Dal tramonto dei modelli intrapsichici all’orientamento relazionale

di Giovanna Bosco

1. Una domanda che riguarda non solo la psicoanalisi e la gruppoanalisi ma anche gli operatori delle relazioni d’aiuto e gli arteterapeuti

      Alcune constatazioni fatte recentemente mi hanno indotta a riprendere qui oggi una questione che da tempo, come E-spèira, consideriamo fondamentale  per la nostra navigazione: cosa comporta per il mondo della psicoanalisi il passaggio dai modelli intrapsichici ad un nuovo orientamento di carattere relazionale, e quale conseguenza questi due diversi approcci hanno anche per altri operatori delle professioni di aiuto e per chi si occupa di artiterapie?
      Recentemente, facendo una piccola ricerca su Internet, mi sono resa conto che le espressioni “relazionale” o “orientamento relazionale”, oltre ad essere le chiavi di accesso ai siti di  Associazioni con chiare basi teorico-metodologiche, in alcuni casi vengono utilizzate disinvoltamente come biglietto di presentazione per attività dai riferimenti molto incerti o fortemente contradditori (tanto da includere il bio-feedback e altre procedure di stampo comportamentista).  Ho anche scoperto, con una certa sorpresa, che c’è pure chi, dopo aver affermato di occuparsi di ‘arteterapia ad orientamento relazionale’, per spiegare di che si tratta  attinge a man bassa, e in modo pressoché esclusivo, ad una mia pubblicazione del 2001 , senza citare neppure una volta la fonte.  A volte l’etichetta “relazionale” sembra essere utilizzata come una sorta di passe-partout o come copertura per l’assenza di un chiaro e consapevole orientamento teorico-clinico.  

      Parlando di orientamento relazionale in psicoanalisi, non si intende genericamente un approccio simpatico e accattivante in quanto “nuovo”, ma si fa riferimento ad un vero e proprio cambiamento paradigmatico che ha portato settori sempre più ampi della psicoanalisi ad abbandonare l’originaria visione intrapsichica a favore di una visione relazionale dell’essere umano e del processo terapeutico. Una visione diversa ma non priva di profondità e di coerenze interne.
      Seguendo questo fil rouge, che connette tra loro più modelli teorici, cercherò di ripercorrere brevemente questo cambiamento di prospettiva, che non è avvenuto in modo lineare e costante, essendo stato contrassegnato da grandi intuizioni e da scomuniche, dall’esclusione di alcune linee di pensiero ad opera dell’establishment psicoanalitico e da successive riscoperte e riabilitazioni da parte di nuove generazioni di analisti. L’opzione tra orientamento intrapsichico e orientamento relazionale è di grande significato non solo per la psicoanalisi, ma anche per gli psicoterapeuti, per gli arteterapeuti, e in generale per tutti coloro che operano nelle professioni di aiuto.
      L’opzione intrapsichica porta a cercare di 'decifrare’ il significato nascosto di ciò che viene espresso a livello verbale e/o corporeo, oppure attraverso un disegno, come se ci fossero delle corrispondenze stabilite una volta per tutte tra una determinata espressione (verbale, corporea o iconica) e il suo significato. Possiamo anche dire che l'opzione intrapsichica corrisponde al campo della spiegazione anzichè a quello della comprensione. In arteterapia ciò induce ad assumere una posizione di 'osservazione' anzichè cercare di comprendere attraverso la risonanza estetica e l'immedesimazione empatica. Due esempi, tra i tanti possibili, possono chiarire meglio questo concetto. Così come la prima generazione di analisti attribuiva un significato “fallico” a qualsiasi rappresentazione o immagine che non fosse piatta o rotonda (forzando gli accadimenti per farli aderire ad una teoria), allo stesso modo in alcuni settori dell’arte terapia si utilizzano certe letture standardizzate dei colori, in cui ad ogni colore viene fatto corrispondere un significato emotivo (o un insieme di significati), trascurando il fatto che lo stesso rosso può essere associato a sensazioni opposte: può essere angoscioso per qualcuno, che lo collega al sangue e alle ferite, e vitale per un altro.       

     Nel secondo caso (l’opzione relazionale), il terapeuta, o conduttore di gruppo, favorirà l’instaurarsi di un clima accogliente in cui le sensazioni e le emozioni possano prendere forma ed essere comprese empaticamente e un nuovo sentimento di ‘verità’ possa nascere dalla condivisione di tali esperienze. Ciò che conta è che ci sia sintonia, che ci si incontri sulla stessa lunghezza d’onda, poiché questo è il presupposto per poter comprendere le emozioni degli altri. Per tornare agli esempi fatti prima, chi assume un orientamento relazionale si rende conto che solo all’interno di una relazione risonante ed empatica si potrà comprendere il senso di un racconto in cui compaiono una torre o un campanile, come pure il senso emotivo di quel colore rosso o blu, usato da quel determinato soggetto in quel determinato contesto.

      Non basta tuttavia aderire razionalmente ad un determinato orientamento. Anche se siamo dei fautori convinti dell’approccio relazionale, in talune circostanze potremo infatti scoprire che stiamo ricorrendo a spiegazioni o interpretazioni calate dall’alto, magari per difenderci dal rischio di esporci ad una vicinanza emotiva e relazionale vissuta come troppo pericolosa. E’ come se si dicesse, in questi casi: “sei tu che hai un problema, io non c’entro nulla, non mi riguarda”.
      Dicevo che questa riflessione è fondamentale anche per chi si occupa di terapie a mediazione artistica poiché, a volte, l’arteterapia mitizza il potere curativo dell’arte, salvo poi appoggiarsi, se costretta a misurarsi con severe condizioni di disagio psichico, alla stampella di un sapere psichiatrico di vecchio stampo, che tende a catalogare ed etichettare, oppure a modelli psicoanalitici intrapsichici che non rappresentano il migliore equipaggiamento per addentrarsi nei territori ‘oltre la parola’.

