sensoriali. Appartengono quindi alla sfera non verbale, analogica. Tuttavia differiscono dai processi di “elaborazione subsimbolica” (come li definisce Wilma Bucci), attraverso cui in modo inconsapevole e non intenzionale viene trattato il flusso continuo di sensazioni e informazioni che provengono dai nostri organi di senso e dall’interno del corpo. Pur non dando luogo a rappresentazioni, i processi “subsimbolici” hanno un grande valore e  sono alla base, tra le altre cose, dell’intuizione, un importante fattore terapeutico ‘nascosto’.

• La formazione di immagini  fa da ponte tra quel mondo sottotraccia che abbiamo definito subsimbolico - in cui vi è un flusso continuo di sensazioni che vengono dal corpo -  e il mondo delle parole, che per la loro radicale estraneità non potrebbero mai  incontrarsi tra loro. Le immagini possono svolgere questa funzione di ‘ponte’ perché da un lato mantengono l’ancoraggio al mondo dei sensi, proprio dei processi “subsimbolici”, ma allo stesso tempo hanno già in comune con le parole l’appartenenza al mondo dei simboli e delle rappresentazioni.

• Si è messo in luce nel precedente seminario che la psicoanalisi contemporanea, trovandosi a far fronte a nuove forme di disagio -  soggetti incapaci di riconoscere le loro emozioni e quelle degli altri, con limitata capacità immaginativa e prevalenza  del pensiero operativo, pratico – si è resa conto che il trattamento analitico classico, fondato sull’interpretazione verbale, con questi soggetti è poco praticabile. Questo  porta a rivalutare tutto ciò che nella relazione passa, più o meno consapevolmente, per il non verbale, in particolare la comunicazione corporea (le espressioni del volto, la voce, il ritmo, i movimenti del corpo, e così via). 

• Si è anche considerato che, nonostante il crescente interesse per la comunicazione corporea, resta la tendenza a restare difensivamente nella trincea dell’osservazione, anzichè riconoscere che anche noi siamo parte in causa, in quanto partecipiamo, per lo più inconsapevolmente, ad un fitto dialogo fatto di espressioni facciali, movimenti del corpo, tono della voce. Questo elemento di riflessione ci riguarda tutti: psicoanalisti e gruppoanalisti, arteterapeuti, formatori. Abbandonando il vertice dell’”osservazione” dell’Altro diventa possibile porci in ascolto – nel flusso delle comunicazioni da corpo a corpo – delle nostre sensazioni. Questa è la premessa perché i segnali che provengono dal nostro corpo possano trasformarsi in immagini. Come ho già segnalato nella mia precedente relazione, molto dipende da come noi riusciamo a porci in ascolto di ciò che sentiamo a livello corporeo, ed a considerare i segnali che vengono dal nostro corpo non come un’interferenza indesiderabile ma come qualcosa di “amichevole”, e, dando loro spazio dentro di noi, lasciamo che questo insieme di sensazioni ed emozioni embrionali si trasformino in immagini (immagini che evocano quelle emozioni non ancora “dicibili” con le parole).


La formazione delle immagini
Venendo al tema di questo incontro, vorrei sfatare alcuni luoghi comuni per poter avere qui tra noi un linguaggio condiviso:

• Le immagini non sono solo visive
Anche se solitamente si pensa che l’immagine sia unicamente di tipo visivo, ci sono immagini relative a tutti i sensi, come ad esempio quelle uditive e tattili. Dal punto di vista statistico, è noto che la maggior parte dei soggetti ha un orientamento prevalentemente “visivo”. Segue, in percentuale minore, quello “uditivo”.   
C’è da chiedersi se le immagini restino ben differenziate secondo il canale sensoriale coinvolto oppure se ci siano immagini complesse, o evolute, frutto dell’elaborazione e sintesi di esperienze che coinvolgono tanti sensi diversi.  Quale immagine si forma nella nostra mente quando pensiamo al fuoco nel camino? Come si è potuto sperimentare in presa diretta  nel seminario, oltre agli aspetti visivi (forma e colore del fuoco), c’è stato chi ha sentito anche l’odore connesso all’immagine, chi il calore che emana dal camino, chi il crepitio del fuoco. E’ nata così un’immagine complessa, comprendente l’elaborazione di elementi connessi a diversi organi di senso, oltre che al contributo di diverse “sensibilità” soggettive.

