Andar per gruppi

di Giovanna Bosco

Non ho saputo resistere alla tentazione di prendere a prestito da Lo Verso (1998) l’espressione “andar per gruppi”, perché questa immagine è fortemente evocativa.

Anzitutto ha suscitato in me il pensiero che la nostra stessa vita è un “andar per gruppi”: dal gruppo familiare in cui abbiamo fatto le nostre prime esperienze sin dal momento in cui ci siamo affacciati al mondo, a tutti gli altri gruppi di cui abbiamo via via fatto parte, diventando ciò che ora siamo.

Pensando poi al gruppo come strumento di intervento nell’ambito della psicoterapia, delle artiterapie, della formazione, ecc. “andar per gruppi” ci parla del fatto che chi intende lavorare nel setting di gruppo deve sapersi muovere e orientare tra una vasta gamma di gruppi.
Ci sono gruppi aperti e gruppi chiusi; gruppi di breve o media durata e gruppi in cui i componenti possono restare finché ne sentono il bisogno ed il desiderio; gruppi “di parola” e gruppi che ricorrono in modo prevalente a forme di espressione e comunicazione non verbale; gruppi dalla composizione diversificata e gruppi omogenei. L’elenco dei possibili gruppi omogenei è pressochè infinito: adolescenti, donne, genitori, oppure soggetti che hanno in comune un passaggio critico della vita, come la menopausa, o una specifica problematica o sofferenza, come nel caso di una particolare malattia o di un lutto o della dipendenza da droga, fumo o alcool.  

Il contesto non è solo e necessariamente quello terapeutico. Come del resto metteva in luce già Foulkes (1975), riconosciuto come il fondatore della Gruppoanalisi europea, i principi gruppoanalitici possono essere applicati non solo ai gruppi terapeutici ma anche a molti altri tipi di gruppi all’interno di organizzazioni sanitarie, socio-educative, assistenziali, e così via.

Come segnala Lo Verso in un suo recente lavoro (Lo Verso, Di Blasi 2011), se una volta il primo interrogativo che ci si poneva era se quel determinato paziente o soggetto fosse adatto per fare un percorso terapeutico di gruppo, oggi, avendo a disposizione una più ampia gamma di possibilità, la domanda può essere rovesciata: “quale tipo di gruppo va bene per questo paziente o per questi soggetti?”.

Nel corso degli anni ho constatato che spesso c’è la tendenza a chiedere una supervisione quando molte decisioni cruciali rispetto al tipo di gruppo cui dare vita sono già state prese, talvolta in modo puramente replicativo, e quando il gruppo è già stato formato, magari in modo del tutto casuale. E' invece importante sviluppare la capacità di leggere e dialogare con le domande delle istituzioni e del territorio, ed essere in grado di ‘pensare’ il gruppo, mettendo in relazione “dove?”, “cosa?” “come” e “con chi?”.
Oltre ad avere una specifica formazione gruppale, è dunque essenziale coltivare la  riflessione su quale dispositivo di gruppo sia più adeguato a quella situazione, quei pazienti e quel determinato contesto, affinchè esso non sia un’entità casuale e non sia neppure una replica meccanica dei modelli di gruppo già conosciuti nel proprio training o in precedenti esperienze di lavoro.

Anche nel lavoro con i gruppi si può fare riferimento a orientamenti teorici assai diversi tra loro (dalla psicologia del profondo al cognitivismo). Premetto perciò che parlerò di gruppi restando nell’ambito della cornice di riferimento che mi è più familiare, che comprende la Psicoanalisi, la Gruppoanalisi, lo Psicodramma e l’arte-terapia ad orientamento gruppoanalitico. Mi occuperò inoltre solo dei gruppi condotti da un professionista con una specifica formazione, che sia garante del setting e del buon funzionamento del gruppo stesso, tralasciando in questo contesto i gruppi di auto mutuo aiuto.

Per orientarsi in questo ‘andar per gruppi’ mi sembra opportuno mettere a fuoco, sia pure sinteticamente, le finalità, il focus del gruppo, le modalità di espressione e comunicazione adottate, la durata, il fatto che il gruppo sia aperto o chiuso, lo stile di conduzione, tenendo presenti almeno alcune delle tante interconnessioni tra questi elementi.  Essendo le combinazioni potenzialmente infinite, so bene di non poter esaurire l’argomento, nè di poter anticipare tutti gli interrogativi che potranno sorgere in chi legge. Mi auguro semplicemente di riuscire ad offrire alcuni elementi di riflessione, e di sollecitare i lettori ad intervenire, utilizzando lo spazio riservato ai ‘commenti’, non solo per dire la loro su questo scritto ma anche per integrarlo con qualche considerazione tratta dalla propria esperienza o per formulare delle domande.

Per quanto riguarda le finalità, si va dai gruppi con finalità supportive (come i gruppi di sostegno ed i gruppi omogenei che mirano a promuovere tra “pari” la condivisione di specifiche problematiche), ai gruppi con finalità elaborative, come l’analisi di gruppo e la gruppoanalisi.  Nel primo caso (gruppi di sostegno) le principali funzioni sono di apprezzamento e sostegno alle cosiddette ‘parti sane’ dei partecipanti e di attivazione delle risorse del gruppo volte alla condivisione empatica, alla conferma, alla comprensione dei problemi. Nel secondo caso invece si tenderà principalmente all’elaborazione dei vissuti, e delle modalità relazionali messe in atto in modo replicativo e non consapevole dai partecipanti e alla loro trasformazione.
Nella pratica, anche nei gruppi di sostegno  si può svolgere qualche funzione elaborativa, e viceversa. Più che a categorie nettamente distinte tra loro, pensiamo ad una varietà di gruppi collocati lungo un continuum (come propone Gabbard) dove le funzioni di supporto e quelle di elaborazione si collocano alle due estremità, e tra queste ci sono varie possibilità di combinazione di funzioni supportive, espressive ed elaborative.