2. La crisi della Metapsicologia freudiana e dei modelli intrapsichici

      Già da molti decenni la Metapsicologia (o teoria generale della psiche) elaborata da Freud ha perso il ruolo ‘sacrale’ che aveva un tempo, e i modelli intrapsichici che ne sono derivati (a partire da quello kleiniano) sono stati sottoposti ad un serrato vaglio critico.
      Freud distingueva tra fenomeni intrapsichici (interni alla psiche dell’individuo) e interpsichici (o intersoggettivi). Ma la sua attenzione si concentrò soprattutto sul mondo intrapsichico, o ‘mondo interno’. In esso, secondo la concettualizzazione freudiana, agiscono delle forze innate, le pulsioni, che hanno origine nel corpo e sono guidate dal ‘principio del piacere’ (dove il piacere viene fatto coincidere con la cessazione di uno stato di eccitazione attraverso la ‘scarica’ delle energie pulsionali). Ma poiché il desiderio di soddisfare le pulsioni si scontra con il mondo esterno, il mondo interno viene ad essere abitato, oltre che da rappresentazioni degli ‘oggetti’ che hanno procurato soddisfazione, anche da rappresentazioni dei divieti provenienti dal mondo esterno e diventa perciò il teatro di conflitti tra diverse istanze. Tali rappresentazioni sono ‘fantasie’ in cui la Realtà viene modificata e distorta. E’ perciò fondamentale distinguere, attraverso l’Esame di realtà, tra ‘fantasia interna’ (soggettiva) e ‘realtà esterna’ (oggettiva)
      Freud concentra dunque la sua attenzione prevalentemente sui processi psichici interni all’individuo e sul modo in cui questi influenzano i rapporti interpersonali.  Pur non ignorando che l’influenza è nei due sensi, e che anche il mondo esterno influenza l’interno, si occupa quasi esclusivamente delle vicende ‘intrapsichiche’. Questo vale non solo per la sua elaborazione teorica, ma ancor più per la pratica terapeutica che da Freud si è sviluppata. Irrigidendo gli aspetti più conservatori del suo pensiero, l’ortodossia psicoanalitica ha rinunciato a occuparsi sia dei rapporti, presenti e passati, sperimentati con le persone significative della propria vita, sia del rapporto analista-paziente, per concentrarsi esclusivamente sulle dinamiche intrapsichiche. Conflitti e mediazioni paiono avvenire esclusivamente in un teatro interno, abitato da personaggi come Es, Io e Super-Io, oppure Seno-buono e Seno-cattivo, e così via, che erano già là, e che l’incontro con l’analista si limiterebbe a far uscire allo scoperto.
      Con il passare del tempo, tuttavia, l’estensione del campo di applicazione della psicoanalisi a nuovi contesti (il lavoro con i bambini, il mondo della psicosi, il lavoro nelle istituzioni, le pratiche di gruppo) ha portato a modifiche della pratica terapeutica, a variazioni del setting e ad un’enorme quantità di nuove esperienze, che hanno indotto a dei ripensamenti anche sul piano teorico.  
      Ogni variazione del setting, in effetti, favorisce una diversa fenomenologia. Il lettino, in cui il paziente è visto ma non può vedere l’analista, è funzionale ad una teoria in cui è necessario che il paziente regredisca ad una condizione da nursery affinché il suo transfert possa essere analizzato; corrisponde inoltre ad una pratica terapeutica fondata sul mito di un’analista che non partecipa al campo relazionale ma si limita ad offrirsi come sfondo neutro e asettico su cui il paziente proietta i contenuti del suo “mondo interno”.  
      Nel setting vis-à-vis emergono in tutta la loro evidenza aspetti che prima si cercava di sterilizzare e che riguardano la relazione che si sviluppa nell’attualità tra analista e analizzando, nonché l’intreccio tra i rispettivi transfert. Il vis-à-vis riduce l’asimmetria della relazione e consente un complesso intreccio di comunicazioni, verbali e non verbali, che viaggiano nei due sensi. Diventa così cruciale la capacità dell’analista di accogliere emotivamente l’altro ed emergono fenomeni come il rispecchiamento, la risonanza, la sintonizzazione.
     Il cerchio introdotto dalla Gruppoanalisi, in cui ogni membro è visto e può vedere tutti gli altri membri del gruppo e il   conduttore siede all’interno del cerchio, fa emergere un intreccio ancor più complesso di comunicazioni verbali e non verbali e nuovi fenomeni, che difficilmente potevano essere sperimentati nel setting duale. Si risuona con il gruppo, ci si rispecchia non solo con il terapeuta ma anche con gli altri membri del gruppo. Di conseguenza il nuovo setting ha portato allo sviluppo di nuovi pensieri teorici, come il concetto, sviluppato da Foulkes, di un transfert orizzontale, tra pari. Ha inoltre avuto una notevole influenza sulla tecnica (si veda l’importanza data alla qualità qui-ed-ora dell’interpretazione). In un articolo pubblicato nella Rivista Group-Analysis,  Stephen Arcari  sottolinea inoltre che la posizione in circolo incoraggia il pensiero simmetrico. A questo proposito vorrei aprire una parentesi per segnalare che il cerchio di persone sedute sul pavimento su dei cuscini (un’ulteriore variazione del setting, frequentemente utilizzata nell’ambito delle pratiche corporee o a mediazione artistica) fa emergere in modo ancor più significativo la comunicazione corporea anche durante i cosiddetti ‘spazi di verbalizzazione’. Il corpo diventa più plastico e se, ad esempio, qualcuno non si sente connesso, in un determinato momento, con il resto del gruppo, è probabile che lo segnali involontariamente con la posizione del corpo (magari arretrando un poco, in modo da porsi un po’ fuori dal cerchio, oppure girandosi in altra direzione, o altro ancora) e il suo stato d’animo potrà essere recepito, anche in assenza di parole, attraverso meccanismi di rispecchiamento che coinvolgono specifici processi neuronali (i neuroni a specchio), da altri membri del gruppo.

      In parallelo con le molte nuove esperienze che si andavano accumulando, si è andata sviluppando una grande quantità di studi comparati che poco alla volta ha messo in luce l’incompatibilità tra le più recenti scoperte della neurobiologia e molti concetti che Freud aveva preso in prestito dalla fisica e dalle scienze biologiche del suo tempo. Gli studi contemporanei sul cervello e quelli della infant observation, concordano sul fatto che il bambino è diverso da come lo pensava Freud: mentre per Freud il piacere coincideva con la 'scarica' di un’energia psichica, il bambino sarebbe invece un essere continuamente attivo, teso alla ricerca di stimoli. Anche le idee di Freud sul rapporto tra processo primario e processo secondario, tra immagini e pensieri sono state oggetto di profonda revisione. Infine i neonati non avrebbero ‘relazioni oggettuali’ ma “esperienze che coinvolgono altri esseri umani”  

      Ciò che colpisce chi abbia un po’ di dimestichezza con l’antropologia culturale, inoltre, è il fatto che in tutti i modelli intrapsichici l’ambiente il cui il soggetto è immerso fin dalla nascita non è quello specifico ambiente con quelle determinate caratteristiche, in cui si sperimenta un certo tipo di relazioni e non altre, ma un ambiente standard, astorico, che sembra di origine naturale anziché culturale, cui vengono attribuiti caratteri universali. Così, nel modello kleiniano il mondo intrapsichico appare abitato da immagini fantasmatiche innate, come il “seno buono”, il “seno cattivo”, che l’incontro con l’ambiente si limita a far uscire dall’ombra in cui già preesistevano.