• L’immagine di ciò che si trova nel nostro campo visivo o uditivo non è semplice copia di ciò che c’è nella realtà fenomenica   Molti esperimenti indicano che anche quando guardiamo o sentiamo qualcosa che è lì, presente nel nostro campo visivo o uditivo, l’immagine mentale che ce ne formiamo coinvolge processi complessi di elaborazione in cui emergono “visioni di mondo” soggettive.  Anche questo dato ‘scientifico’ trova una conferma in esperienze che appartengono alla nostra vita quotidiana. Così ad esempio, i grattacieli  di Citylife, – sorti di recente a poca distanza dalla sede di E-spèira e ben visibili attraverso l’ampia vetrata della stanza in cui si sono tenuti i seminari – hanno dato luogo, a secondo di chi li vedeva,  a immagini assai diverse: belle e ardite opere architettoniche, o, all’opposto, elementi intrusi che chiudono lo spazio e impediscono la vista dell’orizzonte. Ne sono risultate, a seconda di chi guardava, diverse immagini, che non presentavano un carattere statico, ma sembravano piuttosto inserite in una visione funzionale: “sarebbe bello poterci abitare…”, oppure “vorrei che sparissero…”.

• La rievocazione di immagini  comporta processi di rielaborazione e trasformazione radicali. Secondo il  senso comune, quando entra in gioco la memoria, si pensa che le immagini siano qualcosa di simile a una fotografia archiviata, suscettibile di essere richiamata tal quale alla mente. In realtà il processo di rievocazione di immagini memorizzate comporta profonde trasformazioni e rielaborazioni, a volte vere e proprie deformazioni  o ricombinazioni tra loro di più immagini, che danno vita a immagini diverse da quelle originarie. Tuttò ciò ha a che fare con le nostre aspettative, i nostri desideri, scopi, le nostre emozioni,  i vissuti passati e presenti, le esperienze relazionali in cui si iscrivono e tutte le nuove esperienze che nel frattempo abbiamo fatto.

Un mio ricordo : per anni ho avuto il ricordo di un grande stagno che era a lato della cascina in cui sono nata ed ho passato i miei primissimi anni. Lo stagno era circondato da una fitta e alta vegetazione verde cupo che stendeva sull’acqua ombre viola, (“non ti avvicinare” diceva mia nonna, “lì abita una strega”, e questo suscitava in me un misto di paura e curiosità).  Un mio cuginetto appena un po’ più grande (io quattro anni, lui cinque) mi guidava lungo il perimetro dello stagno in un’avventurosa trasgressione, e colpiva la superficie dell’acqua con un ramo, forse per tenere a bada la strega, forse per stanarla. Quando da adulta sono tornata a rivedere la casa, non c’era più traccia dello stagno. Domandai cos’era successo alla nuova proprietaria, che aveva comprato la casa dalla mia famiglia anni prima. “Non c’è mai stato uno stagno”, fu la risposta. “Ma sì che c’era! me lo ricordo!”. “ah beh – concesse la mia interlocutrice – una volta, quando pioveva, lì si formava una pozzanghera”.