Guardando le cose da questo punto di vista, risulta meno netta di un tempo anche la distinzione tra gruppi terapeutici e non terapeutici, pur continuando ad avere importanza  la domanda “quello che sto ‘pensando’ e a cui sto cercando di dare vita è un gruppo terapeutico, oppure un gruppo clinico con finalità non strettamente terapeutiche, oppure un gruppo di arte-terapia?”.
Molti autori che si sono occupati di gruppi hanno messo in luce che anche i gruppi che non hanno finalità espressamente terapeutiche, hanno comunque una terapeuticità in senso lato. Ad esempio Yalom (1970) ha individuato questi fattori terapeutici comuni nel fatto che il gruppo consente l’universalizzazione (“non sono solo io ad avere dei problemi”), l’infusione della speranza, l’apprendimento interpersonale (il gruppo diventa una preziosa fonte di informazioni e chiarimenti sugli stati di disagio e sui problemi dei suoi membri); la scoperta che si può dare e ricevere dagli altri (che Yalom chiama altruismo, ma che io preferisco vedere in termini di reciprocità). Se ne potrebbero aggiungere  ancora altri come il sostegno reciproco e la condivisione emotiva (indicando questi fattori penso ovviamente ai gruppi nati in modo intenzionale, fondati su un dispositivo coerente, e condotti da un operatore con un’adeguata formazione).

La terapeuticità delle terapie espressive (o arti-terapie) meriterebbe un discorso a parte, che per il momento posso solo accennare.  Pur condividendo con gli altri gruppi dei fattori terapeutici di carattere generale, nei gruppi di arte-terapia  e in genere nella artiterapie a mediazione corporea o artistica ci sono fattori specifici  connessi al fare espressivo-creativo. All’interno di un setting adeguato questo agire, che non è acting out, offre la possibilità di entrare in contatto con parti del Sé altrimenti inaccessibili, esiliate in isole di non senso e di esprimere ed elaborare in modo globale, pre-riflessivo, sensazioni ed emozioni embrionali che sono inaccessibili al linguaggio convenzionale, perché depositate nella memoria implicita. Secondo Wilma Bucci le sensazioni che non sono mai state elaborate ai livelli subsimbolico e successivamente simbolico non verbale  danno vita a schemi emotivi inconsci che non possono essere trasformati direttamente in parole.

Anche nel caso dei gruppi a mediazione artistica (pittura, danza, musica, teatro, ecc.), come in qualsiasi altro gruppo, l’individuazione delle finalità dovrà essere coerente con le caratteristiche e risorse dei soggetti e dell’istituzione in cui si svolgono, la durata e ampiezza del gruppo, la formazione del conduttore, la possibilità di avere un setting relativamente stabile, e così via.  Così ad esempio con un’utenza psichiatrica grave, che partecipa in modo saltuario, le attività di arte-terapia concorrono al più ampio Progetto Riabilitativo che coinvolge tutta l’Istituzione e le diverse figure professionali, e  il gruppo di arte-terapia in quanto tale avrà finalità realistiche di attivazione delle potenzialità espressive, valorizzazione, rivitalizzazione. Solo se la durata del gruppo lo consente, e se c’è una discreta stabilità nella partecipazione e nella composizione del gruppo, si potrà successivamente realizzare, attraverso la mediazione della pittura, del movimento corporeo, ecc. un contatto emotivo con sé e con l’altro, ed iniziare a funzionare come gruppo aprendosi alla speranza ed alle relazioni.
Con pazienti meno gravi, se il conduttore ha una adeguata formazione ed un training gruppoanalitico oltre che arte-terapeutico, si potranno invece attivare gruppi con un setting stabile ed una lunga durata e con finalità affini a quelle dei gruppi terapeutici di tipo gruppoanalitico, con una conduzione maggiormente centrata sulla sfera emotiva e affettiva, sulla simboolizzazione, sulle relazioni, pur rimanendo nella dimensione del ‘qui ed ora’.

