EDITORIALE

 di Giovanna Bosco

Può apparire paradossale che proprio noi, che teniamo in grande considerazione la comunicazione non verbale, ci si avventuri nello spazio virtuale, per portare anche on-line l’esperienza del Circolo E-spèira. Fino ad ora esso è stato non solo spazio mentale ed emozionale ma anche luogo fisico in cui riflettere su vari temi di comune interesse insieme ad altri psicoterapeuti, gruppoanalisti, arte terapeuti, conduttori di gruppo.  
Mentre mi addentro in questa nuova dimensione ‘virtuale’ so che chi mi leggerà non sentirà la mia voce, non vedrà il mio viso e i movimenti del mio corpo, non sentirà il ritmo del mio respiro. E anch’io sarò privata di tutti questi preziosi canali conoscitivi quando leggerò i commenti e gli interventi, che mi auguro arriveranno numerosi.

Un’analoga limitazione si presenta d’altronde ogni volta che noi psicoanalisti, gruppoanalisti o arteterapeuti cerchiamo di mettere per iscritto le nostre esperienze di lavoro: com’è difficile trasmettere con le sole parole un clima relazionale, un vissuto, una trasformazione improvvisa che ha aperto spazi nuovi e fino ad allora impensati in una  relazione terapeutica… Per non parlare di chi si accinge ad esporre ciò che accade talvolta nei gruppi in cui si ricorre alla pittura, alla musica, alla danza o al teatro. Qualsiasi descrizione sembra inadeguata a trasmettere a chi non c’era la bellezza e l’incanto di certi passaggi, e il senso più profondo di certe trasformazioni. A volte si parla, sottovoce, quasi vergognandosi di questa parola prescientifica, di qualcosa di ‘magico’, alludendo a certi eventi di gruppo, come l’improvviso e inaspettato sbocciare di una capacità di ascolto reciproco e un’intesa profonda tra persone che fino a poco prima sembravano incapaci di relazionarsi tra loro.  

Ma il poeta non si arresta di fronte all’indicibile, lascia che parole-sensazioni, parole-musica, parole-immagini volteggino per l’aria scomponendosi e ricomponendosi fino a prender forma sul foglio di carta. La poesia comprende e riassume quasi tutte le forme di comunicazione verbale e non verbale: c’è un ritmo nella poesia (e questo ha a che fare con la corporeità… ritmo è anche cadenza del respiro e battito del cuore, come nell’esperienza primigenia che ogni essere umano ha vissuto);  e ci sono una metrica, una sonorità, un’alternarsi di suoni e silenzi, proprio come nella musica; e ancora la poesia evoca immagini, forme, colori, odori. Ed è per questa compenetrazione di tante forme di comunicazione verbale e non verbale che la poesia travalica i confini della parola scritta.  
E un po’ poeta, anche senza sapere di metrica, dev’essere anche l’analista.

Sfatiamo pure il mito che la psicoanalisi sia essenzialmente una forma di ‘cura attraverso la parola’. Anzitutto perché la voce dell’analista, morbida o ruvida, calda o fredda, conta non meno delle parole che egli dice, talvolta va più in profondità di ciò che viene verbalizzato: le stesse parole, a seconda del tono della voce, possono offrire al paziente un mantello protettivo o esporlo, nudo, ai geli dell’inverno. Va anche detto che nel lavoro analitico assume grande importanza la comunicazione metaforica, propria del linguaggio poetico, anello di congiunzione tra espressione verbale e mondo ‘oltre la parola’. La comparsa delle metafore segna spesso il passaggio, nel lavoro psicoterapeutico, dal registro dell’interpretazione (in cui è la teoria di riferimento dell’analista a farla da padrona) a quello della comprensione (in cui si cerca soprattutto di costruire insieme al paziente un nuovo sapere condiviso, a partire dalla comprensione emotivamente partecipata del suo mondo).  

C’è un aspetto paradossale in ogni domanda di terapia: da un lato il paziente viene da noi per cambiare, ma allo stesso tempo tende a conservare immutati e quindi a riprodurre anche nella relazione terapeutica quegli schemi relazionali disfunzionali che sono all’origine del suo disagio. Ogni paziente ci porta una sua narrazione che esige di essere assunta come Verità. Per questo un’interpretazione troppo diretta è spesso sentita come un pericolo.