• Il terzo tipo di immagini è rappresentato dalle immagini di fantasia: immagini totamente ex novo,  che vanno oltre la semplice rielaborazione di qualcosa che c’è nella memoria. E’ quello che avviene nel sogno, nei sogni ad occhi aperti, nell’attività immaginativa di un artista o scienziato.
Tuttavia il confine tra questa categoria e la precedente secondo me non è sempre facile da stabilire.
Oggi non saprei dire se la mia immagine dello stagno appartiene alla sfera dei ricordi, in quanto rielaborazione soggettiva di un insieme di ricordi, magari legati a luoghi e momenti diversi, oppure se, come diceva la mia interlocutrice, non c’è mai stato uno stagno e la mia può essere considerata un’immagine puramente fantastica. Ho inoltre sperimentato  che ogni volta che ho cercato di rievocarla e condividerla con altri la mia immagine è cambiata un poco. “Chissà che delusione!”, ha commentato empaticamente una collega quando ho finito di raccontare.  Effettivamente avevo provato una cocente delusione  quando avevo scoperto che per la nuova proprietaria della casa il “mio” stagno, che aveva fatto da sfondo ad avventurose trasgressioni infantili, in un misto di paura, curiosità, segretezza, era solo una insignificante pozzanghera che compariva ogni tanto dopo la pioggia. Poi, mano a mano, è stata proprio la diversità di vedute (di immagini) tra me e la persona  che era subentrata nella casa della mia infanzia a diventare l’elemento centrale della storia, l’oggetto di curiosità, come oggetto di curiosità era stata un tempo la ‘strega’ che abitava lo stagno. 
E’ proprio nel momento in cui le nostre immagini vengono mostrate o raccontate ad altri, e dunque si incontrano con le immagini degli altri, che siamo più esposti alla ‘dis-illusione’, ma anche quello in cui possono nascere delle storie dinamiche, aperte e sempre nuovi sviluppi.

A proposito di “cervello destro” e “cervello sinistro”:
Sono diventati molto popolari, anche al di fuori degli ambienti specialistici, i concetti di ‘intelligenza emotiva’ (Goleman) e di ‘cervello emotivo’ (Le Doux). Per sottolineare la differenza funzionale tra i due emisferi, destro e sinistro, si ricorre spesso alle metafore del  “cervello ingegnere” (l’emisfero sinistro, specializzato nel pensiero logico, analitico, pratico e nel linguaggio verbale)  e del “cervello “poeta” (quello destro, specializzato nelle emozioni, nei processi analogici e intuitivi, nella elaborazione delle immagini, ecc.).
Tuttavia questa visione, che nasce da ricerche su pazienti con gravi forme di epilessia, in cui i due emisferi non potevano più comunicare tra loro perché erano stati recisi chirurgicamente i collegamenti tra le due parti, è oggi considerata troppo schematica, anche se si continua a riconoscere che c’è una predominanza di certe funzioni nell’emisfero destro e di altre in quello sinistro.  La ricerca neurobiologica sviluppatasi successivamente ha messo in luce che, se tutto funziona come dovrebbe, e se le fibre del corpo calloso sono integre, c’è un continuo scambio di informazioni tra i due emisferi, il che consente l’integrazione tra ragione ed emozioni, tra immagini e parole, tra pensiero logico e analogico, tra il sentire e il riflettere. L’integrazione tra funzioni cerebrali e modalità di pensiero diverse è fondamentale per lo sviluppo del pensiero creativo.  La mente creativa è vista come un caleidoscopio in cui vengono effettuate sempre nuove combinazioni, sia logiche che fantastiche, dando vita a nuove immagini mentali, ossia a nuovi scenari alternativi a quelli noti.

Questa è la situazione per così dire ideale. Poi, in pratica, a seconda dei soggetti, e, nella stessa persona, del momento e del contesto, vengono privilegiate modalità di pensiero analitiche e logiche, oppure globali, emozionali, immaginifiche, intuitive.

