Corpo e voce nell’esperienza psicoanalitica

di Giovanna Bosco

Anche se nella tradizione psicoanalitica non manca l’attenzione ai fenomeni extra-verbali, fino ad ora la psicoanalisi ha per lo più ritenuto che tutto ciò che viene espresso con modalità diverse dalla parola rappresenti una regressione ai livelli primitivi (in quanto precedenti la nascita del linguaggio) dello sviluppo psichico. Da qui la tendenza a considerare il corpo del paziente – con le sue posture, la sua mimica, il gesti ripetitivi, le somatizzazioni – principalmente come oggetto di ‘osservazione’ da cui trarre indizi sui contenuti psichici ‘pre-verbali’, per poterli recuperare alla coscienza attraverso la parola.

Si tratta di un nodo problematico non più eludibile, con radici antiche nel pensiero occidentale, che richiede una profonda ri-considerazione.  La scissione corpo-mente, che pervade la nostra cultura, può essere fatta risalire a Platone. Affermando che la vera realtà è rappresentata dal mondo “ideale”, Platone stabilisce la matrice filosofica da cui deriverà la svalutazione di tutto ciò che è legato all’esperienza sensoriale, alla materia, al corpo (il mondo “sensibile”) che sarà poi ripresa dal Cristianesimo con Agostino, e successivamente da Kant.  Eppure il termine “sensibile” ha un doppio significato: si riferisce non solo a ciò che viene percepito attraverso i sensi, ma anche alla capacità di comprendere gli stati d’animo e le emozioni, proprie e altrui, il mondo della natura e dell’arte. E’ dunque presente, nel sentire comune, la connessione tra l’essere ‘radicati nel corpo’ e la capacità di provare emozioni e di conoscere l’Altro emozionalmente.
Tuttavia la scissione corpo-mente che ha permeato la cultura occidentale fin dai tempi antichi, ha portato la stessa psicoanalisi a sopravvalutare il “mentale” e il “verbale” a scapito dell’esperienza “sensibile”.  
Già anni fa, leggendo la Presentazione di Parthenope Bion  ad un volume di C. Neri sui Gruppi (1995), fui colpita dalle sue riflessioni in proposito. Affermando che la psicoanalisi aveva fino ad allora sopravvalutato la parola, considerandola l’unico efficace mezzo terapeutico, scriveva:
“non voglio dire che gli psicoanalisti non tengono conto di altre forme di comunicazione, ma i termini usati per definirle tendono ad essere vagamente denigratori: acting, acting out, proiezione, identificazione proiettiva sono tutti dei termini che sono accompagnati non da odore di santità, ma piuttosto di disapprovazione”. Aggiungeva poi che la tendenza a ritenere, sotto sotto, che  tutta l’attività mentale di valore sia potenzialmente verbalizzabile “ha reso più difficile lo studio di tutti quei fenomeni che non solo traggono forza dai sostrati non verbali ma che dimorano di diritto in quelle regioni”.

Negli ultimi decenni, tuttavia, questa tradizione, anche se profondamente radicata, ha iniziato ad essere oggetto di ripensamento.
Interessanti le riflessioni di Paolo Di Benedetto, che in un suo lavoro pubblicato nel1998 sottolineava come l’ancoraggio all’interpretazione verbale possa rappresentare una difesa dell’analista nei confronti delle emozioni e dei suoi sentimenti verso il paziente: “nel corpo a corpo con il paziente, all’interno del campo relazionale, il terapeuta perde: perde il ruolo di Piccolo Principe in funzione del quale e a protezione del quale si è storicamente strutturato il setting; perde il dominio delle teorie, delle cose che conosce, dei vertici teorici che lo sostengono; e si confronta con il proprio corpo. Il modo con cui potrà considerare i suoi vissuti e fenomeni corporei dipenderà molto dal fatto che egli li senta prevalentemente in modo amichevole (come segnali che aiutano a comprendere sé, l’oggetto e l’andamento della relazione) o al contrario, prevalentemente indesiderabili”.
Ho messo in rilievo, usando il carattere corsivo, il passaggio in cui Di Benedetto parla dei fenomeni corporei dell’analista come segnali preziosi che aiutano a comprendere ciò che avviene nella relazione con il paziente, perché queste parole aprono a nuove prospettive. E’ implicito l’invito ad abbandonare quella protezione un po’ algida derivante dall’ancoraggio alle teorie "forti", che perpetuavano l’illusione di poter trovare in un sapere già posseduto a priori gli strumenti per spiegare tramite la parola tutto ciò che avviene nel setting analitico. Si può cogliere, nel passo che ho citato, l’invito e l’incoraggiamento a mettersi in gioco pienamente nella relazione con l’Altro, accogliendo in particolare i propri vissuti e fenomeni corporei come segnali preziosi  per comprendere ciò che avviene nel campo relazionale analista-paziente. Sia per la centralità assegnata alla relazione analista-paziente, nei suoi aspetti imprevedibili e spiazzanti, sia per il valore che viene ridato ai fenomeni corporei, a partire da quelli che riguardano lo stesso analista, si può pensare ad un cambiamento paradigmatico.