Ho sperimentato molto spesso che proprio il linguaggio metaforico può aprire uno spazio intermedio in cui, come in un racconto fiabesco, diventa  possibile ri-guardare, maneggiare insieme, vivere e raccontare in modo nuovo, con poetica leggerezza, quella storia già scritta che prima sembrava immodificabile, nonostante le sue lacune, le sue contraddizioni, le sue chiusure. “E’ come se una bimba timorosa di mostrarsi si nascondesse dietro la toga di un giudice”, dissi una volta ad una paziente che usava le sue non comuni doti intellettive e dialettiche per bloccare con i suoi giudizi ogni mio tentativo di avvicinarmi a lei.  Si rilassò e sorrise a quell’ immagine. Lei stessa contribuì, nelle sedute seguenti, all’ulteriore elaborazione e trasformazione dell’immagine, colorandola con la sua fantasia, fornendo baffi e altri tratti somatici al severo personaggio, la cui toga aveva spesso usato come paravento, più avanti allontanandolo perché troppo ingombrante, in un’altra occasione osservando che l’uomo con i baffi aveva di nuovo fatto la sua comparsa tra di noi. La metafora aveva favorito la nascita di uno spazio di gioco condiviso.

Da tempo sono persuasa che l’interpretazione verbale del discorso del paziente può favorire nuovi modi di pensare, ma non è sufficiente per realizzare un’autentica trasformazione. Del resto già Winnicott metteva in guardia dai danni che possono derivare dall’attività interpretativa quando questa non si svolga in uno spazio di gioco che accomuni terapeuta e paziente. Solo l’esperienza vissuta ci cambia. Tutto il resto è soltanto indottrinamento.
Per evitare questi rischi, è importante, anche quando si lavora nel setting tradizionale,  prestare attenzione alle proprie sensazioni, e lasciare che ciò che si sente a livello psicocorporeo si trasformi in immagini.
Solitamente anche in quei settori della psicoanalisi che si sono lasciati dietro le spalle i modelli intrapsichici per sviluppare una prospettiva ‘relazionale’,  si fa spesso riferimento all’importanza della partecipazione ‘emotiva’, ma raramente si da rilievo alle ‘sensazioni’ corporee.  Tuttavia, come ho esposto più diffusamente in un precedente scritto (G. Bosco, 2001) l’emozione è già un costrutto psicocorporeo più complesso che richiede, per venire alla luce compiutamente, un lungo cammino. Inizialmente il materiale che emerge è più elementare, è fatto di sensazioni basate su uno specifico canale sensoriale (uditivo,  tattile,  visivo) e solo poco alla volta, attraverso una relazione accogliente e sintonica e un gioco di rispecchiamenti e reciproci rimandi, queste emozioni embrionali vengono via via arricchendosi e integrandosi, permettendo la nascita di immagini e di emozioni vere e proprie.

Anche quando la comunicazione avviene a livello prevalentemente verbale è essenziale che le parole abbiano radici nel corpo. Spesso mi rendo conto che accompagnare le parole con un gesto, con un’espressione del viso o del corpo, rende la comunicazione molto più sintetica e profonda, specie con pazienti che tendono ad intellettualizzare molto e a dominare il rapporto attraverso la parola. Ricordo un paziente che per tutta la durata di una seduta aveva esposto abilmente una serie di fatti e ragioni, cercando di determinare una situazione in cui la continuazione o interruzione dell’analisi, e quindi del nostro rapporto, sarebbe dipesa da eventi che io avrei potuto conoscere solo all’ultimo momento, e quindi subire passivamente. Mi restava poco tempo per commentare e in ogni caso non volevo farmi trascinare in una contesa tutta verbale. E allora gli dissi poche parole accompagnate da una gestualità significativa: “capisco che c’è un problema reale con cui io e lei dobbiamo fare i conti, ma non mi piace essere messa in una situazione in cui l’Altro tiene il bandolo della matassa” (qui accompagnai le parole con il movimento delle braccia e delle mani) “mentre io ….” a questo punto sospesi la comunicazione verbale e lasciai che, come in una rappresentazione scenica, parlasse il mio corpo costretto all’immobilità… le braccia strette lungo i fianchi, come imprigionate da lacci e lacciuoli. C’è da dire che il paziente stava facendo provare a me qualcosa che egli stesso aveva spesso subito, sia pure metaforicamente, nella sua vita di relazione.  Di questo potè rendersi conto proprio perché ebbe la possibilità di sentire ciò che io provavo e gli comunicavo anche a livello corporeo, attraverso un processo di rispecchiamento.  