Parlando di arti terapie ho già introdotto un altro punto da considerare: le modalità di espressione e comunicazione.  Per lo più la terapia di gruppo utilizza esclusivamente la comunicazione "verbale" (anche se si sta sempre più diffondendo la consapevolezza che anche nei gruppi “di parola” c’è una fitta circolazione di comunicazioni non verbali, di tipo involontario).  
Anche nei gruppi ‘di parola’, tuttavia, l’espressione ed elaborazione verbale può essere integrata, in alcuni incontri, da modalità non verbali.  Questa integrazione diventa quasi indispensabile  in certi gruppi semistrutturati, che hanno come focus questioni ad alta valenza emozionale (come ad esempio nel caso di volontari, di genitori con figli portatori di handicap, di persone con specifiche malattie) ma che, per i vincoli posti dall’istituzione, hanno una durata breve. In questi casi  può essere opportuno, all’inizio di alcuni incontri, proporre brani di film, oppure brani musicali opportunamente scelti per favorire la partecipazione emotiva e la riflessione all’interno del gruppo. O ancora si può chiedere, in certi passaggi cruciali,  di disegnare elementi ad alta valenza simbolica per rendere i partecipanti più liberi di esprimersi anche sul piano emotivo, oppure per far emergere il sistema di valori di cui i membri del gruppo sono spesso inconsciamente portatori (mi viene in mente a questo proposito un gruppo formato da coppie di genitori in cui ad un certo punto del percorso fu chiesto di disegnare lo ‘stemma familiare’). Più in generale, quando può essere di aiuto ricorrere a forme di espressione non verbale? Ad esempio quando ci si rende conto che la comunicazione all’interno del gruppo è bloccata, oppure che la discussione è vivace ma molto ‘coperta’, essendoci una forte tendenza a trattare i problemi in modo razionalizzante ed intellettualizzato, come se non toccassero nella carne viva i protagonisti del gruppo. O ancora quando il gruppo tende a restare all’interno di meccanismi rivendicativi (poniamo che un gruppo di anziani parli solo di quello che non va nella sanità pubblica oppure che un gruppo di genitori con figli portatori di handicap non  faccia altro che discutere delle inadempienze della scuola, senza mai esprimere i propri vissuti, le proprie ansie, paure, speranze). Allora il proporre in qualche incontro di utilizzare forme di espressione non verbale può favorire l’allentarsi delle difese e il reciproco disvelamento. Naturalmente è bene che già nel patto iniziale sia esplicitato che durante il percorso si potrà ricorrere anche a forme di espressione diverse dalla parola.

Quanto al focus, i gruppi possono essere focalizzati su problematiche particolari, o al contrario favorire un’esplorazione a tutto campo per promuovere cambiamento sul piano relazionale e crescita personale. Nei contesti istituzionali vengono proposti più spesso (anche se non in modo esclusivo)  gruppi focalizzati su specifiche problematiche o su una condizione esistenziale comune a tutti i membri del gruppo, mentre l’analisi di gruppo e la gruppoanalisi, intese come pratiche trasformative che favoriscano l'espressione e l'esplorazione a tutto campo ed i collegamenti tra il qui ed ora e il là ed allora, si collocano prevalentemente, anche se non esclusivamente, nella pratica privata.

Altre importanti differenze riguardano la durata del gruppi. Nei gruppi a termine  la durata è predeterminata (è così ad esempio in molti gruppi focalizzati su questioni specifiche). Questi gruppi si caratterizzano anche come gruppi chiusi: il gruppo terminerà nel tempo stabilito e tutti i suoi membri concluderanno insieme il percorso.
Il fatto che un gruppo sia o meno a termine comporta anche significative differenze rispetto alla conduzione e alle caratteristiche del processo: quanto più breve è il percorso di gruppo, tanto più si tenderà ad introdurre, anche in gruppi ad orientamento psicoanalitico o gruppoanalitico, elementi di parziale strutturazione del percorso.  

Altri gruppi sono aperti e non hanno una durata prefissata: i suoi membri partecipano al gruppo finchè viene per ciascuno il momento di concludere il proprio percorso, e nuovi membri possono essere inseriti strada facendo. E questo il caso dell’analisi di gruppo e della gruppoanalisi, ma possono essere aperti anche i gruppi di arteterapia, come pure alcuni gruppi omogenei o focalizzati su specifiche problematiche (come ad esempio alcuni gruppi di sostegno alla genitorialità).  

Per quanto riguarda gli stili di conduzione e l'approccio teorico-clinico di gruppi, vi sono tre fondamentali modalità, che sono solitamente sintetizzate con le espressioni: analisi (o psicoterapia) in gruppo, di gruppo,  attraverso il gruppo.

analisi in gruppo; chi segue questo approccio teorico-clinico, che vede uno dei suoi primi teorici in Slavson, tende a riprodurre nel gruppo i canoni dell’analisi individuale. Il focus resta sull'analisi dei singoli componenti, sia pure fatta in gruppo.  Al vertice vi è il conduttore, che rivolge l’attenzione ora all’uno ora all’altro, sia pure utilizzando gli elementi di maggiore conoscenza che vengono dall’interazione tra i vari membri del gruppo.
analisi di gruppo:  il condutttore si focalizza sull'analisi del gruppo, visto come un tutto indistinto (the group as a whole); tanto è vero che Bion parla di ‘assunti di base’, ossia di stati mentali in cui può trovarsi il gruppo, e in cui i singoli vengono per così dire assorbiti. Egli individua tre assunti di base: accoppiamento, dipendenza, attacco e fuga.
analisi attraverso il gruppo: questa è la posizione della Gruppoanalisi fondata da Foulkes, ed è in un certo senso intermedia rispetto alle prime due, in quanto si approfondiscono sia i processi individuali attraverso il gruppo, sia quelli del gruppo attraverso i contributi dei suoi componenti.
 