Per quanto mi riguarda, sono state fondamentali alcune esperienze maturate con pazienti che avevano già alle loro spalle precedenti percorsi analitici, che non sembravano tuttavia aver raggiunto il loro disagio, ma averlo piuttosto reso più coperto ed inaccessibile: proprio questi incontri hanno rafforzato in me la consapevolezza del senso difensivo che viene spesso ad assumere, nella pratica analitica, il primato assegnato alla comunicazione verbale.  
Ricordo ad esempio A., un giovane uomo di gradevole aspetto, colto ed intelligente, tuttavia molto irrigidito, sia a livello corporeo che sul piano relazionale.  Benchè avesse già fatto molti anni di analisi con un collega più esperto di me, sembrava che, anziche “vivere” un’esperienza analitica, avesse “parlato” di psicoanalisi con chi mi aveva preceduta.  A. sapeva già tutto, mi riferiva molte interpretazioni del mio predecessore, ma non pareva che questo sapere gli avesse minimamente giovato.  Presto iniziò a rivelarmi che si sentiva spesso sdoppiato, oppure talmente perseguitato dai suoi pensieri ossessivi da mettere in atto, fuori dalle sedute, comportamenti autolesionistici. Quando comprese che rivolgeva contro di sé una collera che gli era vietato rivolgere all’esterno, indirizzò la sua ira verso il suo ex analista, che, a suo dire, si era impossessato della sua mente e lo costringeva a “pensare con i suoi stessi pensieri”. Non potendo rivolgere a me l’accusa di riempirlo con i miei pensieri, dal momento che difficilmente mi faccio trascinare in contese intellettualistiche, incominciò ad accusarmi di essere una Maria Antonietta che esibiva una aristocratica spontaneità, oppure una Vispa Teresa, o ancora una melensa propinatrice di sentimentalismi. Sentivo con tutte le fibre del mio corpo che praticamente qualsiasi mia espressione veniva “uccisa” sul nascere, e che anch’io ero condannata a fallire, come il suo precedente analista. Glie lo comunicai in chiave interrogativa, con poche parole ("debbo anch'io, come il suo precedente analista, dichiararmi sconfitta e alzare le mani?") accompagnate da una forte espressività non verbale: il tono della voce, giocoso e allusivo, la gestualità (le mie mani alzate in gesto di resa). Avevo capito il gioco e dunque potevo introdurre un nuovo "gioco", dando  senso, come su un palcoscenico, al copione già scritto  in cui mi stava trascinando ad assumere il ruolo "assegnato". Questa fu la svolta da cui presero l'avvio ricordi e riflessioni sulla sua storia familiare. Presto ci fu chiaro che nel suo mondo qualsiasi possibilità espressiva, sia di tipo razionale che di tipo affettivo, era vietata.
Già dopo il primo anno il rapporto tra noi si era notevolmente trasformato: la relazione tra di noi non era più prevalentemente dominata dal mal-essere, si apriva ogni tanto  uno spazio intermedio in cui c'era posto per la curiosità e il gioco, perfino per il "gusto" di giocare insieme quel nuovo gioco creativo. Anche la sintomatologia di A. si era molto ridimensionata, ed egli appariva meno rigido sul piano corporeo, anche se continuarono per molto tempo a ripresentarsi delle periodiche ricadute in un passato mortifero. Penso che per lui sia stato importante, inizialmente,  sentire che poteva “diventare matto” senza che io mi precipitassi a cercare di tenere a bada le sue invettive con interpretazioni verbali calate dall'alto. Il secondo, altrettanto importante, fattore trasformativo è stato, probabilmente, il mio pormi in ascolto delle mie sensazioni e dei miei vissuti corporei, e utilizzarli per dare senso alla relazione con poche parole, accompagnate da una forte espressività, affidata alla voce ed al corpo..