Vorrei a questo proposito richiamare alcuni passaggi dei lavori di Daniel Stern e Wilma Bucci, in cui ho trovato vari elementi di consonanza con le mie esperienze e le mie riflessioni.  Del primo mi interessa qui riportare brevemente ciò che scrisse nel 1985, in Il mondo rappresentazionale del bambino a proposito del processo di attunement.  Basandosi sull’osservazione della relazione madre-bambino, Daniel Stern mette in luce come la madre, se è capace di una relazione sintonica e risonante, riproduce ciò che il bambino esprime attraverso una determinata modalità espressiva, trasportandolo in un’altra modalità sensoriale (ad esempio risponde ad un movimento ripetuto del bambino trasformandolo in un suono con le stesse caratteristiche ritmiche di ciò che piccolo esprimeva attraverso il movimento del corpo). In questo modo favorisce il collegamento tra diversi canali sensoriali e la costruzione di esperienze dotate di un senso condiviso.


In tempi più recenti Wilma Bucci, allargando gli orizzonti della psicoanalisi con i contributi delle scienze cognitive e delle neuroscienze, ha sviluppato una complessa linea di ricerca sul rapporto tra verbale e non verbale. Mi limito qui a richiamare la sua affermazione che anche nel mondo non verbale ci sono processi di pensiero e di elaborazione simbolica, e che questi sono essenziali per poter passare al registro verbale senza perdere traccia delle esperienze e degli schemi emotivi che si sono costituiti attraverso le esperienze passate. Il primo livello di elaborazione nella sfera non verbale, secondo questa autrice, avviene in modo intuitivo, non intenzionale, analogico, lungo diversi canali sensoriali che viaggiano simultaneamente, in parallelo. Questo è il presupposto per il passaggio all’elaborazione simbolica, sempre a livello non verbale, attraverso cui si costituiscono immagini mentali.  Senza questo passaggio non è possibile, secondo Wilma Bucci, il collegamento tra le varie componenti delle emozioni e il linguaggio verbale. Detto in altre parole, ciò che si esprime a livello non verbale non va considerato alla stregua di un indizio da utilizzare per accedere più facilmente all’inconscio, in modo da recuperarlo alla coscienza attraverso l’interpretazione verbale, come riteneva un tempo la psicoanalisi. Al contrario  è illusorio pensare che basti dare parola a tutto ciò che si esprime attraverso il corpo (con le sue posture, i gesti ripetitivi, le somatizzazioni) per recuperare alla coscienza i contenuti emotivi corrispondenti, sulla base di codici prestabiliti.
Concordo pienamente sull’affermazione che anche nel mondo non verbale esiste un’attività simbolica e di pensiero.
Le varie forme di arte terapia traggono la loro ragion d’essere proprio dal fatto che queste attività, oltre a favorire l’espressività, possono mettere in moto  processi di elaborazione anche molto ricchi e profondi, attraverso la musica, la danza, il teatro, la pittura, e ogni altra forma di espressione creativa, soprattutto se proposte  in modo combinato da parte di terapeuti o conduttori di gruppo che abbiano potuto affinare le loro capacità di  ascolto e di risonanza empatica.  Gli spazi di ‘verbalizzazione’ non sono dunque l’unico ambito destinato all’elaborazione dei contenuti emersi attraverso le forme di espressione non verbale. Il passaggio alla parola completa e arricchisce il processo di elaborazione,  purchè la comunicazione verbale non sia intrusiva, abbia carattere insaturo, crei aperture piuttosto che imprigionare la creatività nel perimetro di un sapere già saputo. Mi fermo a questi pochi cenni, perché non è possibile comprimere in poco spazio l’esposizione dei fondamenti di un’arteterapia ad orientamento gruppoanalitico e relazionale e dei criteri metodologici sviluppati in anni di esperienza nell’ambito dell’Associazione E-spèira, sia attraverso la conduzione di gruppi esperienziali che la supervisione a colleghi che conducono gruppi di arteterapia in diversi contesti.  L’argomento merita di essere ripreso in uno o più scritti futuri.