 3. Dal paradigma intrapsichico al paradigma relazionale

      Come già ho accennato, oggi emerge un fil rouge che invita a percorrere la storia della psicoanalisi come storia di una trasformazione che traghetta dalla originaria concezione individualistica e intrapsichica ad una nuova concezione di tipo relazionale.
      Tutto questo è avvenuto in un arco di tempo non piccolo: quasi un secolo, infatti, è passato da quando un precursore come Ferenczi iniziò a criticare l’idea della neutralità dell’analista. Per la sua eccessiva modernità l’opera di Ferenczi fu tuttavia fortemente osteggiata dai contemporanei, per essere rivalutata solo in tempi più recenti. Già nei primi decenni del secolo scorso, Ferenczi considerava i processi terapeutici o formativi non prevedibili poiché si sviluppano dall’incontro tra due diverse soggettività, rifiutava il tabù dei contatti corporei e criticava il concetto, allora sacrale, della neutralità dell’analista, ritenendo che in certi casi un simile atteggiamento non faccia che rafforzare l’esperienza avuta dal paziente in passato con un genitore indifferente o rifiutante.
      Miglior fortuna ebbe il gruppo degli indipendenti inglesi, Winnicott, Fairbairn e Balint. Leggendoli ho avuto l’emozionante sensazione di essere di fronte a degli squarci operati all’interno di un apparato concettuale ancora vecchio, che tuttavia già aprono a una nuova concezione della vita psichica e della pratica analitica.
Fino dagli anni ’30, pur rimanendo all’interno della tradizione kleiniana, essi svilupparono una particolare sensibilità e attenzione alle relazioni, a partire da quelle originarie madre-bambino. Anche per quanto riguarda la pratica clinica, con loro iniziò ad emergere la consapevolezza che l’analista non è un osservatore neutrale e uno specchio in cui si riflette il mondo interno del paziente, poiché la sua soggettività, i suoi atteggiamenti, vissuti, comportamenti (partecipi o distaccati) influiscono sulla relazione analitica.
      Winnicott sottolinea l’importanza della holding materna per lo sviluppo del bambino e afferma che il setting è anzitutto l’ambiente emotivo fornito dall’analista: un ambiente che, soprattutto inizialmente, dev’essere improntato alla massima accoglienza.
      Fairbairn, in contrasto con la ‘teoria delle pulsioni’, afferma che il bambino non cerca il ‘soddisfacimento orale’ ma cerca piuttosto, attraverso il contatto con il seno, il rapporto con la madre. Considera il mondo interiore dei pazienti un teatro privato dove operano, anziché entità astratte, personaggi derivanti dalla interiorizzazione delle prime relazioni oggettuali. In sostanza diventa “mondo interno” ciò che un tempo è stato “esterno”.
      Negli Stati Uniti, fin dagli anni ’20 Sullivan, Karen Horney e Fromm percorsero vie simili, ma accentuando l’importanza degli aspetti interpersonali e fondando il movimento di Psicoanalisi interpersonale. Vennero considerati dai contemporanei non oppure non più psicoanalitici, per essere poi riscoperti dai successori, che da loro trarranno ispirazione per rivitalizzare il pensiero e la pratica della psicoanalisi
       Negli anni ‘70, Kohut, sulla base delle sue esperienze con gli psicotici, svilupperà  trasformazioni teoriche e cliniche radicali, pur conservando l’asse passato-presente, e darà vita alla Psicologia del Sé. Kohut ritiene che la psiche del neonato abbia bisogno di un oggetto capace di empatia, per arrivare a sentisi un Sé intero. In caso contrario si disintegra. Per consentire di ricostruire un Sé frammentato la terapia dovrà basarsi sulla immedesimazione empatica con il paziente.  
       La Psicologia del Sé si intreccia con varie correnti legate al filone della psicoanalisi interpersonale (Sullivan), intersoggettiva e con la infant reseach (ricerca psicoanalitica infantile di tipo sperimentale realizzata da Daniel Stern e altri), dando corpo al nuovo orientamento relazionale, che grazie all’opera di Mitchell ha iniziato ad influenzare notevolmente, a partire dagli anni 80-90  anche la psicoanalisi ‘ortodossa’, non solo negli Stati Uniti, ma anche in altri  paesi.

       Se comunque confrontiamo il punto di partenza e il punto di arrivo di questo lungo e non lineare cammino, ci accorgiamo che è avvenuto, e che è tuttora in atto, un profondo cambiamento, anche se più accentuato in certi settori della psicoanalisi contemporanea piuttosto che in altri.
      Sul piano clinico i cambiamenti sono stati abbastanza chiaramente analizzati e teorizzati, mettendo a confronto i criteri di riferimento, i comportamenti e la posizione di un analista del passato e di un analista contemporaneo che abbia un orientamento relazionale.
      Per quanto riguarda, invece, la teoria generale della psiche elaborata da Freud, la cosiddetta Metapsicologia, anche se molti autori hanno sottoposto ad un’analisi critica serrata il pensiero di Freud, non si è sviluppata una nuova teoria complessiva che possa sostituire l’impianto teorico freudiano. Questo, a mio avviso, dipende soprattutto dal fatto che l’orientamento relazionale non rappresenta l’ennesimo modello che si propone di descrivere dettagliatamente i meccanismi che agiscono all’interno della psiche, tutto ciò che succede in ogni fase dello sviluppo, e così via. Si tratta piuttosto di un cambiamento di orizzonte: oggi ci si rende conto più che nel passato che non è possibile descrivere a priori tutti i possibili accadimenti e includerli in un’unica costruzione. Per fare un esempio, si pensi all’affermazione di Daniel Stern sull’importanza che hanno, nel lavoro analitico, quei passaggi che egli chiama new moments, momenti straordinari caratterizzati da esperienze emozionali impreviste, piene di riconoscimento reciproco, di autentico incontro tra analista e paziente, che avvengono sul confine tra il setting analitico e la spontaneità dell’incontro umano. A suo dire sono gli unici che possono produrre cambiamenti nella memoria procedurale del paziente, quella che regola in modo automatico i comportamenti importanti (dal camminare al modo di relazionarsi con gli altri). In questi momenti emergenti si tollera il disordine, il non sapere,  ci si fa guidare dall’intuizione e dall’empatia. Anche se, sottolinea D. Stern, queste eccezioni hanno un valore inestimabile proprio in quanto eccezionali: l’irrompere della spontaneità trasgressiva all’interno della cornice del setting, che deve mantenere le sue regole e i suoi aspetti rituali.
      Mentre in un‘ottica deterministica come quella freudiana tutti i tasselli della costruzione possono essere messi a posto, qui si teorizza proprio il valore trasformativo di esperienze emozionali che nascono dalla capacità di tollerare l’imprevisto, lo spiazzante e il bizzarro. Ecco perché non possiamo pensare di poter sostituire la Metateoria freudiana con una teoria diversa ma simile nelle sue caratteristiche di razionalità esplicativa.
      Molti hanno così spostato l’attenzione dagli elementi di diversità presenti nei vari modelli teorici alla base comune rappresentata dall’esperienza clinica, per trarne gli elementi su cui fondare una Teoria clinica che sia più vicina all’esperienza.
 