Mi sembra interessante considerare lo sviluppo di queste diverse declinazioni della  psicoterapia di gruppo anche dal punto di vista storico. Questo mi darà l’occasione anche per dire qualcosa di più  sui diversi approcci teorico-clinici.
E’ noto che l’origine della terapia di gruppo viene fatta risalire all’inizio del ‘900, e si colloca in contesti medici  e psichiatrici.
Il primo ad applicare la terapia di gruppo fuori da questi contesti è stato lo statunitense Trigant Burrow, che alcuni considerano un precursore della stessa Gruppoanalisi (si veda in proposito il lavoro di riscoperta e divulgazione della sua opera da parte di Edi Gatti Pertegato).
All'inizio degli anni trenta Moreno diede un grande impulso al lavoro con i gruppi. Egli è soprattutto noto come fondatore della prima forma di Psicodramma,  una terapia di gruppo che si distingueva da quelle classiche per essere una "terapia attiva" (espressiva) più che una "terapia della parola".  Ma la sua influenza va al di là dello psicodramma, in quanto egli elabora alcuni principi che portano ad un grande sviluppo delle psicoterapie di gruppo in genere.
Durante l’ultima guerra mondiale, alcuni psichiatri militari britannici con una formazione psicoanalitica (W. Bion e  S.H. Foulkes), per rispondere alle richieste del governo inglese, iniziarono a sperimentare interventi in piccolo gruppo per i soldati che avevano subito traumi di guerra, spinti anche dalla considerazione dell’impossibilità di trattare un numero adeguato di pazienti traumatizzati a livello individuale.  Queste sperimentazioni, mosse da uno stato di necessità, permisero anche di riscontrare l’efficacia clinica del lavoro di gruppo e furono il punto di partenza per lo studio dei processi relazionali tipici dei gruppi e per lo sviluppo di specifici approcci clinici di gruppo.
C’è una differenza tra la teoria sui gruppi sviluppata da Bion e quella di Foulkes. Pur avendo entrambi  preso le mosse da esperienze nello stesso ambito (le forze armate britanniche) pare che essi non abbiano mai cercato uno scambio sulle rispettive esperienze.

I  lavori di Bion sui gruppi, riassunti in Esperienze nei gruppi del 1961, sono noti soprattutto per la sua teorizzazione degli assunti di base. Così egli chiama quegli stati psicofisici collettivi in cui cessa la comsapevolezza delle singole individualità e l'uno non si distingue dall'altro, per cui Il gruppo diventa  un tutto unico. Bion rivolge pertanto le sue interpretazioni al gruppo concepito come un’entità  attraversata dalla stessa corrente emotiva (‘stessa’ in quanto comune a tutto il gruppo, anche se le sue caratteristiche possono cambiare a seconda del momento e delle circostanze).

L’elemento caratterizzante la teorizzazione di Foulkes è invece la matrice (personale e di gruppo). Utilizzando questo termine, che sta per 'utero', 'grembo', ma anche 'stampo' da cui si riproducono delle copie, Foulkes sottolinea come i gruppi originari cui abbiamo appartenuto ci abbiano plasmati, dal punto di vista psicologico, proprio come uno stampo, determinando lo specifico modo in cui ciascuno si relaziona con gli altri (matrice personale). Nel gruppo terapeutico, condotto con criteri gruppoanalitici,  si sviluppa poi una matrice di gruppo, vista come qualcosa di dinamico che rende possibile una più profonda comprensione ed una trasformazione delle matrici personali.

Il lavoro di Bion ha rappresentato a lungo, e rappresenta tuttora, un importante riferimento per molti terapeuti che lavorano con i gruppi.
Ma è soprattutto grazie all’opera di Foulkes  che la Gruppoanalisi ha assunto uno status suo proprio: egli fondò nel Regno Unito la Società di Gruppoanalisi, con lo scopo dichiarato di poter sviluppare, sia dal punto di vista teorico che della prassi, questa nuova prospettiva, pur non arrivando mai ad un conflitto aperto con la Società di Psicoanalisi Britannica (di cui faceva parte) a differenza di quanto era accaduto in America a Trigant Burrow che, per la radicalità delle sue posizioni, fu presto osteggiato dal mondo psicoanalitico e a lungo dimenticato.  Secondo Edi Gatti Pertegato, Foulkes era a conoscenza delle elaborazioni di Trigant Burrow, pur non citandolo nella sua opera. Foulkes fu indubbiamente influenzato dall’opera di Kurt Lewin, in particolare dagli studi sulle dinamiche del piccolo gruppo realizzati da quest’ultimo negli USA; ebbe inoltre rapporti di amicizia e di collaborazione molto significativi con il sociologo Elias, che fu con lui co-fondatore della Società Gruppoanalitica di Londra nel 1952. Come sottolinea Sommaruga (2001), riprendendo un pensiero di Dalal, nell’opera di Foulkes vi sono anche aspetti contradditori, in quanto in lui convivono lo psicoanalista che tende a spiegare in termini “pulsionali”, interni all’individuo, gli accadimenti psichici (in quegli anni la Psicoanalisi europea non si era ancora aperta ad una visione relazionale), il gruppoanalista che rivolge la sua attenzione alla rete (o matrice) relazionale che si manifesta nel gruppo e il pensatore che, grazie anche alla collaborazione con Elias, sviluppa in modo radicale un pensiero nuovo sull’essere umano, invitando a rovesciare l’idea tradizionale che oggetto d’indagine della psicologia debba essere l’individuo con i suoi processi interni: dal momento che questi  “processi interni” non sono altro che l’internalizzazione di forze operanti nei gruppi  è il gruppo di appartenenza che deve essere considerato come l’unità primaria.

La terapia di Gruppo e la Gruppoanalisi si diffusero a partire dagli anni Sessanta anche nel resto d’Europa, emergendo in tutta la loro complessa articolazione  teorico-clinica.
In Italia, oltre a Scuole e a Società scientifiche che si richiamano all’opera di Foulkes o Bion, vi è da citare il modello Gruppoanalitico elaborato da Diego Napolitani a partire dagli anni ’80, che integra il modello di Foulkes con alcuni aspetti della teorizzazione di Bion, sia pure rivisitata, e con gli apporti della corrente psicoanalitica che dà il maggior rilievo alla qualità relazionale della psiche, vedendola come un prodotto della “cultura” (ovvero dell’ambiente di origine) più che come frutto di determinanti istintuali o pulsionali radicate nel substrato biologico.