Mi auguro che sia questo Editoriale che i  testi che verranno in seguito  pubblicati stimolino il desiderio di intervenire, inviando commenti ed interventi, non solo in risposta a quanto  scrivono gli autori, ma anche facendo circolare idee, esperienze, riflessioni. Lo scopo del Circolo on-line non è infatti quello di presentare elaborazioni  esaustive, ma di mettere a disposizione materiali che siano di stimolo alla discussione e alla ulteriore circolazione di idee.  


G. Bosco (2001), a cura di, Oltre la parola: la relazione terapeutica e formativa tra psicoanalisi e arti-terapie,  ed. Guerini

 

 

 

Inseriamo anche qui il Commento di Giovanna Valsecchi, inviato il 1 marzo 2013 che, per motivi tecnici, compare nella zona riservata ai Commenti senza il disegno, da lei realizzato, che è parte integrante del commento stesso:

“E’ come se una bimba timorosa di mostrarsi si nascondesse dietro la toga di un giudice” ..questa metafora mi ha toccato e ho pensato di commentarla andando ‘oltre la parola’.   Mi capita spesso, nella relazione, di ‘pensare per immagini’. Quando si riesce a darne una forma compiuta ed a condividerla, si crea un disegno a due…, qui, nel circolo-on-line, spero possa essere un modo per allargare il cerchio.. (un'altra immagine rappresentativa di E-speira, quei disegni concentrici sul pelo dell'acqua, nati dal lancio di  un sassolino). Per la verità, dopo aver finito il disegno mi era venuto il dubbio che non andasse bene, perchè la testa è quella di una donna più che di una bambina, e forse è troppo visibile, non si limita a fare capolino.  Alla fine ho messo a tacere il mio giudice interno e l'ho mandata ugualmente".

Commento di Giovanna Bosco al commento di Giovanna Valsecchi (1 marzo 2013)     E'' vero che il volto che compare tra le pieghe della toga è piuttosto adulto, come ti sei accorta riguardandolo alla fine, ma non penso a questo come ad un errore, penso invece che tu, anzichè essere mera illustratrice,  quindi solo esecutrice,  abbia personalizzato l'immagine, facendo fare un ulteriore passo avanti alla storia.  Proprio come succede spesso nei gruppi quando, dopo aver tanto giocato con una favola, si aprono spazi di riconoscimento più diretto, svelamenti veri e propri, e la scoperta di uno diventa scoperta anche per gli altri membri del gruppo.
Il tuo disegno, così potente emotivamente, favorisce il riconoscimento di tutti i  momenti in cui, per coprirci, agiamo da  giudici nei confronti degli altri, e ci induce a fare i conti con il giudice interno che ci toglie l'aria e il respiro. Ma ci dice anche del desiderio di mostrarci con il nostro vero volto"

7 commenti a EDITORIALE

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    Vera De Luca scrive:

    La parola scritta, sintesi della densità dell'esperienza e della riflessione teorica, mi ha emozionato e sollecitato immagini, connessioni pensieri.

    Inizialmente ero dubbiosa su questa nuova modalità di metterci in rete, forse perchè avvertivo la fatica del trovare lo spazio e il tempo della riflessione. Cosa che peraltro  sempre desidero. E' domenica, così prendo carta matita e gomma e i fuggevoli pensieri li metto in circolo per dirvi della mia esperienza terapeutica con i bambini.