4. Confronto tra orientamento intrapsichico e orientamento relazionale.

      Schematizzando, le principali differenze tra questi due orientamenti possono essere così riassunte:
1. La psicoanalisi classica vede l’essere umano come qualcosa di isolato e di chiuso e rivolge la sua attenzione al mondo intrapsichico. Nella visione relazionale, al contrario, l’essere umano è immerso in un mondo di relazioni e si ritiene che solo all’interno di un campo relazionale sia possibile conoscerlo.
2. Il “mondo interno” dei modelli intrapsichici è una dimensione astratta in cui agiscono forze impersonali senza rapporto con l’esperienza. Nell’orientamento relazionale, invece, anche quando si mantiene il concetto di “mondo interno” (che solo nelle versioni più radicali viene quasi completamente abbandonato)  le rappresentazioni interne sono il derivato di ciò che è  stato sperimentato fin dalla nascita nelle relazioni con l’ambiente.
 Da queste premesse teoriche derivano significative differenze nella pratica:
- il setting analitico classico è concepito come laboratorio asettico dove un analista/osservatore neutrale interpreta le manifestazioni transferali del paziente;  nell’orientamento relazionale, invece, il setting è un campo intersoggettivo dove si sviluppa una particolare relazione, quella tra analista e analizzando, ed entrambi si influenzano reciprocamente
- mentre per la psicoanalisi classica l’analista è esterno al processo nevrotico e il controtransfert è un’ingerenza da evitare, nell’orientamento relazionale il controtransfert (o transfert dell’analista) aiuta a comprendere la relazione.

      Ovviamente, lo schema che ho proposto serve come punto di partenza, per capire di cosa stiamo parlando, ma ha, come tutti gli schemi, il difetto di cancellare i chiaroscuri e di appiattire le posizioni radicalizzandole. Così, ad esempio, anche se si assume un orientamento relazionale resta valida l’idea che le nostre rappresentazioni interne, pur essendo un derivato di ciò che è stato effettivamente sperimentato nel corso della propria storia, non ne sono sic et simpliciter una copia conforme.
     Come sottolinea Sommmaruga in un suo recente scritto  ciò che il paziente narra di sé non è verità storica ma verità narrativa. La sua autobiografia è un insieme di fatti realmente accaduti, di vicende immaginate e  di racconti fatti dai familiari, “il tutto arrangiato per avere un minimo di coerenza con ciò che il paziente pensa di sé”. Così certi racconti su un genitore terribilmente  severo o assente possono corrispondere ad esperienze reali oppure essere la forma che vengono ad assumere le esperienze di angoscia e di mancanza vissute nell’infanzia, nella misura in cui il bambino non si è sentito ascoltato e accolto emotivamente. Allora anche un fatto di per sé banale come il rifiuto di un gelato può assumere, all’interno della sua autobiografia, le sembianze di un ‘trauma’.
 
       Anche tra coloro che sono favorevoli all’orientamento relazionale si osservano delle differenze, tanto che c’è chi distingue tra:
- orientamento intersoggettivo
- orientamento relazionale in senso ampio

 
      I primi, pur riconoscendo il valore della relazione che si sviluppa nell’attualità, ritengono che l’asse passato-presente resti valido e che l’attività interpretativa non vada abbandonata. Ciò che cambia è il peso dei vari elementi della situazione analitica  e il rapporto tra la relazione e l’attività interpretativa. Si ritiene che l’attività interpretativa (nella misura in cui si riesce insieme a “dare senso” a ciò che avviene nel vivo del rapporto analista-paziente), resti necessaria per portare “fuori” da un sistema relazionale stereotipato e ripetitivo, consentendo una trasformazione della stessa relazione analista-analizzando. Molti continuano a utilizzare concetti classici come i meccanismi di difesa, attaccamento e angoscia di separazione, e così via, ma ricomprendendoli all’interno di un quadro profondamente trasformato.
     Coloro che hanno un orientamento relazionale più radicale (e che hanno come riferimento la Psicologia del Sé e le elaborazioni di Sullivan) spostano invece quasi completamente l’attenzione su ciò che avviene nella relazione attuale terapeuta-paziente. Cosa non apprezzata da tutti, in quanto c’è chi teme un declassamento dell’analisi a 'semplice psicoterapia', come se l’interpretazione fosse di per sé un tratto distintivo di tipo aristocratico.
     Altri ancora osservano che non è questione di scegliere una volta per tutte tra le due posizioni, e fanno dipendere la scelta della condotta terapeutica (inclusa la questione se dare o non dare interpretazioni) dalle caratteristiche del paziente.

5. Il mio punto di vista sulla questione dell’interpretazione
       A mio modo di vedere, il ricorrere o meno all’interpretazione non è questione di quarti di nobiltà. Per certi versi è più facile e comodo far cadere dall’alto delle interpretazioni sull’altro piuttosto che mettersi in gioco con l’altro. Trattando le psicosi, le tossicodipendenze, o situazioni di handicap psichico con diagnosi mista, appare chiaro che il problema non è cosa sia più nobile, ma quale via ci permette di incontrare quel determinato paziente.
       Tuttavia la condotta terapeutica non può essere stabilita esclusivamente e aprioristicamente attraverso una decisione razionale presa in base ad una diagnosi. Molto dipende dal dispiegarsi della relazione e del processo, e da come riusciamo a porgere ciò che comprendiamo, se con empatia o con Anti-Pathos.
       La questione è non solo, a mio parere, se sia opportuno dare o non dare interpretazioni, e quando, ma anche come si intende l’attività interpretativa – diretta o indiretta, satura o insatura,  puramente verbale o che sappia andare ‘oltre la parola’ –  e in quale contesto relazionale avviene (osservazione e giudizio sull’altro o contesto del ‘come se’ o del gioco reciproco).
      Per rendere più accessibile il concetto di ‘interpretazione indiretta’ e ‘insatura’, proverò a portare qualche esempio. A volte mi accade di associare il mondo relazionale che sperimento con un determinato paziente nel corso di una seduta ad altre esperienze, ad altri incontri. E allora questo mi permette di dire che “una volta ho conosciuto una persona che…..”, oppure “una volta una persona saggia mi aiutò a capire che….” Non sono mossa, così facendo, dal desiderio di parlare di me (sarebbe un’inopportuna interferenza, un abbandono della regola dell’astensione), ma piuttosto dal desiderio di porgere  qualcosa che ho compreso all’interno del setting in un modo indiretto, più delicato, permettendo al paziente di immedesimarsi con altre storie, con altre persone, un po’ come avviene nei gruppi, quando la scoperta dell’uno consente anche ad altri membri di raggiungere un insight che altrimenti, in una relazione asimmetrica, non sarebbe tollerabile.  E ancora, le esperienze di drammatizzazione che ho potuto fare per molti anni mi inducono a volte, anche nel setting analitico, a dare senso a ciò che esprime il paziente, immaginandolo come una scena teatrale, in cui agiscono diversi personaggi di fantasia (che sono il frutto di una rielaborazione in chiave simbolica dei racconti del paziente e/o di ciò che avviene tra noi nel qui ed ora della relazione). “Se fossimo a teatro, vedrei una scena di questo tipo:….” . Questo permette al paziente di spostarsi idealmente in uno spazio ‘altro’, in cui ri-guardare le cose in modo ludico, non gravato dalla sensazione di essere “guardato dall’alto in basso” (non a caso in inglese lo stessa verbo -“to play”- significa sia giocare sia “mettere in scena” un lavoro teatrale). In questo modo è più facile, per il paziente, entrare anch’egli idealmente nella scena, aggiungendo qualcosa a ciò che io ho iniziato ad abbozzare, soprattutto quando sente che il gioco che propongo è un gioco in cui le sue emozioni sono state accolte e comprese attraverso l’empatia. Parlo di una scena che io ho solamente “iniziato ad abbozzare”: è importante infatti che un’interpretazione non saturi le possibilità di pensiero, ma resti aperta ad ulteriori contributi e sviluppi. Con un paziente che mi parlava da tempo di una relazione affettiva in cui era alla mercè dei desideri mutevoli della sua compagna, e si arrovellava sulle strategie da adottare per avere maggiore successo con lei, evocai una scena di questo tipo “in una casa riscaldata, d’inverno, un gattino ed una bambina… la bambina adora il suo gattino e gioca a lungo con lui, ma dopo un po’, presa da altri interessi, lo mette fuori casa, nel cortile… “ Il paziente (che aveva uno scarso contatto con le sue emozioni), potè calarsi nella scena concentrando l’attenzione sul freddo che provava il gattino, sul desiderio di cercare un nuovo focolare ma anche sul timore che, allontanandosi, la bambina non l’avrebbe più trovato se fosse tornata a cercarlo.
Un altro punto fondamentale, a mio avviso, riguarda il metterci in gioco pure noi. Solo se riusciamo a dare senso, anzitutto per noi stessi, al mondo relazionale in cui inizialmente il paziente tende a catturarci, riconoscendo la nostra partecipazione transferale, può avvenire una trasformazione della relazione. Il paziente cambia se anche noi con lui riusciamo a cambiare, se il nostro intento non è quello di cambiare l’Altro per conformarlo a determinati modelli di ‘normalita’, ma di vivere con l’Altro un processo trasformativo.
Contrariamente a quello che si pensava un tempo, ciò che distingue il paziente dall’analista non è il fatto che quest'ultimo ha liquidato i suoi transfert una volta per tutte, ma che, si spera, è più pronto a riconoscerli e farli diventare elementi del gioco creativo comune.