A conclusione di questa panoramica, mi rendo conto che, nel mio tentativo di offrire alcune coordinate di fondo sul lavoro con i gruppi, che faccia da cornice ad altri scritti più specifici, di approfondimento su singole tematiche, probabilmente scontenterò molti lettori:  forse alcuni troveranno alcuni passaggi di questo testo troppo ardui, mentre altri li troveranno non sufficientemente approfonditi.  D’altronde la sfida del Circolo on-line è quella di trovare un linguaggio intermedio, che possa mettere in connessione sia i colleghi più esperti sia chi muove i primi passi nel lavoro con i gruppi, ben sapendo che non  si può dire tutto in un unico scritto.  
Per questo concludo invitando caldamente chi ha avuto la pazienza di seguirmi fino alla fine ad utilizzare lo spazio riservato ai Commenti, sia per portare qualche elemento di esperienza o di approfondimento, sia per fare domande o formulare richieste di chiarimenti. Cercherò di rispondere, lasciando prima un po’ di tempo per dare la possibilità a qualche altro lettore di farlo. Se questo si verificasse, sarebbe davvero un segno che il Circolo on-line inizia a funzionare in modo interattivo.

 


Girolamo Lo Verso (1998), Andar per gruppi: una classificazione dei parametri di diversi set(ting) dei gruppi clinici, appendice al volume 'Il gruppo psicodinamico come strumento di lavoro', di G. Lo Verso e T. Raia, Franco Angeli, 1998

Foulkes S.H. (1975), Group Analitic Psychotherapy: method and principles, La psicoterapia gruppoanalitica: metodo e principi, Astrolabio, Roma, 1976

Pierluigi Sommaruga (2001) Gruppi e gruppalità nella teoria e nell’esperienza, in Oltre la parola (a cura di G. Bosco), Ed. Guerini, 2001

6 commenti a Andar per gruppi

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    Luisa Salvietti scrive:

    Ho letto con molto interresse questo articolo sui gruppi, che mi ha sollecitata varie riflessioni. 

    E'  vero che talvolta si tende a riproporre lo stesso tipo di gruppo di cui già si è fatta esperienza senza  chiedersi se ciò che ha funzionato con determinate persone potrà andar bene anche con altri soggetti. Sul versante dell'Istituzione, poi, succede spesso che il gruppo venga visto semplicemente come uno strumento più economico  che permette di  "moltiplicare" le prestazioni psicologiche.

    Anche per questo mi sarebbe piaciuto che venisse sviluppata un po' più a fondo la parte in cui si accenna ai vari stili di conduzione, sintetizzati con le espressioni: in gruppo, di gruppo, attraverso il gruppo. 

    Mi pare che le istituzioni si aspettino la prima cosa, ossia che si facciano tante psicoterapie individuali ( o tanti interventi di sostegno o di counseling) contemporaneamente a più persone radunate in un gruppo. L'articolo lascia intravedere che avventurarsi nel mondo dei gruppi significa invece utilizzare le potenzialità del gruppo stesso di modo che esso diventi agente di cambiamento, e la mia esperienza con i gruppi, anche se breve, mi ha permesso di toccare con mano questa potenzialità del gruppo.

    Come ho già detto, sarebbe interessante approfondire la questioni dei vari orientamenti teorico-clinici sui gruppi, anche se mi rendo conto che non si può dire tutto in un unico articolo

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      Vera De Luca scrive:

      La mia esperienza di lavoro in un servizio di Neuropsichiatria infantile mi permette di entrare in contatto quotidianamente con i genitori, i loro figli, nel momento delicato della problematicità e della sofferenza. L'afflusso dell'utenza al nostro servizio è piuttosto elevato. Lavoriamo in équipe mutiprofessionale, anche insieme a colleghi specializzandi psicoterapeuti.

      Il pensiero  e il desiderio di offrire ai genitori uno spazio di gruppo con finalità supportive circola nella mia mente da tempo, anche se qualcosa ne ha ostacolato la progettualità e la condivisione con …il gruppo dei colleghi. Dal punto di vista dell'istituzione non mi pare ci siano state  pressioni,  forse ostacoli indiretti, per gli aspetti di rendicontazione e controllo, che assorbono tempo ed energie.  Ho cominciato a trovarmi lo spazio e il tempo per far circolare la proposta di dar vita a un gruppo di genitori, sia con i colleghi, sia con alcuni genitori di bambini che presentano difficoltà emozionali e comportamentali. Le  prime risposte dei genitori sono state di interesse, qualcuna di rifiuto, forse a celare ansie e timori più profondi.  Ora tocca a me invitarli a un primo incontro per proporre di condividere quelle preoccupazioni, rabbie, insofferenze, fragilità che come genitori mi hanno portato nel corso dei colloqui.  Un padre mi ha detto:''dottoressa,a volte fare il genitore è proprio difficile ….ci vorrebbe un corso'. Questo termine fa pensare a un percorso scolastico, in cui qualche "esperto" spieghi "come si fa". ..Sarò perciò importante, nell'incontro preliminare, far sì che possano emergere le aspettative dei genitori stessi e fare un lavoro di chiarificazione sulla natura del percorso di gruppo che viene loro proposto.