    Uno in particolare mi ha colpito con la sua spontanea necessità di esprimersi con il disegno."Foglio piccolo o foglio grande?" gli chiedo e lui "grande" mi dice. La turbolenza e la complessità del suo smarrimento e della sua rabbia è così tanta che in un foglio piccolo non ci sta. E quando non riesce a trovare ascolto e comprensione, si tira forte i capelli con le due mani e si schiaffeggia le guance, con il viso sofferente, seduto sulla sedia, a fianco del padre.  NON VUOLE STARE,VUOLE ANDARSENE. Le parole nei confronti del padre diventano violente, minacciose, distruttive.

    E' come se una guerra titanica si svolgesse nel suo campo di battaglia: il suo stesso essere. La metafora permette di rappresentare con la parole qualcosa di vissuto ma, in questo caso, non ancora compreso, per essere di nuovo comunicato nella dinamica della relazione.

    A proposito dei processi di elaborazione non verbale mi viene in mente il film "Il postino" di e con Massimo Troisi che, guardando la luna nel cielo, dalla finestrella della sua stanza, si passa tra le dita della mano una pallina bianca e pensando al suo amore, la disegna rotonda sul foglio di carta bianco.

     

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    Laura Pigozzi scrive:

    Grazie Giovanna per questo post così ricco che mi accende varie rilessioni. Mi limiterò a sottoscrivere e commentare brevemente due tue osservazioni. La prima riguarda il poeta che, per Freud, vedeva prima e meglio dell'analista. Sì, come tu dici, l'analista deve essere anche un po' poeta perché ascolta – anche quando non lo sa – la voce del paziente, le sue inflessioni che cambiano sia lungo il tempo dell'analisi, ma che si modificano anche in una stessa seduta. Quando un paziente sta per cogliere un lampo di verità che lo riguarda, la sua voce è percorsa da increspature, raucedini, cali tonali, perturbamenti vari che nella conversazione normale non si ritengono rilevanti, ma che in seduta sono annunci che qualcosa sta per accadere alla parola del paziente. Il rumore, che nel suono della voce è "scarto" della parola, è significativo come altri "scarti" (lapsus, sogni, atti mancati). La parola è sempre perturbata, anche quando tutto sembra filare via liscio. Come il poeta dunque, anche l'analista ne ascolta il suono e anche il rumore (cioè il corpo). Un'altra osservazione capitale che fai è quella che il non verbale è già simbolico. Sono assolutamente d'accordo! La voce, anche quando non articola la parola, quando vocalizza in gruppo ad esempio, è già legame sociale. Il paradigma nasce già in quella che gli antropologi chiamano la "festa arcaica", quella in cui i primitivi – con la laringe ancora troppo alta per poter articolare nella parola – si ritrovano a urlare tutti insieme un po' per scacciare il panico che il simile produce, un po' per darsi sostegno nei confronti di una natura non sempre benigna. Dall'urlo piano piano immaginiamo un suono che nasce dalla cacofonia generale e che tollera quote di differenza. Non è l'unisono da cercare, ma la tolleranza dodecafonica: è questa che fa simbolico, legame e, anche, sublimazione. Grazie per l'accoglienza in questo spazio che ha caratteristica di ricchezza, libertà e riflessione, oggi così rare.

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    Marta Spoldini scrive:

    E' un piacere quando qualcuno apre le finestre e fa entrare aria fresca. Vien voglia di respirare a pieni polmoni, anche perchè di solito  si ha difficoltà a riconoscere  apertamente che il nostro modo di lavorare e di vivere  la relazione terapeutica è cambiato rispetto al passato.

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    Giovanna Valsecchi scrive:

    “E’ come se una bimba timorosa di mostrarsi si nascondesse dietro la toga di un giudice” .. questa metafora mi ha toccato e ho pensato di commentarla andando ‘oltre la parola’.   Mi capita spesso, nella relazione, di ‘pensare per immagini’. Quando si riesce a darne una forma compiuta ed a condividerla, si crea un disegno a due…, qui, nel circolo-on-line, spero possa essere un modo per allargare il cerchio.. (un'altra immagine rappresentativa di E-speira, quei disegni concentrici sul pelo dell'acqua, nati dal lancio di  un sassolino). (per motivi tecnici il disegno è in calce all'articolo) Per la verità, dopo aver finito il disegno mi era venuto il dubbio che non andasse bene, perchè la testa è quella di una donna più che di una bambina, e forse è troppo visibile, non si limita a fare capolino, ma alla fine ho messo a tacere il mio giudice interno e l'ho mandata ugualmente".