Giovanna.Bosco@libero.it


Giovanna Bosco, ‘Il  corpo, i suoni, i colori, la scena in psicoanalisi e nelle artiterapie’, in Oltre la parola: la relazione terapeutica e formativa tra psicoanalisi e arti-terapie (a cura di G. Bosco), Guerini, 2001 (se non più reperibile in libreria, si vedano  i siti Internet di Amazon e dei principali editori)

Giovanna Bosco, 'Dai modelli intrapsichici al paradigma relazionale', in Bollettino E-spèira n. 2, gennaio 2005

Stefhen Arcari: ‘The Unconscious setting of the Group’, in Group Analysis, the international Journal of Group-Analytic-Psychotherapy, marzo 2003, vol. 36, n. 1

J. Gedo, La storia intellettuale della psicoanalisi, 1973-1998, in Psicoterapia e Scienze Umane, 1999, XXXIII, 1: 5-33

Pietro Rizzi, 'Crisi e trasformazioni del trattamento psicoanalitico, in Trattamenti in setting individuale,  F. del Corno e M. Lang (a cura di), Ed. Franco Angeli, 2001

Silvia Vegetti Finzi, Storia della psicoanalisi, Mondadori, 1986

Pierluigi Sommaruga, Il tempo presente, in Il Ruolo terapeutico n. 117, 2011

 

4 commenti a Dal tramonto dei modelli intrapsichici all’orientamento relazionale

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    Marialuisa Palma scrive:

    Ho letto l'articolo e ho provato a riportare la mia esperienza come musicoterapista, esattamente come viene vissuto il silenzio, come passaggio che favorisce, benchè possa sembrare una contraddizione, la comunicazione. Un silenzio che dia spazio all'ascolto del corpo e alla riscoperta della nostra vita "interna". La capacità di creare e rispettare un'alternanza comunicativa permette di sintonizzarci con l'altro e riconoscere, nei suoni prodotti attraverso l'improvvisazione, la giusta intensità, lo stesso colore che dobbiamo riproporre per fare arrivare un messaggio chiaro: sono qui con te adesso e forse non ho capito, ma ci sono.   Il suono e i silenzi esprimono delle emozioni libere che solo nella capacità di ascolto non giudicante potranno metterci in comunicazione con l'altro. Questo è, a mio modesto parere, mettersi in gioco.

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    Jaime Ondarza Linares scrive:

      Avrei voluto scrivere queste righe del commento immediatamente, appena letto lo stimolante articolo di Giovanna Bosco. Per diversi motivi non ho potuto farlo, spero di essere ancora in tempo.

    Nella limitazione di spazio concesso alla sua esposizione, Giovanna Bosco percorre un “fil rouge”: la storia della Psicoanalisi come storia di una trasformazione che traghetta dall’originaria ’’ concezione individualista e intrapsichica ad una nuova concezione di  tipo relazionale…"  Pur segnalando quasi tutti i punti del percorso per niente facile e pieno di insorgenti interrogativi, nella teoria metodologica e clinica, arriva a concludere: “per quanto riguarda,invece, la Teoria generale della psiche elaborata da Freud, la così detta Metapsicologia, (…segue il testo).”non si  è sviluppata una nuova teoria complessiva che possa sostituire l’impianto teorico freudiano… “ E conclude che “l’orientamento relazionale non rappresenta l’ennesimo modello che si propone di descrivere dettagliatamente i meccanismi che agiscono all’interno della psiche (…) si tratta piuttosto di un cambiamento di orientamento, di orizzonte…”  

    In qualche modo bypassando il delicato “passaggio” vorrei riferirmi, seppur succintamente, allo specifico del pensiero gruppoanalitico sull’argomento. La Gruppoanalisi (mi riferisco al modello del S. H. Foulkes e seguaci dalla Group Analytic Society, ormai sparsi in tutto il mondo). Non è un “aut-aut” tra il modello “intrapsichico” e quello “relazionale”. E’ormai luogo comune ripetere l’affermazione di De Mare (1972) che Foulkes incominciò dove Freud si fermò nel conflitto individuo-gruppo.