Il rapporto tra le immagini e alcune forme di disagio psichico
Entrando nel campo della sofferenza psichica o psicologica – ciò con cui la nostra professione ci porta a misurarci ogni giorno – vorrei accennare al rapporto tra le immagini e due forme di patologia:

• i soggetti cosiddetti alessitimici hanno difficoltà a riconoscere le loro emozioni e quelle degli altri (nei casi più severi sono incapaci di provare emozioni), tendono a somatizzare, hanno anche una capacità immaginativa limitata se non assente, e una prevalenza  del pensiero operativo, pratico. Quando la capacità immaginativa è spenta, come favorirne il risveglio? 

• quanto alla psicosi, nelle crisi acute le immagini perdono ogni caratteristica simbolica e vengono fatte coincidere con la realtà, diventano  qualcosa di concreto, di sensoriale.  
D’altronde anche l’allucinazione dello psicotico ci rimanda  a qualcosa che è realmente accaduto nella sua vita. Lui non lo sa, ma forse possiamo cercare di intuirlo. Così l’allucinazione che porta uno psicotico a vedere, come se fossero davvero lì, nella realtà, delle presenza ostili, degli invasori che entrano in casa sua e lo minacciano, forse rimanda a relazioni intrusive, a esperienze minacciose per la sua integrità, a qualcosa che ha realmente sperimentato, non esattamente in quei termini ma con lo stesso senso di pericolo.  E’ una metafora che lui non riconosce come metafora, per lui è la Cosa, terribilmente concreta e reale. Quando non è in fase acuta le allucinazioni possono trasformarsi in immagini o rappresentazioni di mondo fisse, che lo portano ad esempio a vedere come figura minacciosa il postino che suona alla porta di casa.  Anche nei disegni queste immagini fisse possono essere ricorrenti.
Come recuperare il valore simbolico delle immagini, il loro collegamento con il sentire e il riflettere, le loro trasformazioni all’interno di una relazione di cura?

Anche grazie alla presenza, in questo seminario, di diverse professionalità, possiamo cercare insieme di riflettere su queste questioni, e di cogliere punti di contatto e differenze tra la formazione delle immagini nel sogno, nella vita diurna, nel lavoro psicoterapeutico, nella formazione, nelle artiterapie.
Un altro punto cruciale da approfondire è il passaggio dalle immagini alle parole,
tenendo presente che ci sono specificità nei vari campi.  Così, ad esempio,  nelle artiterapie, come pure quando si ricorre al disegno nel lavoro psicoterapeutico o formativo, le immagini vengono create con mezzi materiali, non sono puramente immagini mentali, interne, ma diventano presenti anche nel mondo esterno, e questo permette, almeno in parte, di condividerle anche senza ricorrere alla descrizione verbale. Consente inoltre all’autore o autrice di ri-guardarle. L’interrogativo che attraversa il mondo variegato delle arti terapie è se sia necessario anche parlarne, e in quale modo. Negli altri contesti le immagini (i sogni, le immagini che si affacciano alla mente nella vita diurna, quelle connesse a ricordi del passato, e così via) possono essere condivise solo mettendole in parole, raccontandole, e questo ci pone da subito molti interrogativi sulle modalità del passaggio dal mondo delle immagini al il mondo delle parole. Mi auguro che potremo riprendere questi punti aperti e queste domande nel corso del nostro incontro.

Riflessioni sul seminario e prospettive aperte
Riflettendo a posteriori su come si è sviluppata nel seminario la comunicazione dopo la relazione introduttiva, mi sono resa conto che, oltre ad interrogarsi sulla natura delle proprie immagini mnestiche, c’è stato un forte desiderio di condividere immagini che rimandavano a eventi del passato (le immagini di un sogno ricorrente, oppure connesse a ricordi emotivamente intensi o ad avvenimenti traumatici e così via). Del resto raccontare ad altri è anche un modo per raccontare a sé stessi, o raccontare nuovamente a sé stessi, per arricchire di nuovo senso la propria storia, o per poter meglio elaborare vicende emotivamente impegnative. E’ anche nata, ed è stata ripresa e fatta circolare nel gruppo, un’immagine “nuova”, che da un lato aveva il suo fondamento percettivo nella realtà fenomenica presente (un piccolo fiore rosso, che nonostante la stagione, la nebbia ed il freddo, era rimasto tenacemente attaccato ad un oleandro visibile al di là della finestra),  ma allo stesso tempo assumeva una forte connotazione simbolica, emozionale e relazionale rispetto a quanto andava emergendo nella discussione di gruppo.

