IMMAGINI: riflessioni sul Seminario del 15 ottobre

di Velia Ranci

Come seguito alle nostre riflessioni sull’indicibile emerse nel Seminario di marzo abbiamo scelto per il Seminario di ottobre il tema dell’immagine.
Abbiamo fatto questa scelta perché il nostro lavoro ci ha fatto toccare con mano quanto possa essere importante un’immagine, nei momenti in cui la relazione  si fa emotivamente impegnativa e difficile. Un’immagine che ci si presenta alla mente e che riusciamo a condividere, col paziente o col gruppo, è quella che permette di dare un significato e di imprimere una svolta alla relazione e al processo terapeutico.
 
 Le esperienze evocate nel Seminario del 15 ottobre mi hanno fatto riflettere su quanto le immagini si impongano alla mente; perché si impongono, si sostituiscono al pensiero di parole, in momenti emotivamente impegnativi.  Momenti in cui si è dentro all’immagine, ci si immerge nell’immagine. Questa è l’impressione che mi ha suggerito il racconto di Pierluigi.
 Durante un’escursione in montagna Pierluigi si accorge che un masso enorme sta precipitando nella sua direzione. Panico. Riesce a scostarsi all’ultimo momento utile. Negli attimi tragici in cui sente di rischiare la vita, se la rivede tutta in una serie di immagini. Fuori dal tempo e dallo spazio, come in un sogno, anni e luoghi diversi in una manciata di secondi. Mi è sembrata una comunicazione di una potenza travolgente. Di questo è capace  il pensiero quando deve far fronte alla sfida dell’incomprensibile.
 Questa esperienza mi è sembrata  il prototipo di esperienze che facciamo nella vita, quando ci si presenta qualcosa che rifiuta di inserirsi nella cornice nota della nostra esistenza. Allora reagiamo cercando una presa diretta con questo qualcosa. Immedesimandoci.
 Ho visto così la comunicazione del ricordo infantile di Vera. Vera porta un ricordo di lei bambina nei pressi di una palude umida e buia, che cerca, insieme ad altri, un bambino che poi lì sarebbe stato  trovato morto.  “Che cosa può essere successo, dice Vera, “a quello che era un bambino come me?” Come  può pensare un bambino a un altro bambino come lui che scompare in una palude?  Allora sorge l’immagine che include anche lei stessa, lei che è immersa nei suoni, nell’umido della palude. E’ una comprensione quasi fisica, l’unica che viene in soccorso.
 E se necessario l’immagine si ripropone ancora e ancora, per cercare di “rappresentare” qualcosa di cui il nostro sé ha assoluto bisogno: così, nel sogno della bambina adottata, la casa si ripresenta sempre uguale: forse un modo per lei di sentire quella stabilità che le era mancata. Il sogno non è più tornato, ci dice la narratrice, quando è venuto meno questo bisogno di stabilità.
 E se questo qualcosa di misterioso ci si presenta caricato dal divieto, ce lo teniamo gelosamente contemplato dentro di noi, come un tesoro che forse un giorno potremo scoprire. Così il racconto dello “stagno della strega” di Giovanna.
 Giovanna racconta che vicino alla cascina dove è nata c’era un grande stagno circondato da un’alta e fitta vegetazione a cui le era proibito avvicinarsi perché, le diceva sua nonna “lì c’è una strega”.  Giovanna torna da adulta a cercare il “suo” stagno, che in realtà, le viene detto, era solo una pozzanghera (1)

Mi piace pensare che le immagini siano come le radici del pensiero.
 Penso agli alfabeti (cinese, egiziano…) che cercano di comunicare attraverso l’immagine della cosa o del concetto. Poi, nel tempo, gli ideogrammi si sono semplificati, come per esempio nel mandarino, quando il linguaggio scritto è diventato patrimonio di molti, e la comunicazione poteva e doveva andare più lontano. Il segno grafico ha perso allora il legame percettivo con la cosa che vuole comunicare. L’immagine ha bisogno di una certa intimità per essere comunicata. Quando si è lontani nel tempo, nello spazio, nel modo di vivere, bisogna ricorrere al racconto; affidare a tante parole il compito di suscitare nell’altro le immagini che gli sono proprie, perché anche nella sua mente cresca un pensiero che si possa riconoscere nel nostro.
 Quando si è vicini, quando c’è una buona circolarità di emozioni, come accade per esempio nella relazione terapeutica, nei gruppi terapeutici e di formazione, o nel nostro seminario, le immagini  nascono più fluide, si possono  condividere, e diventano nutrimento prezioso per tutti.

Un ultimo pensiero: riconoscendo la potenza comunicativa dell’immagine, intesa come “conoscenza attraverso i sensi di qualcosa che in quel momento non è presente” secondo la definizione del dizionario, la tecnologia ci inonda di immagini virtuali raffinatissime; un mondo di immagini, capaci di suscitare emozioni e pensieri.
 Come accogliamo questa che chiamerei oggettivazione o ostensione, ma anche distanziamento dell’immagine? Che cosa ne facciamo?  



(1)  Il racconto è riportato nello scritto La formazione delle immagini: Introduzione al Seminario, di Giovanna Bosco, in questo stesso sito.

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