    Sintetizzando al massimo cose risapute: il modello della realtà intrapsichica si fonda all’interno della monade individuale in cui inseriamo le due topiche: 1) Conscio-Preconscio-Inconscio; 2) Ego-Superego-Es; con la spinta dinamica, fisicalista e meccanicista della teoria delle pulsioni”…

    Il modello foulkesiano (segnaliamo che Foulkes, psicoanalista ortodosso, che dalla Germania si rifugia a Londra su invito di E. Jones) era allo stesso tempo coinvolto membro della Scuola sociologica di Francoforte con Elias. Un’altra costituente basica della sua formazione fu l’approccio neuropsichiatrico- olistico- gestaltico del suo maestro Goldstein (che piacerebbe molto ai contemporanei neurobiologi). Uscendo in modo chiaro dalla monade “intrapsichica”, Foulkes, stabilendo il primato della relazione afferma che l’individuo è solo il punto nodale di una rete interpersonale e traspersonale. I suoi costrutti di Rete, Matrice e “Relatedness” costituiscono  una tripode teorica della quale derivano prassi, metodologia e tecnica della Gruppoanalisi: una terapia attuata dal Gruppo per il gruppo medesimo incluso il suo terapeuta, che egli chiama conduttore. Malgrado la consistenza epistemologica di questa “trilogia” teorica, Foulkes non parla apertamente di istinto o pulsione relazionale, ma di relatedness che usualmente non esiste nel vocabolario inglese. Anche per questo fatto viene criticato da Dalal, un “nipote” della Group Analytic Society, che accusa Foulkes di essere per metà rivoluzionario e per metà conservatore, per non aver rotto chiaramente col classico “modello pulsionale”. Dalal si schiera nel polo sociale (Vedi Dalal, 1998-Prendendo il gruppo sul serio-).

    Giovanna Bosco cita specificatamente il “cerchio” come nuovo setting che “porta allo sviluppo di nuovi pensieri, come il transfert orizzontale e la qualità “qui ed ora” dell’interpretazione… Cita un articolo di Stephen Arcuri (e le sue affermazioni “sul pensiero simmetrico”, ecc…). Sono andato a vedere l’articolo (Gruppoanalisi, 2003, 36, 1) e dopo averlo letto vedo che l’autore ripete (con dei riferimenti ad autori contemporanei) ciò che da 50 anni sottolineava Foulkes, e con lui foulkesiani e postfoulkesiani, mettendo in risalto gli aspetti metodologici e clinici della “configurazione dei processi relazionali” e quindi del processo interpretativo a cui ci riferiremo dopo.

    Sottolineando che si tratta di menzionare solo “en passant” aspetti del modello gruppo analitico, che aiutino a capire il mio commento sull’interpretazione, richiesto con accogliente semplicità di Giovanna Bosco, diciamo che Foulkes concepisce la relatedness come una pulsione esistenziale che si manifesta costantemente tra individuo e gruppo; tra Sé individuale e Sé gruppale, diremmo in una versione “contemporanea”. La relatedness è una pulsione costantemente “conflittuale” dando al conflitto non solo la connotazione meccanicistica e fisicalista del classico modello pulsionale, ma di un conflitto che ha come centro il processo di Comunicazione che Foulkes, ricordando l’epigenesi o lo sviluppo dell’identità di Erikson (1965), segnala che nel Gruppo analitico si configura in 5 livelli alla volta orizzontali e verticali, sincronici e asincronici come un rinnovato contesto della comunicazione alla ricerca di una nuova identità, senso e significato. Quasi sempre un conflitto tra coppie dialettiche (per esempio auotomia-dipendenza) in cui la comunicazione viene configurata. In riassunto fare Gruppoanalisi è usare le configurazioni conflittuali e dialettiche della comunicazione che accadono nel “setting” gruppale -tra Sé individuale e Sé gruppale- con delle prospettive terapeutiche (vedi Ondarza Linares-1999).

    -E adesso, finalmente il mio commento su “cos’è” l’interpretazione nel processo gruppoanalitico. Il rischio è quello di farlo apparire schematico, didascalico e riduttivo quando è innanzitutto un processo in cui tutto il gruppo ivi il terapeuta è coinvolto più o meno “attivamente”. Sottolineiamo ancora che il processo gruppoanaliticoè centrato sulla comunicazione, ciò significa non solo introdurre un cambio tecnico, metodologico o di orientamento, bensì mettere in atto un cambiamento epistemologico: il processo di interpretazione viene prospettato non solo come insight (fare conscio ciò che è inconscio o preconscio) o la consapevolezza di una causalità o condizionamento psicodinamico meccanicistico, che peraltro può avvenire nell’interazione gruppale. Il processo di interpretazione tende a promuovere dentro una rete gruppale che si va trasformando e cambiando in una nuova “matrice” gruppale di identità, senso e significato condivisi nel gruppo (“shared change”). Il tipico esempio è il sintomo “individuale”, (polarizzato in valenze “individuali” e “gruppali”) accettate come “biglietti d’ingresso” al viaggio terapeutico, che però nel processo che sarà un “traslation process” (processo di traslazione) affinchè individuo e gruppo “capiscano” il simbolo o senso che il sintomo nasconde (tra “simmetria-asimettria”, intrapsichico-relazionale…, vede Ondarza Linares-cit. precedentemente). Lo spiraglio del processo di traslazione viene favorito da “fattori gruppali”, che Foulkes chiama rispecchiamento (processo speculare) e risonanza, che avvengono costantemente nel gruppo sia come interazione individuale che come gruppo “in toto”, compreso il terapeuta che si suppone, grazie al proprio training gruppale, abbia maggiore consapevolezza per “seguire terapeuticamente” le vicissitudini intrapsichiche, interpersonali e trasferali di questo processo.

    -Di più il processo di comunicazione “gruppo analitico” non è solo un processo del gruppo ma una vera e propria esperienza di relazione intrapsichica-interpersonale  e transpersonale… ecco perché Foulkes li chiama “Ego training in action” (Abbiamo proposto di chiamarlo: “Training del Sé nella Comunicazione”). Infatti sfondo, contesto gruppale e interazione individuale in un primo piano (o viceversa) vanno configurando costantemente una relazione gestaltica tra sfondo e figura. – La configurazione di nuovi “spazi intermedi” (nel senso Winnicottiano) o nuovi “spazi sicuri” (nel senso Bowlbyano) favoriscono nuove e talvolta inedite configurazioni relazionali, che si “localizzano” nel Gruppo. Questo giustifica la proposta di chiamarlo “Analisi configurazionale”.

    - Per Foulkes, la “localizzazione”-anche questa- sarebbe da spiegare e rimando alla mia opera citata e l’equivalente gruppale dell’interpretazione “mutativa” concepita da Strachey (1934) nel processo psicoanalitico individuale.

    - Resistenze e difese esistono anch’esse configurate certamente come blocchi della comunicazione tra Sé individuale e Sé gruppale… Ad esse si rivolge costantemente il terapeuta: “Matrix oriented”, orientato verso la nuova matrice di Comunicazione… Invece di “propinare” interpretazione, si domanda perché il gruppo non è in grado di superarle da solo, favorendo il “working trought”: o elaborazione “attraverso” il gruppo medesimo quando vi è possibile. – Ero tentato di illustrare il mio commento sul “traslation process” con flash di un gruppo analitico, che seguo da qualche anno, ma ho constatato che per farlo in modo minimamente adeguato avrei avuto bisogno almeno di un paio pagine in più e così il presente “commento”diventa “lunghissimo”… se interessasse a qualcuno potrei farlo in un altro momento.