Restano comunque aperte le domande sul modo in cui lo psicoterapeuta, o il conduttore di un gruppo, può favorire lo sviluppo della capacità immaginativa, dove questa è spenta, oppure, nel caso della psicosi, il recupero del valore simbolico delle immagini.
Per quanto riguarda i soggetti in cui la capacità immaginativa è assente o impoverita, a mio parere molto dipende da come noi riusciamo a porci in ascolto di ciò che sentiamo a livello corporeo, lasciamo che questo insieme di sensazioni ed emozioni embrionali si trasformino in immagini ed immettiamo queste immagini nella relazione stessa, lasciando all’altro o agli altri la possibilità di “giocare” con le nostre immagini. Nella mia esperienza clinica ho potuto constatare che favorire la possibilità di giocare con le immagini che noi abbiamo messo a disposizione è un passaggio importante perché i pazienti possano iniziare a creare immagini proprie. Sarebbe interessante, in futuro, mettere a confronto esperienze e riflessioni su queste questioni.

Un altro aspetto che mi pare meriti un approfondimento è il modo in cui si accolgono le immagini, sia nel caso del paziente che ci porta un sogno, magari con l’aspettativa implicita che ne “spieghiamo” il significato, oppure quando ci viene  comunicata a parole un’immagine mentale, o ancora quando siamo di fronte ad un disegno. La questione cruciale è se noi ci sentiamo depositari del “sapere” (o sentiamo il bisogno, in un determinato momento, di affermare il nostro “sapere”), nel qual caso tenderemo a dare interpretazioni chiuse ed assertive; oppure se ci poniamo in una posizione dialogica, esprimendo cosa fa risuonare in noi soggettivamente, nel qui ed ora, quell’immagine o quel sogno, quali sensazioni, immagini, pensieri suscita in noi, e favorendo nuove connessioni con altre comunicazioni.
Quanto ai gruppi di arteterapia una funzione del conduttore, quando si ri-guardano insieme le immagine create dai vari partecipanti, è quella di promuovere, oltre ad un clima non giudicante, la consapevolezza che i pensieri, le emozioni, i ricordi che ogni partecipante esprime rappresentano semplicemente quello che in lui o lei il contatto con quell’immagine ha suscitato, e che probabilmente sarà diverso da quello che suscita in altri, favorendo così la possibilità di accogliere sensibilità e punti di vista diversi.

L’assertività del conduttore, invece, quando non produce compiacenza, suscita una speculare assertività e tendenza alla contrapposizione. 
L’immagine è come un fiore che va trattato con delicatezza. Darne un’interpretazione assertiva e chiusa è un po’ come reciderlo dalla pianta, per metterlo in un bicchiere dove avrà vita breve, mentre soggettivare i pensieri e i vissuti che l’immagine suscita in ciascuno di noi è dare inizio ad una storia aperta a nuovi sviluppi, creare le premesse perché nuovi fiori possano sbocciare e nuovi frutti nascere.


 
Per approfondimenti su quanto sintetizzato nella Premessa si rimanda ai seguenti testi pubblicati su questo stesso sito:
- I processi di elaborazione di esperienze indicibili, parte 1°, di Giovanna Bosco, 6 luglio 2015
- I processi di elaborazione di esperienze indicibili, parte  2°, di Giovanna Bosco, 12 novembre 2015
- Seminario 12 marzo: “Elaborare l’indicibile: i materiali”, a cura dell’Associazione E-spèira, 8 giugno 2016

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