Anche grazie alle esperienze che ho potuto fare nel campo delle arti-terapie, ho acquisito una maggiore sensibilità, anche quando lavoro nel setting analitico duale, ai fenomeni corporei e alla voce, intesa come sonorità. Non mi riferisco solo all’importanza di riconoscere i segni che provengono dal corpo dell’Altro, ma soprattutto alla partecipazione del terapeuta alla relazione con la sua stessa corporeità e sensibilità.
Ripensando all’importanza della voce, mi viene in mente una paziente che, durante il nostro primo incontro era stata quasi sempre in silenzio, tanto che avevo dovuto io stessa dare espressione alle sue angosce accontentandomi di alcuni cenni del capo e di poche scarne parole di assenso.  Sentivo una forte empatia   per questa donna, la cui infanzia era stata dura, sia dal punto di vista materiale, sia dal punto di vista affettivo. Intuivo il sentimento di “vergogna” che provava, nel momento in cui cercava aiuto, al pensiero di non poter più occultare il suo malessere (un’acuta depressione accompagnata da pensieri suicidi, fobie e somatizzazioni). In seguito avremmo compreso che quel vissuto di “vergogna” riecheggiava il disprezzo del suo ambiente d’origine per ogni espressione emotiva. Del resto la sorella era morta suicida,  e persino quell’estremo grido – il “grido” di chi sente che la propria sofferenza non potrà mai essere ascoltata – veniva catalogato come un atto di “colpevole” debolezza.
Un po’ di tempo dopo quel primo colloquio, diventata molto più loquace e fiduciosa, mi avrebbe detto in tono allusivo,  parlando di un “risveglio” della figlia, che prima a scuola stava sempre zitta e sembrava capire poco, mentre ultimamente, all’arrivo di una nuova insegnante molto più comprensiva ed empatica, era sbocciata: “prima sembrava stupida, adesso capisce, partecipa, prende iniziative; ciò che conta è la relazione, soprattutto il tono della voce”.  
Provai emozione a quelle parole, in cui sentivo riecheggiare qualcosa che era stato molto importante anche nella mia stessa esperienza di analisi personale: Le parole che un tempo avevo ascoltato erano per lo più svanite, come foglie secche portate via dal vento, ma ciò che rendeva quell'esperienza ancora viva dentro di me era la tonalità affettiva di cui quelle parole erano intessute: la tenerezza, la forza pacata, la giocosità lieve. Era soprattutto la voce dell’analista a trasmettere quel clima e quelle sensazioni, ed è quella voce che ancor oggi risuona talvolta dentro di me.

Anche quando la comunicazione è apparentemente fondata sulla parola è comunque  presente una ricchissima interazione non verbale, che rappresenta la coloritura fondamentale del rapporto. Nella situazione analitica tradizionale, caratterizzata dall’uso del lettino, assume grande importanza, in assenza del contatto visivo, proprio la voce del terapeuta. Essa non veicola solamente parole ma anche (o soprattutto) sensazioni sonore, che diventano esperienza del mondo vissuta nel corpo, poiché l’onda sonora attraversa il corpo, lo avvolge, è dentro e fuori contemporaneamente.  Ma anche nella relazione terapeutica vis a vis la voce del terapeuta esprime le sue emozioni, che possono essere consonanti o dissonanti con le sue parole,  e questo fa sì che il paziente si senta immerso in un ambiente armonico o disarmonico, caldo oppure freddo, arido o vitale, dolce o duro.
Fin dagli albori della nostra vita, del resto, nel nostro inconscio resta impressa la musica della voce con cui gli altri si rivolgono a noi. Quei suoni dal timbro dolce o aspro, amorevole oppure freddo e distante, sono le prime tracce del nostro essere nel mondo, e di ciò che noi siamo per il mondo.