  • Giovanna Bosco
    Giovanna Bosco scrive:

    Trovo interessante ciò che dice Luisa Salvietti sulle intenzioni di cui spesso le Istituzioni sono portatrici nel chiedere di attivare dei gruppi. In che misura l’aspettativa istituzionale di far quadrare il cerchio, offrendo  in modo più economico tante prestazioni individuali in contemporanea, ‘intenziona’ anche gli operatori?

    Quanto all’invito a dire qualcosa di più sui diversi approcci teorico-clinici ai gruppi (definiti tradizionalmente con le espressioni in gruppo, di gruppo, attraverso il gruppo), la tentazione di cogliere la palla al balzo per espandere l’esposizione, di necessità molto schematica, che ho fatto nel mio articolo su questa fondamentale questione, mi è venuta, eccome.
    Ma a questa tentazione resisterò: sappiamo bene che non solo nella psicoterapia ma anche nella formazione, e più in generale nelle relazioni umane, più delle parole che vogliono trasmettere “saperi”, contano le modalità di relazione e le esperienze che queste veicolano.
    E allora preferisco astenermi, non essendo la mia visione del gruppo quella di un luogo in cui intrattenere tante relazioni con i singoli individui alla presenza (in carne ed ossa o virtuale che sia) di altri.

    Anche se un gruppo di persone presenti fisicamente e con confini ben definiti e un 'Circolo on-line' non sono la stessa cosa, nella mia mente c'è pur sempre un gruppo: un gruppo formato, oltre che dai soci E-spèira, da quanti si sono registrati nel corso di questi mesi al Circolo online.
    Mi sembra più importante in questa fase far circolare  idee, immagini, emozioni, a partire dal filo di pensieri offerto dalla collega. Invito dunque caldamente i membri di questo "gruppo" a “dire la loro”.
     

    (Chi è già registrato al Circolo on-line può farlo direttamente, chi ha qualcosa da comunicare ma non è ancora registrato può farlo in pochi minuti, e riceverà in breve tempo la password per poter intervenire).

     

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    Elena Costa scrive:

    Lavoro in  Comunità e mi sono recentemente laureata in psicologia per poter capire meglio le dinamiche dei gruppi con cui interagisco spesso nel mio lavoro, anche se purtroppo nelle aule universitarie il tema dei gruppi trova molto poco spazio. Quindi ben venga che certe Istituzioni decidano di formare dei gruppi, terapeutici o di riabilitazione o sostegno, indipendentemente dalle motivazioni che le spingono a fare questo. 

    Del resto non è detto che sia poi così malvagia l’intenzione di offrire a costi contenuti prestazioni che altrimenti potrebbero essere riservate solo a pochi (e i ‘pochi’ in genere sono le persone più abbienti). Non possiamo aspettarci che le Istituzioni siano esperte di gruppi e gruppalità e sappiano distinguere tra psicoterapia in gruppo, attraverso il gruppo, ecc.  L’importante a mio avviso è che questa chiarezza ce l’abbiano gli operatori. E per avere le idee più chiare su questo, anch’io vorrei saperne di più.

    Ho letto con interesse l’articolo Andar per gruppi perché offre un panorama (quasi) completo sui gruppi, e lo fa con un linguaggio semplice e chiaro. Di solito nei testi specialistici queste questioni sono trattate con un linguaggio così difficile che sembra studiato apposta per escludere,  anziché per rendere accessibile il  sapere anche agli altri.  

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    Manuela Peserico scrive:

    E’ trascorso del tempo dalla pubblicazione on line di “Andar per gruppi” che ho letto e trovato molto stimolante e ricco di spunti e potenziali riflessioni e non solo per l’introduzione teorica sulle diverse tipologie di gruppo: in base alla finalità, al focus, alla durata, ecc., si tratta di precisazioni che consentono di “guardare” alla storia e all’evoluzione del gruppo da punti di vista diversificati che rendono possibile una comprensione più ampia delle dinamiche relazionali, e non solo.

    L’articolo pone anche questioni, a mio parere, centrali come la composizione del gruppo: quando? Come? Con che finalità? In particolare ho apprezzato il cenno alle attività espressive (o artiterapie) e alla loro terapeuticità, elemento su cui ritengo che le riflessioni degli operatori che le utilizzano dovrebbero essere più condivise e frequenti. Ed è proprio sul tema specifico della composizione del gruppo, in ambito psichiatrico, ed in particolare dei gruppi riabilitativi arteterapici, che integrano nella propria storia di gruppo la valenza interelazionale e socializzante con quella espressiva ed arteterapica, che propongo un contributo alla riflessione.

    Giovanna Bosco parla di “fattori specifici  connessi al fare espressivo-creativo. All’interno di un setting adeguato questo agire, che non è acting out, offre la possibilità di entrare in contatto con parti del Sé altrimenti inaccessibili, esiliate in isole di non senso e di esprimere ed elaborare in modo globale, pre-riflessivo, sensazioni ed emozioni embrionali che sono inaccessibili al linguaggio convenzionale, perché depositate nella memoria implicita”. Questo aspetto del mettere a disposizione dell’utenza psichiatrica, con quadro psicopatologico grave, un setting, codificato e strutturato, che preveda la possibilità di agire, rende possibile l’apertura di canali comunicativi e relazionali multipli. Questi canali sono spesso meno deteriorati rispetto alla comunicazione verbale, meno ingessati rispetto alla cosiddetta regola dell’astinenza, specifica che setting psicoterapici, e più ricchi dal punto di vista della fenomenologia dei processi messi in atto.