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    Franco Merlini scrive:

    Perchè non una terza via? Leggendo il lavoro di Giovanna Bosco “Dal tramonto dei modelli intrapsichici all’orientamento relazionale”, pur apprezzando la ricostruzione storica e, particolarmente, la chiarezza e il rigore nell'uso delle fonti (oggi c'è così tanta sciatteria…), non ho potuto chiedermi: ma esiste davvero quella psicoanalisi di cui parla? è la stessa che conosco e che pratico io? Lo stesso però mi è venuto da pensare anche rispetto al citato “orientamento relazionale”. Con questa mia dichiarazione mi sono già in parte schierato, ma spero di “emendare” la mia posizione più avanti e spero che queste mie affermazioni non facciano pensare a un generico disfattismo di teorie e tecniche psicologiche, altro sollazzo dei nostri tempi. Detto ciò, che io legga più volentieri “Freud o Lacan” piuttosto che gli “interpersonalisti nord-americani” non faccio fatica ad affermarlo. Etichette, ancora etichette, ci sono cascato, e pensare che è proprio questo che volevo “rimproverare” a Giovanna. Però vorrei pur dirlo, frequentando ambiti professionali diversi (tanto per non parlare del diavolo senza nominarlo, anche la SPI), davvero mi sembra che quel tipo di psicoanalisi descritta da Giovanna non venga più né teorizzata, né praticata. Se poi si pratichi in un modo e si razzoli in un altro, non so. Certo mi chiedo, come si fa oggi, a trovare quei pazienti con cui ancora è possibile “razzolare” in un certo modo. Altra osservazione che vorrei fare è che, soprattutto a partire dall'ultimo decennio e forse più, il suffisso relazionale è il lasciapassare nel nostro ambiente professionale per dire qualcosa di politicamente corretto, condivisibile e buono sempre; al contrario, spesso si può parlare di  psicoanalisi non sempre senza essersi prima schiariti la voce e aver chiesto “consenso”. Vi ricordate quando il caffe era di destra e il the di sinistra…? Chissà se questo viraggio spurio sul relazionale è stato amplificato dai tanti indirizzi sorti in concomitanza con le tante scuole di psicoterapia sorte negli ultimi anni, dall’influenzamento dei modelli teorici d’oltre oceano, dalla necessità dei nostri Sistemi Sanitari di avere sempre più bisogno di “oggetti” di cura visibili e misurabili? Certo, non posso non riconoscere che un certo establishment psicoanalitico ci ha messo la sua nel rendere poco fruibile il pensiero psicoanalitico stesso, ostica e scioccamente autoritaria una certa pratica formativa; e tanti sono quei colleghi che non trovando dentro ai gruppi, nelle associazioni, negli istituti, spazio, innovazione, rinnovamento, se ne sono andati, o sotto-sotto, hanno iniziato a praticare e a formare terapeuti con strumenti e tecniche “non ufficiali”. Insomma vorrei dire, non da khomeinista della psicoanalisi, fra “tramonti” e nuovi “orientamenti”, attenzione a non buttare via con l'acqua anche il bambino. D'altra parte, non mi immagino Giovanna statica e inamovibile su una posizione clinica piuttosto che su un'altra, anche se la sua simpatia per il "relazionale" è abbastanza evidente. Ha ragione l'amico Sommaruga: "…parlare di psicoterapie a indirizzo relazionale è come dire che l'acqua è acqua"; e ha ancora ragione quando dice che: "… tutto in natura è relazionale, visto che non esiste un essere vivente, a qualunque livello evolutivo sia collocato, se non in relazione al suo ambiente". Questa osservazione mi rimanda al bel seminario tenuto nel 2012 dal filosofo Roberto Mancini dal titolo: “Esistere nascendo”, una vera immersione nei valori più profondi dell’uomo, in un bagno di “relazionalità”, come si può dedurre dal titolo, ma anche, per chi ha avuto orecchio, una vera immersione di “psicoanalisi”. Dal valore identitario della relazione all’ incipit umano di dover aderire a se stessi, e senza scomodare metateorie o psicologismi rampanti! E questo mi aiuta a dire qualcos'altro.   Nella mia pratica professionale, io mi ritrovo ad usare il lettino ma come pure il vis-a-vis, a vedere i pazienti 3 volte la settimana ma anche 1 volta ogni due, associo, interpreto, ma anche consiglio e supporto, sto in silenzio ma anche faccio domande, a volte non rispondo altre volte parlo persino di me e dei miei altri pazienti. Credo in buona sostanza di fare come tutti e come tutti di essere abbastanza in grado di dare conto del mio diverso e variegato modo di agire. Non sto dicendo che tutto è relativo e che quindi dal punto di vista della pratica “di notte tutti i gatti sono bigi”, anzi, sto dicendo che la psicoterapia è sempre … un abito fatto su misura, ma certi fondamentali non cambiano. L’accenno fatto prima alla filosofia è per dire che il modo in cui occupo la mia posizione di analista non è sostenuta da criteri teorici di tipo tecnico-scientifico ma da assunti d’ordine etico-esistenziale. Cioè le categorie valoriali con cui pratico non vengono né dalla psicoanalisi né da altre psicologie, non fanno parte solo del conoscere ma anche del credere; pur tuttavia trovo che la psicoanalisi, diversamente da altri indirizzi di terapia, mi rappresenti meglio e mi consenta di esprimermi con più aderenza ai miei personali convincimenti. Senza questi, le nostre tecniche e le nostre teorie sono niente; ben sappiamo infatti come sia possibile “violentare” il nostro paziente sia con l’interpretazione più fine e più astinente di questa terra, sia abbracciandolo in una relazionalità accogliente e affettuosa.    Esempio, di fronte a un paziente, diciamo piuttosto grave, lungo quel continuum espressivo-supportivo indicato da Gabbard , dovrei usare più la confrontazione o l’interpretazione? favorire l’insight o rinforzare le difese? è meglio mantenere una posizione equidistante dall’Io, dall’Es, dal Super-Io o è meglio porsi più come “persona reale”? Ma hanno senso queste domande se non partiamo da una posizione che per definizione dovrà essere di ascolto, rispetto, fiducia ecc., comunque e per qualunque paziente? Personalmente non sarà la tecnica, né tantomeno la diagnosi ad orientarmi ma il mio desiderio, nella relazione con l’altro, di non mancare ai miei precetti, di cedere ai miei vincoli. Credo dunque che non si possa teorizzare il “cosa fare” senza prima aver declinato il “cosa siamo”. Giovanna stessa nel suo lavoro, appassionato e competente, non mi sembra sia riuscita a dire perché è meglio una cosa piuttosto che un’altra, ma non è un suo limite, anzi. E’ il limite con cui noi riusciamo a rappresentare il nostro lavoro, è l’eterno conflitto fra la teoria e la pratica, fra la descrizione e l’esperienza. E in fondo, se così non fosse, non sarebbe psicoterapia, cioè, esattamente come la vita. Così almeno sembra a me.               