Bibliografia:

- Bion Talamo P., “Presentazione” a Gruppo, di C. Neri (1995) Borla, 1998
- Bosco G, (a cura di) “Il corpo i suoni i colori la scena in psicoanalisi e nelle arti-terapie” in La relazione   terapeutica e formativa tra psicoanalisi e arti-terapie Ed. Guerini, 2001
- Di Benedetto P: (a cura di) (1998), “I vari significati dei fenomeni corporei” in L’esperienza del corpo, Masson Milano
- Funari E. (1996) “Il suono, la voce, l’armonia degli affetti”, Rivista di psicoterapia Psicoanalitica, III 2

.- Galimberti U. (1983), Il corpo, Feltrinelli, Milano

 

 

2 commenti a Corpo e voce nell’esperienza psicoanalitica

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    Luisa Salvietti scrive:

    Gentile dott.ssa Bosco,

    leggendo il suo scritto ho oscillato tra diversi stati d’animo:  l’ammirazione per la semplicità sapiente  che traspare dalle sue parole, in particolare dai casi clinici; e al tempo stesso la sensazione di essere, come nel caso delle opere d’arte, di fronte a qualcosa che ha a che fare con la genialità dell’autore  piuttosto che con la padronanza di una teoria e una tecnica, ossia ciò che noi poveri mortali cerchiamo con grandi sforzi di sviluppare per lavorare sempre meglio.   Forse anch’io, come il suo paziente, ho visto il Lei – forse con un po’ di invidia - una certa "aristocratica spontaneità"….

    Poco dopo mi è capitato di leggere, su Psychomedia,  un altro articolo sull’argomento (uno studio psicoanalitico sulla voce) in cui si parla di relazioni oggettuali, di schema corporeo,  si spiega qual è la funzione della voce nei meccanismi di proiezione e introiezione, di come la voce può essere al servizio della tendenza alla fusione, eliminando la distanza con l’oggetto. Mi è parso di tornare con i piedi per terra. Sono concetti che conosco perchè fanno parte della mia formazione, dunque anch’io li potrò utilizzare. Poi però, continuando a leggere, mi sono trovata sempre più frastornata, con la testa  piena di teorie, di concetti, a scapito della possibilità di ‘sentire’ qualcosa.  Forse proprio come quel  paziente che si è rivolto a lei dopo la prima psicoterapia non riuscita.

    Mi chiedo come trovare una via di mezzo, per restare agganciati alla propria formazione senza perdere la possibilità di sentire emozioni e di capire le emozioni dei nostri pazienti.

    • Giovanna Bosco
      Giovanna Bosco scrive:

      Solitamente, anche quando  sono interpellata direttamente, cerco di far circolare sensazioni e pensieri tra i lettori prima di intervenire io stessa. Tuttavia in questo caso, essendo prossima la pausa estiva, cercherò di dire qualcosa subito, per non lasciar troppo a lungo in sospeso il suo Commento e la sua domanda.

      Capisco il suo senso iniziale di sollievo quando ha incontrato su un altro sito, Psychomedia, un articolo in cui si parla della voce in psicoanalisi attraverso  concetti teorici a lei familiari. Il problema è che la maggior parte dei concetti teorici che suonano familiari – e in quanto tali rassicuranti, non spiazzanti  -  sono nati soprattutto per spiegare quello che viene detto, ma non aiutano a porci in ascolto dell’indicibile.  Solo pochi, come Bion, ci offrono dei pensieri teorico-clinici, come quello sulla rêverie materna,  che riguardano la qualità dell’ascolto: un ascolto che nasce da uno stato onirico e irrazionale e che permette, secondo Bion,  di connettere tra loro messaggi frammentari, grezzi, non ancora pensabili, che la madre recepisce attraverso un contatto empatico e sintonico con il suo piccolo. Anche Winnicott, affermando l’importanza, nella pratica clinica, dell’’empatia’, e di quella disposizione interiore che egli chiama ‘holding’, implicitamente riconosce che solo l’abbandono di un approccio esplicativo-razionalistico a favore di una qualità dell’ascolto che vada oltre la parola – per cogliere in modo intuitivo e sintetico l’insieme dei messaggi non solo verbali ma anche vocali e corporei – può permetterci di incontrare davvero l’Altro.