    E nel capoverso successivo, parlando dell’applicazione delle arti terapie “… Così ad esempio con un’utenza psichiatrica grave, che partecipa in modo saltuario, le attività di arte-terapia concorrono al più ampio Progetto Riabilitativo che coinvolge tutta l’Istituzione e le diverse figure professionali, e  il gruppo di arte-terapia in quanto tale avrà finalità realistiche di attivazione delle potenzialità espressive, valorizzazione, rivitalizzazione. Solo se la durata del gruppo lo consente, e se c’è una discreta stabilità nella partecipazione e nella composizione del gruppo, si potrà successivamente realizzare, attraverso la mediazione della pittura, del movimento corporeo, ecc. un contatto emotivo con sé e con l’altro, ed iniziare a funzionare come gruppo aprendosi alla speranza ed alle relazioni. Con pazienti meno gravi, se il conduttore ha una adeguata formazione ed un training gruppoanalitico oltre che arte-terapeutico, si potranno invece attivare gruppi con un setting stabile ed una lunga durata e con finalità affini a quelle dei gruppi terapeutici di tipo gruppoanalitico, con una conduzione maggiormente centrata sulla sfera emotiva e affettiva, sulla simbolizzazione, sulle relazioni, pur rimanendo nella dimensione del ‘qui ed ora’. In questo senso pone l’accento sulla gravità della patologia psichiatrica quale elemento correlato ad una frequenza più o meno regolare al gruppo arteterapico.

    Entrando nel merito del mio contributo alla riflessione, nella mia esperienza di utilizzo delle artiterapie in psichiatria l’elemento sostanziale non sempre è la gravità del quadro psicopatologico, ma spesso lo è la presenza di una patologia acuta o, al contrario, stabilizzata. E’ quindi centrale il tema della composizione del gruppo perché è proprio questo aspetto che può consentire la creazione di un setting con maggiori probabilità di stabilità nel tempo e, conseguentemente, con maggiori probabilità di consentire un intervento più incisivo ed efficace. Presso l’unità operativa di psichiatria dove lavoro, circa 3 anni fa è iniziata una sperimentazione sull’utilizzo di attività riabilitative gruppali, anche arteterapiche, che ha visto coinvolti circa 100 pazienti con diagnosi che andavano dallo spettro psicotico (schizofrenia, disturbo bipolare, disturbo delirante), a disturbi di personalità (soprattutto borderline, ma anche istrioinico, narcisistico ed antisociale), a quadri di tipo nevrotico (disturbi d’ansia, attacchi di panico, sindromi depressive).   Nella nostra esperienza quello che ha reso possibile la drastica riduzione dei drop out (interruzioni premature dei percorsi terapeutico-riabilitativi di gruppo) è stata l’attenta valutazione iniziale, al momento della presa in carico riabilitativa, della storia relazionale e psicopatologica dei partecipanti con particolare riferimento alla presenza o meno di una idonea disponibilità e disposizione al contesto gruppale e una adeguata stabilizzazione del quadro clinico (indipendentemente dalla diagnosi).      

  • Giovanna Bosco
    Giovanna Bosco scrive:

    Ringrazio Elena Costa, Luisa Salvietti e Manuela Peserico per i loro apprezzamenti e cerco di rispondere brevemente a tutte, tenendo conto che le questioni su cui si concentra l’attenzione sono essenzialmente due:

    1. i diversi orientamenti teorico-metodologici, riassumibili con le parole “in gruppo; di gruppo; attraverso il gruppo” (Elena Costa e Luisa Salvietti);

    2. i gruppi arteterapeutici nel contesto psichiatrico, con particolare riferimento alla questione della loro formazione (Manuela Peserico).

    1. Dopo aver letto i primi due interessanti commenti, di Elena Costa e Luisa Salvietti, avevo già scritto che avrei aspettato un poco prima di rispondere all’invito, espresso da entrambe, di portare maggiori elementi di approfondimento sul primo punto.   Proprio per l’argomento su cui si concentrava l’interesse, avevo ritenuto opportuno non portare subito io stessa ulteriori elementi esplicativi, per lasciare che l’invito circolasse tra i molti colleghi e colleghe che visitano il nostro sito, e che qualcuno potesse raccoglierlo. Cercavo così di mettere in pratica uno dei criteri fondamentali dell’approccio “attraverso il gruppo”: sia nei gruppi terapeutici che nei gruppi clinici non strettamente terapeutici,  il “conduttore” è lì soprattutto come garante del buon svolgimento del processo di gruppo, e favorisce in primo luogo la circolazione della comunicazione tra suoi membri. Questo corrisponde ad una “visione” del gruppo come “circolo”, di cui anche il conduttore fa parte, pur avendo specifiche funzioni e responsabilità.  All’opposto, se si pensa ad una somma di psicoterapie individuali che si svolgono “in gruppo”, la comunicazione si muove soprattutto – anche se in modo non esclusivo – dai singoli membri al 'vertice' rappresentato dal terapeuta, e viceversa dal terapeuta ai singoli membri (una visione che ricorda l’immagine di una piramide). Mi rendo conto, mettendo a confronto queste due immagini, il cerchio e la piramide, di accentuare al massimo le differenze per renderle anche visivamente comprensibili, anche se, nella prassi, non ci sono né cerchi perfetti, né piramidi pure e semplici.  
    Dicevo che ho atteso che arrivassero dei contributi dai lettori. In effetti un contributo rispetto alla concezione del processo gruppale
    “attraverso il gruppo” è arrivato, prima di Natale, sia pure indirettamente, dall’articolo di Ondarza Linares (“L’interpretazione nel processo gruppoanalitico”), pubblicato anch’esso su questo sito.  Nella seconda parte del testo, descrivendo un “viaggio gruppoanalitico”, l’autore accende dei punti-luce su un processo che avviene “through the group”, come egli ama dire, cioè “attraverso il gruppo”. Dal racconto, integrato da una successiva risposta ad un commento, traspare il fatto che il conduttore “risuona” con il gruppo ed evita di dare precoci interpretazioni. Ciò permette che il riconoscimento degli schemi relazionali che ciascuno dei protagonisti tende a replicare avvenga in un contesto paritario, grazie alla rete di comunicazioni che si sviluppa tra i membri del gruppo, all’interno di un setting di cui il conduttore è il garante.
    Quanto alla cosiddetta psicoterapia o analisi 'di gruppo' – una posizione tradizionalmente associata a Bion e solitamente indicata come quell’approccio che concentra l’attenzione su quei fenomeni emozionali in cui il gruppo diventa un “tutto indistinto” -  mi limito qui a segnalare, anche per sottrarmi al rischio di eccessive semplificazioni, che questa dimensione del gruppo come un tutto indifferenziato non esaurisce il pensiero Bioniano sui gruppi. Sarebbe interessante che qualche lettore di orientamento Bioniano portasse un contributo al riguardo, non solo sul piano teorico, ma anche con riferimenti alla prassi.