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      Rosaria Alberico scrive:

      Guardando il tuo disegno, Giovanna, mi ha colpito la posizione del volto di donna: è vero che non fa capolino dietro la toga del giudice severo, ma in me ha suscitato un'altra immagine, mi è sembrato il suo "cuore pulsante". Ho messo le virgolette perché è proprio l'immagine che è venuta alla mia mente, ispirandomi poi altre associazioni: emozioni, spontaneità, vita che palpita e che genera vita, mentre in alto, il giudice severo mi fa pensare alla nostra razionalità, alle censure che spesso ci impone, alle barriere che innalza tra noi e gli altri ma a volte anche tra noi e le nostre più vitali risorse.

       

  • Giovanna Bosco
    Giovanna Bosco scrive:

    Mi ricollego a quanto scrive Giovanna Valsecchi:  e' vero che il volto che compare tra le pieghe della toga è piuttosto adulto, come ti sei accorta riguardandolo alla fine, ma non penso a questo come ad un errore, penso invece che tu, anzichè essere mera illustratrice, quindi solo esecutrice, abbia personalizzato l'immagine, facendo fare un ulteriore passo avanti alla storia.  Proprio come succede spesso nei gruppi quando, dopo aver tanto giocato con una favola, si aprono spazi di riconoscimento più diretto, svelamenti veri e propri, e la scoperta di uno diventa scoperta anche per gli altri membri del gruppo.
    Il tuo disegno, così potente emotivamente, favorisce il riconoscimento di tutti i momenti in cui, per coprirci, agiamo da  giudici nei confronti degli altri, e invita a fare i conti con il giudice interno che ci toglie l'aria e il respiro. Ma ci dice anche del desiderio di mostrarci con il nostro vero volto

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    Giovanna Cantarella scrive:

    Ho molto apprezzato gli articoli e gli interventi del Circolo Espeira, che seguo con attenzione e interesse. Vorrei contribuire di più ma al momento purtroppo non mi è possibile.

    Leggendo l'Editoriale, mi ha intrigata, facendomi fare dei collegamenti con le mie esperienze terapeutiche, il concetto che la capacità di simbolizzare inizia ben prima dell'inizio della verbalizzazione. Ho condotto e osservato i gruppi terapeutici femminili per molti anni per individuarne le specificità terapeutiche. Impossibile citarle tutte, ma posso citare quella che per me e` tra le piu' significative. Essi testimoniano che e' la qualita` del dialogo, degli scambi, la tonalita' emotivo-affettiva del parlarsi a promuovere il senso di se', il senso di valere per se' e per gli altri. Infatti l`ascolto, l'attenzione, le risposte sono per la persona che parla piu' che ai contenuti del discorso. Nel processo analitico il ripetersi di queste dinamiche fa si` che le donne acquistino o riacquistino il senso di essere importanti affettivamente. Acquistano o riacquistano il senso di valore, la certezza di essere nella mente dell`altro', di essere pensate, recuperando l'autostima smarrita nelle vicende traumatiche o mai sentita. A proposito dell’ efficacia terapeutica del parlarsi tra donne cito le parole della filosofa Brunenbaum: "Discorsi multipli e di conseguenza nuovi aspetti della soggettività possono emergere attraverso la conversazione e il ‘gioco’, nel senso Winnicottiano del termine. Così come Winnicott ha scritto (1971) che il contenuto del gioco può essere meno importante del ‘giocare’ in quanto tale, allo stesso modo il contenuto del dialogo tra donne può essere meno importante del fatto di parlarsi” (Grunebaum, Smith, citato in de Chant, 1986, p. 84, brano tradotto da G. Bosco).  

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