      Altro problema è che molti concetti teorici che a lungo ci siamo impegnati ad apprendere e a padroneggiare sono nati allo scopo di ‘decodificare’ ciò che viene detto con le parole. Ma oggi è sempre più evidente che molti pazienti, pur dotati di capacità verbali apparentemente normali, non hanno parole per dire e dirsi le loro esperienze emotive. La loro biografia non è qualcosa di rimosso da riportare alla luce ma piuttosto qualcosa di informe che attende di poter prendere forma (riprendo qui, sviluppandolo, il concetto bioniano di “inconscio”, visto come ciò che non è ancora nato alla consapevolezza anzichè  qualcosa che già c’era ma è stato poi rimosso dalla coscienza). Come scrive Antonio Di Benedetto, che ha a lungo insegnato nella sua città, “L’analisi in tali casi è invenzione a due, per costruire un senso prescindendo dai codici abituali e plasmando forme rappresentative che consentano di includere esperienze non dette o impossibili da dire con la lingua corrente”.

       Vi sono effettivamente molti punti di contatto tra i processi creativi dell’artista e dell’analista, che affondano entrambi le radici nel mondo delle origini, dove non c’erano parole ma suoni – caldi o freddi, morbidi o duri – ritmi, espressioni del volto, immagini.  Così come l’artista dà forma,  con la sua creazione, all’inaudito e all’indicibile, analogamente lo psicoanalista, coltivando la propria sensibilità e recettività estetica, costruisce con il paziente immagini, storie e discorsi (fatti di parole ma anche della musica delle voci e dell’espressività corporea) che permettono al paziente di riconoscere e dare voce a esperienze e parti di sé fino ad allora esiliate in isole di non senso.

      Certo, tutto questo può apparire “aristocratico”, se noi restiamo imprigionati in un’idea della creatività e dell’arte come appannaggio di pochi esseri eccezionali, predestinati, “nati artisti”.  Ma in questo Winnicott è di grande aiuto a tutti noi “comuni mortali” quando in “Gioco e realtà” sottolinea che creatività e compiacenza sono le due dimensioni esistenziali che riguardano tutti gli esseri umani. Con il termine “creatività” fa riferimento ad una dimensione esistenziale che consente un’espressione originale, personale, autentica, che colora l’esistenza della sensazione che la vita valga davvero la pena di essere vissuta, mentre la  “compiacenza” è quel vivere conformandosi a schemi e modelli appresi e alle aspettative degli altri nei nostri confronti.  La creatività, sottolinea ancora Winnicott, non è solo un elemento della creazione dell’artista, ma  “ è presente altrettanto nel vivere momento per momento di un bambino ritardato che è felice di respirare, come lo è nell’ispirazione di un architetto che improvvisamente sa cos’è che lui desidera costruire, e che va pensando in termini di materiali che possono essere usati nella realtà, così che il suo impulso creativo possa prender forma e il mondo ne possa essere testimone”.

      Spero che queste immagini le siano di qualche aiuto per rimanere connessa con il mondo in cui si è formata, ma senza sentirsi legata con una corda così corta da soffocare la sua espressività e la sua creatività.  Ognuno di noi ha un bisogno di appartenenza, che non può essere negato, ma ci è anche indispensabile, per poter vivere pienamente anziché limitarci a sopravvivere, che queste appartenenze non siano tali da impedirci di sviluppare nostri pensieri e movimenti creativi, e magari allontanarci da casa per poi tornare a raccontare le nuove esperienze che abbiamo fatto.

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