    2. Trovo molto interessante il contributo di Manuela Peserico, che porta significativi elementi di approfondimento, tratti dall’esperienza, rispetto all’utilizzazione delle artiterapie in psichiatria, con particolare riferimento alla formazione dei gruppi.
    Dopo aver letto alcune frasi del mio articolo, citate tra virgolette dalla dott.ssa Peserico, sono andata a rileggere ciò che avevo  scritto nel paragrafo dove sottolineo che le finalità delle attività arte- terapeutiche vanno modulate in relazione a diversi parametri: le caratteristiche dei partecipanti, la gravità del disagio psichico, la stabilità della partecipazione ai gruppi, la loro durata, ecc. Mi sono così resa conto che, in quel contesto, ho scritto una frase dal significato non univoco, che si presta  a dei fraintendimenti, là dove parlo di "…..utenza psichiatrica grave, che partecipa in modo saltuario…..".  In realtà intendevo semplicemente  segnalare, elencandoli,  alcuni fattori che vanno tenuti presenti nel momento in cui "pensiamo" quali finalità può avere quel determinato gruppo. Non era invece mia invece intenzione indicare una stretta correlazione tra 'diagnosi' psichiatrica e frequenza più o meno regolare al gruppo arteterapeutico.

    Parlando di “utenza psichiatrica grave, che partecipa in modo saltuario” pensavo  ad alcune attività arteterapeutiche che ho avuto modo di conoscere attraverso l’attività di supervisione e che si svolgevano nell’ambito di diversi Servizi psichiatrici. Si trattava di Comunità terapeutiche, dove affluivano anche e soprattutto pazienti la cui “gravità”  non dipendeva puramente dalla diagnosi ma anche da un deterioramento globale connesso con la progressiva “atrofizzazione” di importanti funzioni psichiche, espressive, sociali, relazionali. In quel contesto il “laboratorio” di arteterapia era concepito inizialmente come uno spazio al quale chi voleva poteva accedere liberamente, per cui il gruppo aveva confini incerti e la partecipazione non era costante. Proprio tenendo conto di questi limiti le finalità non potevano che essere di “attivazione delle potenzialità espressive, valorizzazione, rivitalizzazione”, come ho scritto. Solo in un secondo tempo, man mano che, pur all'interno di quel contesto,  i gruppi assumevano confini più certi, e si realizzava una maggiore stabilità della loro composizione e partecipazione, fu possibile "iniziare a funzionare come gruppo", realizzando anche, attraverso le attività arteterapeutiche, un maggiore "contatto emotivo con con sè e con gli altri" ed un'apertura "alle relazioni".    Pensavo ancora ad un Centro Diurno, in cui l’invio ai gruppi arteterapeutici veniva fatto dai singoli psichiatri che avevano in carico i pazienti senza una visione d'insieme del gruppo e spesso senza consultare preliminarmente l’operatore o l’operatrice che lo conduceva, di modo che non c’era la possibilità che si sviluppasse, nell’ambito del servizio,  un ‘pensiero’ sul gruppo in quanto tale e sulla sua composizione.  C’è stata poi un’evoluzione di queste situazioni nel corso del tempo. Man mano che i conduttori  acquisivano consapevolezza delle loro capacità e del valore dei gruppi arteterapeutici (inizialmente considerati “figli di un Dio minore”) anche nell’èquipe ha potuto iniziare a svilupparsi un pensiero condiviso sui gruppi stessi. Questo processo ha lentamente consentito una maggiore stabilità della partecipazione e della composizione dei gruppi, cui è stata assegnata una durata più lunga, e tutto questo ha permesso di ampliare le loro finalità e funzioni.

    In ogni caso ben venga il “fra-intendimento”, poiché anche questo ha forse sollecitato la dott.ssa Peserico a mettere in comune la sua preziosa esperienza di utilizzo delle artiterapie nella Riabilitazione psichiatrica e le sue riflessioni, molto puntuali e condivisibili, sulla formazione dei gruppi.

     

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