  • Giovanna Bosco
    Giovanna Bosco scrive:

    Dopo tanta ricchezza di commenti vorrei poter continuare a dialogare, approfondire, in qualche caso dissipare qualche fra-intendimento. Tuttavia l’inizio della pausa estiva, e il poco tempo che ho a disposizione in questo momento, non mi consentono, per ora, di raccogliere appieno le numerose sollecitazioni.  Mi limiterò perciò a comunicare alcuni pensieri ed alcune emozioni che i tre interventi, ad opera di Maria Luisa Palma, Jaime Ondarza Linares e Franco Merlini, hanno suscitato in me.
    “Crocevia di incontri tra psicoanalisi, gruppoanalisi e artiterapie”: questa è stata fin dalle sue origini la ‘vocazione’ di E-spèira. Il fatto che siano giunti in un breve lasso di tempo tre commenti, ad opera di una musicoterapeuta, di un esponente della gruppoanalisi di matrice Foulkesiana, e di uno psicoterapeuta che afferma di preferire la lettura di Freud e Lacan a quella degli “interpersonalisti nordamericani”,  rendono questo crocevia ideale qualcosa di realmente vissuto e partecipato. A tutti sono grata per aver accolto il mio invito.

    Ringrazio  Maria Luisa Palma per il suo commento che, come un canto limpido, ha suscitato in me molte profonde vibrazioni. Partendo dalla valorizzazione del silenzio, crea sintonie, dialogo. Ha colto, tra le molte cose che scrivo, quel “mettersi in gioco con l’altro” che considero l’essenza stessa di una relazione trasformativa, e ripropone questo motivo arricchito dalla sua esperienza di musicoterapista. “sono qui con te adesso, forse non ho capito, ma ci sono”. E’ proprio così: solo quando ci si pone in una posizione di ascolto non giudicante e si rinuncia alla pretesa di capire tutto, allora è possibile “esser-ci”.
    Come ha compreso Jaime Ondarza Linares, ho cercato di contenere la mia esposizione, che tocca temi indubbiamente complessi, in uno spazio limitato, tenendo conto del contesto cui lo scritto era destinato. Il mio intento era quello di offrire stimoli alla riflessione e discussione, suscitare dialogo, piuttosto che scrivere un saggio esaustivo. Tuttavia, è possibile che nel passaggio da una prima stesura più ampia ad una più sintetica, si sia perso qualcosa della complessità originaria, e sia rimasto in primo piano soprattutto il paragrafo in cui, dopo aver fatto un excursus storico, ho cercato, schematizzando molto, di mettere a confronto le differenze tra orientamento intrapsichico e relazionale. Ogni schema, si sa, fa prevalere la dimensione dell’aut/aut su quella dell’e/e, e questo può aver favorito qualche fraintendimento. All’amico Merlini, che esprime dubbi sul fatto che esista ancora e sia praticata anche oggi la psicoanalisi “dura e pura”, che considerava l’essere umano una monade isolata e si fondava sul mito della neutralità dell’analista, vorrei segnalare che io non penso né parlo di un “modello” relazionale” da contrapporre, su un piano sincronico, alla psicoanalisi, così com’è teorizzata e praticata oggi, dalla SPI o altrove. Sono ben consapevole che l’analisi che si pratica oggi è diversa da quella che emerge da molti manuali scritti tra gli anni Trenta e Cinquanta del secolo scorso, e che ancora sopravviveva, per molti aspetti, fino a non molto tempo fa.  Non a caso parlo di “orientamento relazionale” come di un cambiamento di “paradigma” che emerge all’interno della stessa psicoanalisi, la quale, grazie a Dio, nel corso della sua lunga vita, non è rimasta imbalsamata in una sterile replicatività del passato.  Non un nuovo “modello”, dunque, ma un cambiamento di orizzonte che, spostando il focus sulla Teoria della clinica, consente di riconnettere all’interno del nuovo paradigma i molti modelli che, nel tentativo di superare gli aspetti più datati della Metateoria freudiana, sono andati proliferando in passato.  Non sono una fanatica degli “interpersonalisti americani”, anche se riconosco loro il merito storico di aver offerto dei preziosi stimoli critici, né penso che si debba scegliere tra Freud e Sullivan, anche perché, se si vuole approfondire le questioni anche dal punto di vista storico, forse val la pena di conoscere entrambi. Oltretutto Freud ha modificato più volte, nel corso della sia vita, il suo pensiero, come fanno, grazie a Dio, tutti i pionieri e i grandi pensatori, tanto è vero che nella sua opera alcuni hanno trovato le premesse,  magari a livello embrionale,  per molte svolte epocali.  

    Nel mio scritto ho accennato, sia pure brevemente (forse troppo brevemente) al fatto che si possono riscontrare delle differenze tra posizioni  relazionali più radicali  – che si richiamano agli “interpersonalisti” americani e, se prese isolatamente, possono apparire alternative al mondo della psicoanalisi -  e posizioni meno radicali, che si ricollegano agli “intersoggettivisti inglesi”, e che mantengono il concetto di ‘mondo interno’, considerandolo però (questa è la novità sostanziale) un derivato delle relazioni effettivamente sperimentate a partire dalla nascita nel rapporto con l’ambiente. Non ho preso posizione, perché la mia personale vocazione è sempre stata quella di fare da “ponte” tra posizioni diverse, piuttosto che chiamare a schierarsi, ma leggendo  il Profio Scientifico di E-spèira  si può ben comprendere quali siano i nostri principali riferimenti.
    Pur facendo parte anch’io, come Ondarza Linares, della Group Analytic Society International, ho accennato solo marginalmente alla Gruppoanalisi, poiché pensavo che presentare la svolta epocale che essa introduce, ed entrare nel merito delle sue varie declinazioni, richiedesse uno spazio ed un tempo ad hoc. (Anche quando ho accennato al mio modo di intendere l’interpretazione, ho fatto riferimento a esperienze di lavoro nel setting duale).
    Ma l’essere stata anticipata non mi dispiace affatto. Il commento di Ondarza Linares, è come l’ingresso di una voce nuova, che introduce nuove sonorità, un diverso impianto armonico, pur tenendo aperto il dialogo con quanto lo ha preceduto. Mi limito qui a riprendere alcuni tra gli elementi che sento profondamente consonanti: il fatto che la Gruppoanalisi, nella concezione Foulkesiana, è “una terapia attuata dal Gruppo per il gruppo medesimo, incluso il suo terapeuta, che egli (leggi: Foulkes) chiama conduttore",” un concetto davvero rivoluzionario che ha come corollario il fatto che all’interno del processo gruppoanalitico l’interpretazione è “un processo in cui tutto il gruppo, ivi compreso il terapeuta è coinvolto più o meno attivamente”.
    Raccolgo con piacere la sua offerta di illustrare il “translation process”  con un flash di un’esperienza diretta di un gruppo da lui seguito da alcuni anni. Naturalmente dopo l’estate, poiché ora ci fermiamo per la pausa estiva, e solo a settembre potremo trattare nuovi commenti, come pure nuovi contributi al Circolo on-line.

     

     

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